Kathryn Bigelow: cinema di guerra d'autrice

11 Dicembre 2025

Durante la proiezione di un film, raramente qualcuno si alza e cerca l’uscita della sala senza averci pensato bene. Si tratterebbe infatti di disturbare altre persone sedute a guardare, di procedere a tentoni nel buio, e, soprattutto, di interrompere il patto sancito dal pagamento del biglietto per l’ingresso. Ma, soprattutto, significherebbe sottrarsi alla magica illusione del grande schermo cinematografico, ovvero al sentimento onirico che tutto il mondo, in quelle due ore, coincida con quello che si sta guardando. Purché la copertura della rete telefonica sia assente, il paradosso della temporaneità assoluta di questa messa in pausa della vita lasciata fuori dilata e rende unica l’esperienza e lo spazio del cinema, come quella dei nostri corpi al suo interno. In certe opere, poi, come nei thriller, questa sorta di sequestro paradossale diventa una condizione speciale di cooperazione creativa, perché moltiplica il senso di suspense, la tensione narrativa e l’immedesimazione. Ed è proprio questo il punto da cui è importante partire per parlare dell’ultimo film diretto da Kathryn Bigelow.

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The Hurt Locker, 2008.

Per i lavori di Kathryn Bigelow, per esempio The Hurt Locker (2008), il film con cui era stata la prima regista nella Storia a ricevere un Oscar alla regia, nel 2010, la consegna del corpo di chi guarda all’impatto esaltante delle immagini che scorrono sullo schermo è un valore aggiunto indispensabile; perché nel cinema di Bigelow il linguaggio essenziale (per tecniche, e per costi) del cinema documentario è ripreso ma per essere rovesciato e sofisticato, alla maniera di un action movie. Con il risultato finale di un’opera spettacolare che vuole impressionare e catturare il pubblico – come già succedeva nelle immagini spericolate dei surfisti di Point Break (1991).

Le risorse del cinema come grandiosa macchina produttrice di kolossal sono messe all’opera per concentrarsi su esperimenti drammatici di rottura, rallentamento o accelerazione di un tempo narrativo uniforme, facendoci provare per esempio, mentre stiamo più addosso che si può al corpo dei personaggi, ai loro volti, al loro sudore, la tensione iperrealistica della scena che precede immediatamente un’esplosione, o una cattura – come in Zero Dark Thirty (2012), che in gergo militare significa mezzanotte e mezzo, cioè il momento in cui, il primo maggio 2011, scattò l’operazione militare che portò all’uccisione di Osama Bin Laden.

Il film più famoso e premiato, The Hurt Locker, raccontava la vita di un gruppo di artificieri e sminatori statunitensi, durante una missione in Iraq. Ma non è un lavoro guerrafondaio, anzi, perché il tema al centro non è la guerra, sotto forma di impresa e di sfida, ma l’interesse per come e cosa vivono i corpi dei soldati in situazioni continue di emergenza. Non c’è pathos inutile, né retorica, ma attenzione a restituire la tensione fisica scatenata da un pericolo imminente, portando l’occhio della macchina da presa e di chi guarda il film dentro il momento culminante dello sforzo umano, che viene mostrato e fatto esistere come fatica, vomito, reazione, silenzio carico di adrenalina, piuttosto che soltanto come protagonismo eroico. È cinema di guerra d’autrice: una lotta che racconta sé stessa, esaltandoci anche in senso visivo, ma senza darci lezioni di vita.

Come in tutto il cinema di Bigelow, anche in A House Of Dynamite, si raccontano situazioni di rischio o di stress, spingendoci fino al punto estremo dell’abisso. Il film è stato presentato nello scorso settembre, alla Mostra di Venezia – dove avrebbe meritato un Leone molto più di Father Mother Sister Brother, di Jim Jarmusch. Dopo l’uscita, a ottobre, A House Of Dynamite è rimasto in sala per pochi giorni, per passare subito su Netflix, malgrado si tratti di una delle opere cinematografiche più interessanti dell’anno. Questo velocissimo trasferimento ha un costo alto, di cui si dovrà tener sempre più conto, anche quando si scrive di cinema, perché il pubblico raggiunto dovunque dalle piattaforme digitali sarà molto più numeroso, ma la qualità della visione, anche in quanto esperienza, sarà diversa, venendo meno il patto di sospensione della vita di fuori a cui si accennava all’inizio. Non si tratta di ripetere che era meglio il mondo di prima; ma di capire come parlare di lavori che sempre di più continuano a essere film, ma sempre meno, per come saranno guardati, sono cinema.

Se possibile, allora, si eviti la visione distratta, si tenti di rendersi irreperibili, prima di accendere lo streaming, perché A House of Dynamite va visto vivendoci dentro.

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Olivia Walker in A House of Dynamite.

Lo slogan usato nelle locandine americane è «Not if. When».  Il film infatti mette in scena un nervoso e iperrealistico conto alla rovescia, perché racconta un medesimo lasso di tempo, ma tornando indietro e facendoci riguardare la stessa situazione tre volte, attraverso diverse figure chiave dell’intelligence americana, agli ordini delle quali si muovono molte altre persone.

Siamo in presenza di una comunità sotto attacco: la nostra. A House of Dynamite è infatti un film corale che mostra il tempo che precederà una catastrofe mondiale, vale a dire i diciotto minuti che intercorrono tra il momento in cui i monitor militari del Pentagono segnalano la presenza di un missile a testata nucleare lanciato dal Pacifico, ritenuta sulle prime un test nordcoreano, e il momento in cui il missile entrerà invece in orbita bassa, seguendo una traiettoria che fa prevedere che l’ordigno atterri su Chicago. Ma la tragedia in arrivo resterà fuoricampo, in uno spazio tempo non raggiunto dal film, che invece compone e segmenta il sentimento allarmato di un futuro anteriore sulle espressioni sempre più preoccupate dei tanti protagonisti, tra cui Olivia Walker, la responsabile alla Supervisione della Situation Room della Casa Bianca, a Washington; un generale delle Forze Armate (Tracy Letts); un responsabile del Pentagono; e il Presidente degli Stati Uniti (Idris Elba): molto diverso, sia per aspetto sia per umanità, da quello attuale, e che piuttosto ricorda l’ex presidente Obama. La mimica facciale di Rebecca Ferguson (Olivia Walker), che al centro comandi di Washington domina le sue emozioni, ma simultaneamente sa passare a brevi, silenziosi ma intensissimi attimi di proiezione apocalittica e di disperazione sconfinata, per poi tornare di nuovo al controllo, al cospetto di un pericolo che ormai è evidentemente fuori da ogni possibilità di deviazione, le varrebbero la candidatura all’Oscar come miglior attrice.   

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