L’arte di saper perdere: Il maestro

18 Dicembre 2025

Sport individuale per eccellenza, il tennis da qualche tempo lo è un po’ meno. Ormai a tutti i livelli, ai giocatori in campo è permesso confrontarsi con i propri allenatori in tribuna, sia tramite gesti, sia a voce (se la distanza lo permette, giacché urlare sguaiatamente non si addice all’eleganza storica di questo sport, pur già abbondantemente compromessa). Questa regola ha sanato una violazione già frequente, che costringeva allenatori e giocatori a ingegnarsi per non farsi smascherare palesemente mentre comunicavano.

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Andrea Di Stefano (a destra) con Pierfrancesco Favino sul set (ph. Andrea Miconi).

Gli allenatori fanno parte dell’azione e anche per questo, durante la trasmissione televisiva delle partite, vengono inquadrati come controcampo al gesto sportivo, alternati ad amici e familiari che rappresentano invece il controcampo emotivo, diventando parte integrante del racconto per immagini delle sfide tennistiche: in Italia, i nomi e i volti di Simone Vagnozzi e Darren Cahill sempre presenti nell’angolo di Jannik Sinner hanno raggiunto una certa notorietà. Perciò è una notizia anche quando un tennista famoso cambia allenatore, magari per sostituire quello che lo seguiva da quando era un ragazzino (per Sinner fu Riccardo Piatti, lasciato nel 2022) oppure un genitore non più adeguato al doppio ruolo. Andrea Di Stefano, nella sua giovinezza tennistica prima di intraprendere la carriera di attore e regista, non ha ottenuto risultati di rilievo, perciò non ha potuto ambire neppure ad allenatori o accademie prestigiose; ha però fatto tesoro delle sue esperienze e le ha riversate, con tanto di riferimento scherzoso dedicato al padre nei titoli di testa, nella storia di Il maestro, laddove quel maestro è certamente di tennis, ma dovrebbe diventarlo anche un po’ di vita, secondo le aspettative di questo genere di storia.

Stiamo osservando la migliore epoca nella storia del tennis italiano per risultati ottenuti e anche il cinema spera di sfruttarne il traino. Di Stefano conosce il calendario tennistico e sicuramente ha apprezzato che il suo film sia stato presentato fuori concorso a Venezia 82 negli stessi giorni in cui si stavano svolgendo gli US Open (il sottoinsieme sfortunato della popolazione che è sia cinefilo sia amante del tennis sa bene che le date di svolgimento della Biennale Cinema e del prestigioso torneo statunitense coincidono sempre); e poi che l’uscita in sala sia stata fatta cadere nella settimana delle ATP Finals di Torino. Il tennis raccontato nel suo film, però, è lontano sia nel tempo, sia nella dimensione competitiva.

Il protagonista, Felice (Tiziano Menichelli), è un tennista tredicenne tra i migliori della sua età in ambito regionale. Suo padre, l’ingegnere Pietro Milella (Giovanni Ludeno), che lo ha sempre allenato, lo ritiene pronto per partecipare ai tornei giovanili del circuito nazionale; sperando in un salto di qualità, ingaggia un allenatore individuato tramite annuncio su una rivista. Raul Gatti (Pierfrancesco Favino) si pubblicizza come ex professionista che in carriera aveva raggiunto gli ottavi di finale agli Internazionali d’Italia quando quel risultato, per un tennista italiano, era considerato prestigioso. Raul e Felice partono da soli, avendo definito un fitto programma di tornei cui iscriversi; il signor Milella resta a casa, in attesa spasmodica di notizie, confidando di avere scelto bene il maestro cui affidare il destino sportivo e anche, secondo le sue esagerate aspirazioni, il futuro economico del ragazzo.

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Tiziano Menichelli.

Il diciassettenne Michael Chang aveva appena sconfitto il numero uno del mondo, Ivan Lendl, al Roland Garros di Parigi, il più importante torneo che si svolge su terra battuta: questa informazione citata da Milella colloca la storia nell’estate del 1989. Il giovane statunitense di famiglia taiwanese fece crollare mentalmente l’affermato campione nell’incontro degli ottavi di finale, per poi vincere le tre partite successive e quindi il torneo; si fece notare anche durante le pause di gioco mangiando banane per assimilarne il potassio, un gesto banale ma inedito su quei campi, che contribuì a definirne l’immagine subito spendibile con gli sponsor. La giovane età di Chang è il motivo per cui Milella vuole che suo figlio non perda tempo, anzi teme che Felice sia già in ritardo nel percorso per diventare un campione. Eppure, nell'epoca scelta da Di Stefano, che ha scritto la sceneggiatura assieme a Ludovica Rampoldi, il tennis non era uno sport popolare come lo è diventato oggi in Italia. Giravano molti meno soldi: rispetto al montepremi del Roland Garros del 2025 (circa 56 milioni di euro), la cifra del 1989 era oltre dieci volte inferiore. Pochi anni dopo, a partire dalla primavera del 1992, la televisione a pagamento Tele+2 iniziò a criptare le dirette sportive, rendendo un’esclusiva per gli abbonati la quasi totalità del circuito tennistico di cui acquistò i diritti di trasmissione. Meno ricco e meno visibile rispetto a oggi, il tennis emanava l'aura dello sport di élite, primeggiando nel quale di poteva effettuare un vero e proprio salto di classe sociale.

In un'epoca successiva, dall’altra parte dell’Atlantico, la guardia giurata Richard Williams decise che le figlie sarebbero diventate campionesse di tennis ancor prima che nascessero; le allenò personalmente per anni, affrontò l'onta di non poter pagare un maestro di tennis per entrambe, riuscì a farle ammettere in un'accademia ma senza rinunciare a influenzare pesantemente ogni loro scelta di carriera e di vita. Quella raccontata nel film Una famiglia vincente - King Richard, incentrata sul padre delle sorelle e future campionesse Venus e Serena Williams, è la storia vera di un riscatto sociale perseguito attraverso lo sport e per interposta persona: non solo il modo di migliorare il proprio status economico, ma anche la rivincita degli atleti neri capaci di farsi strada in uno sport dominato da bianchi benestanti. Come il vero Richard Williams, anche il fittizio padre/allenatore Pietro Milella è spinto da un misto di motivazioni economiche e sociali. Non accontentandosi di far parte della classe media che risparmia e rinuncia, è disposto a imporre sacrifici a sé stesso, ma anche a moglie e figlia, pur di investire nel talento di Felice scommettendo sui futuri montepremi guadagnati con le vittorie; lo sport poi è uno degli ambiti in cui i meridionali come lui possono farsi apprezzare in tutto il paese, e l’accento napoletano sornione del maestro Gatti gli deve essere sembrato un ottimo esempio.

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Menichelli e Favino.

Durante il film si vedono tanti campi in terra rossa, ma poca azione tennistica; peraltro si riesce a intuire quanto siano noiose quelle partite tra adolescenti, che Felice contribuisce a peggiorare per come le imposta. Il tennis che Pietro Milella ha insegnato al figlio attraverso esercizi e schemi rigidi, appuntati manualmente su quaderni amatoriali, è concepito come una lotta di classe: gli intima di giocare sempre da fondo campo, in maniera difensiva, perché il gioco d’attacco imprevedibile e fantasioso, perciò rischioso, è una cosa da ricchi, cioè di chi non ha nulla da perdere. Pochissimi azzardi, tanta sostanza, colpi martellanti che assurgono a simbolo dell’ostinazione delle classi non privilegiate. Felice è stato educato non a cercare di vincere, ma a far perdere l’avversario: come dire che in partenza si accetta il proprio ruolo subordinato (nello sport come nella vita) e per affrontare la scalata sociale non si cercano scorciatoie.

Il padre di Felice è un uomo coerente che a sua volta ragiona per piccoli passi. Lo stipendio da ingegnere dell’azienda telefonica è sufficiente a mantenere dignitosamente la famiglia, persino a portarla in vacanza una volta all’anno, ma non basta anche per sostenere economicamente la carriera sportiva di Felice oltre il livello regionale. C’è un legame morale, tra l’insegnamento di giocare con pazienza colpo dopo colpo senza strafare, e il piano di aumentare i risparmi familiari tagliando le uscite e aumentando le entrate con lavori estemporanei che gli rubano completamente il tempo libero. Si ragiona lira dopo lira, colpo dopo colpo, senza speculazioni. Il difetto di questa attitudine è che nel tennis raramente si vince senza osare, come in genere non ci si può arricchire rapidamente senza correre dei rischi. Poi Milella commette un altro errore, sebbene in buonafede: non si accorge subito che il maestro che assolda, più competente di lui sul tennis, è però molto lontano dai suoi valori morali.

Raul Gatti è uno sciupone. Con le donne, innanzi tutto: imperterrito sciupafemmine già nella scena iniziale, al telefono, senza che l'interlocutrice capisca che chi le parla si trova in una clinica. Chi invece lo incontra dal vivo e lo riconosce, ne ricorda il talento: anche quello, evidentemente, del tutto sciupato. Le tensioni crescenti del ruolo di maestro di un ragazzino non facilmente malleabile portano a galla le fragilità psicologiche che gli hanno impedito di affermarsi nello sport e nella vita. Il paradosso di un uomo incapace di dedizione e impegno, motivo per cui non ha saputo mettere a frutto le sue doti innate, è che si trova ad allenare un giovane atleta cui non manca affatto il senso di sacrificio, che però da solo non basta a forgiare la predisposizione innata a essere un campione senza cui non si può emergere.

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Pierfrancesco Favino.

“La vita ti sorride”, dice Raul poco convinto davanti allo specchio, come esercizio per illudere la sua mente depressa: non essendo in grado di ingannare sé stesso, non può neppure ingannare Felice. Non riuscire a nascondere la propria debolezza concede sempre un grande vantaggio all'avversario dall’altra parte del campo; lo si può confondere solo quando la debolezza si manifesta palesemente, ad esempio evidenziando un proprio infortunio, ed è la carta che gioca Raul quando dalle donne del suo passato riesce a ottenere indulgenza, anche se non perdono. Ma con Felice funziona solo in parte: non si trasforma da maestro di tennis a padre putativo e per quanto Favino sappia renderlo a tratti irresistibile, riesce anche a farlo sembrare più infantile del tredicenne del quale deve prendersi cura. Il suo essere tanto distante dal modello paterno di Felice, però, lo rende il perfetto strumento per far scattare nel ragazzo l'idea di un parricidio immaginario.

Sarebbe riduttivo rilevare che il migliore insegnamento che Raul possa dare a Felice, pur provando a farlo diventare un vincente, è l’accettazione della sconfitta, possibilità mai seriamente presa in considerazione dal ragazzo illuso dalla sicurezza messianica del padre. Quando cerca di spingerlo a differenziare il suo noioso e prevedibile gioco da fondo campo, plasmato da anni di allenamenti asfissianti, lo allontana dalla figura paterna sapendo allo stesso tempo di non poterla sostituire. Cosa sono allora le variazioni che prova a suggerirgli? Il serve & volley, quella avventurosa e un po’ incosciente corsa verso la rete dopo il servizio che rende il futuro più repentino e imprevedibile, è un colpo proibito che Felice non ha mai osato tentare; anche solo immaginare di azzardarlo è il principio di una ribellione al destino già scritto per lui da qualcun altro, l’affermazione della capacità di saper decidere autonomamente, un ingresso nell’età adulta che impone responsabilità per le proprie azioni.

Nel tennis, se si sbaglia il primo servizio, c’è sempre la possibilità rassicurante di un secondo tentativo: Raul sembra reclamare una seconda di servizio per ogni guaio combinato, senza capire che la sua partita è già terminata, ed è terminata per ritiro, anziché lottando con coraggio fino all’ultimo punto. Non può insegnare a Felice come essere un vincente né lo vuole condannare a essere un perdente, ma decide di prepararlo ad arrivare in fondo alle inesorabili sconfitte, purché ci arrivi a modo suo. Se c’è un insegnamento che il maestro lascia al suo allievo è che, quando si perde, non bisogna accettare di farlo alle condizioni imposte da altri.

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