Live Arts Week Bologna / Simon Vincenzi: l’orgia di Sileno “a segnale spento"

9 Maggio 2019

Live Arts Week, la Settimana della performance che da molti anni, sotto varie fogge e in diversi luoghi cittadini, si svolge a Bologna subito dopo l’inizio della primavera, sin dalla prima edizione nel 2012, si è accordata al nome di una identità globalizzata e futuribile ma essenzialmente assente, che è Gianni Peng, un doppio nome tipicamente in uso tra i cittadini cinesi naturalizzati in Italia. Una specie di identità collettiva, o un luogo vuoto da riempire di potenziali soggetti giuridici, che comprende al suo interno la possibilità di immaginare un fluttuante paesaggio politico – nel senso originario della città – alla base del quale semplicemente proiettare la macchina lenta ma inesorabile del desiderio. Ogni anno un autore diverso, un artista o un filosofo, sotto mentite spoglie o no, firma una specie di editoriale, che di consuetudine apre il quaderno del festival, assumendo l’identità ibrida e illegittima di Gianni Peng, scoprendone parte di un piano segreto che agisce di soppiatto (leggi qui). L’intero progetto è viroticamente permeato da questa “figura” che non è tematica perché non “ci lega”, ma piuttosto è il punto di fuga, il dispiegamento di un orizzonte dei possibili. Peng è un pass par tout perché può guadagnare differenti accessi all’idea di un contemporaneo distinto ma multiforme. L’identità composita, beffarda e leggera al contempo, di Gianni Peng, nella linea parabolica del festival, si è rivelata capace di tenere il passo, o forse meglio di tenere “assieme” realtà performative di natura diversa (in certi casi lanciando anche terminologicamente le live arts, o arti dal vivo, nel contesto di diverse scene italiane) e convertire un’idea astratta come può esserlo quella di un meticciato occidente/oriente, in luoghi urbani concreti, dove il desiderio si fa spazio. Lo si legge nella nota introduttiva, dei due direttori del festival, sotto il marchio unico di Xing, Daniele Gasparinetti e Silvia Fanti, in apertura del catalogo: Peng trafora la città.

Prima di seguire un programma, il pubblico di Live Arts Week segue un flusso che negli ultimi tre anni convergeva “fuori le mura” della città, nella Ex GAM, la Galleria d’Arte Moderna ormai da tempo riconvertita a scopi fieristici e riaperta all'arte per queste occasioni annuali, così come il Padiglione Esprit Nouveau, architettura abitazione/show room di Le Corbusier, entrambe nel quartiere della Fiera. L’edizione di questo Aprile 2019, riporta la direzione del flusso verso il centro, si lascia indietro il bordo urbano ed entra nella City, in alcuni luoghi, deputati all’arte o no, ma raramente aperti al pubblico “vivente” della performance – per esempio il salone degli Incamminati della Pinacoteca, l’aula Magna dell’Accademia di Belle Arti, o la centralissima ma mimetica Chiesa Evangelica Metodista – e, insieme, scopre luoghi che per statuto catastale sono spazi privati. È il caso del Cinema Modernissimo, in corso di restauro sotto l’egida di un progetto curato dalla Cineteca di Bologna; o l’interno di uno studio privato di Palazzo Volpe; o, infine, Palazzo Pezzoli, antica dimora nobiliare nel primo tratto di portico di Via Santo Stefano. La mappa dei siti in cui si svolgono le performance rende manifesta una delle cifre di Live Arts Week che si avvale inizialmente di uno studio preparatorio di luoghi che diventano la condizione di esposizione dell’opera o, in certi casi, la premessa perché questa assuma la forma della committenza, una relazione negoziale tra le parti in gioco nella creazione che raccorcia radicalmente la distanza tra produttore e prodotto. Un evento culturale si contraddistingue solitamente per l’attitudine che richiede al fruitore. A noi spettatori “spetta” immergerci nel flusso delle live arts, calarci nei trafori operati da Gianni Peng.

 

Simon Vincenzi. From the Dead Air Orgy, The song of Silenus © Luca Ghedini

 

Simon Vincenzi

From the Dead Air Orgy è l’opera commissionata da Live Arts Week all’artista londinese Simon Vincenzi che in Italia abbiamo felicemente scoperto quando Romeo Castellucci, direttore nel 2005 della Biennale Teatro di Venezia, invitò Bock & Vincenzi (il nome del gruppo quando ancora Simon lavorava in duo con Frank Bock) a presentare al pubblico italiano lo sviluppo di un progetto di lunga durata, andato in scena in una delle forme più conchiuse nel 2003 sotto il titolo di Invisible dances… From afar: A show that will never be shown. Dandosi a priori come invisibile e lontana, la danza, che non si sarebbe mai mostrata al pubblico. Solo tre presenze avrebbero “portato” la loro testimonianza: la poetessa e drammaturga Fiona Templeton dalla platea registrava la sua esperienza di uno spettacolo che raccontava al telefono; la performer Rose English trascriveva ascoltando lo spettacolo in cima alle scale del teatro, tra il camerino e il palcoscenico; il medium James Brown era invitato a captare gli spiriti presenti durante le due ore di svolgimento della performance. Una macchina fotografica era piazzata dietro le quinte e regolata in modo da aprire il diaframma per l’intera durata di ognuna delle 36 scene della performance. L’evento era “sold out”; ovvero aveva già congegnato/concertato (o ingoiato) a priori tutto ciò di cui un avvenimento performativo necessita per essere, alla lettera, tale: memoria letteraria dello spettatore (trasformazione dell’evento in racconto e scrittura personale); memoria auditiva, nella soglia sensibile tra il visto e il non-visto; infine l’apparizione, il concepimento del fantasma, tutto ciò che l’evento solleva da terra per farlo vagare attorno allo spazio della visione come gli spiriti vagano una casa abbandonata. In seguito alla commissione della Biennale, l’episodio veneziano delle danze invisibili, spostò la prospettiva da Lontano (from afar) all’Altrove, anche in questo caso il titolo era programmatico e non allusivo:

Qualcosa di profondamente visionario e definitivamente teatrale era in atto a Venezia nel settembre del 2005 e il lavoro L’Altrove di Frank Bock e Simon Vincenzi divenne il luogo della rivelazione: un precipitato. La ricerca attorno alle Invisibles dances, che si risolse in un epilogo presentato nel maggio 2006 a Bruxelles, al KunstenFestivalDesArts, aveva un obiettivo o usava un mezzo, spostare la sorgente del gesto (cancellare il referente diretto): nessuno dei danzatori, tra i quali molti non-vedenti, agiva sé stesso, ma ognuno seguiva partiture e traiettorie di altri, movimenti e gesti catturati e dettati da video o da auricolari. Ciò che sembra essere una macchinazione della tecnica, come le macchine barocche cattura-fantasma dei gesuiti, diviene in realtà uno scavo dell’umano perché fa slittare in modo millimetrico gli esiti di un’azione. Quando il gesto è assunto e non agito, si “concepisce” il fantasma, perché quel gesto non è mai veramente lì, ma altrove; e chi ha avuto il privilegio di essere presente alle danze invisibili si godeva un viaggio nell’aldilà, né più né meno.

 

Simon Vincenzi. From the Dead Air Orgy, The song of Silenus © Luca Ghedini

 

Nelle stanze nascoste di palazzo Pezzoli

Era indispensabile una premessa non solo perché la ricerca artistica di Simon Vincenzi ha avuto congiunzioni interessanti con l’Italia, rinnovate ora dalla nuova committenza di Live Arts Week, ma soprattutto perché non sembra avere subito arresti. Semmai – e lo si intuisce da subito tra le righe di presentazione del lavoro – essa persegue inesorabile quel segnale intermittente in cui l’evento performativo, tra memoria e oblio, può affiorare alla vista e lasciare di sé tracce luminescenti, o inabissarsi per sempre abbandonando gesti e oggetti vuoti. Per stare in questo bilico è necessario operare su più dispositivi, linguistici e tecnici, capaci di catturare o liberare la visione, allontanare il tempo, sconnettere il naturale scorrere del qui e ora; in breve, ricorrendo a una illuminante espressione di Joe Kelleher, “fare soffrire l’immagine”.

From the Dead Air Orgy, in collaborazione con il musicista Will Saunders e la performer Kath Duggan, si svolge in tre giorni, a palazzo Pezzoli, nelle stanze nascoste sopra un negozio specializzato in prodotti di enologia e processi di vinificazione, ed è costruito su tre piani di fruizione: una performance che per tutta la durata scorre a partire dal tardo pomeriggio fino a sera; una diretta in streaming perennemente attiva durante l’evento (tuttora disponibile); e, infine, un appuntamento con orario fisso, in cui si entra alle 24:00, e si esce solo quando tutto è finito.

 

Non può passare inosservato nell’introduzione al progetto di Simon Vincenzi il richiamo all’egloga VI di Virgilio. Il componimento fa parte delle Bucoliche, che il poeta latino, utilizzando il canone della poesia agreste, scrisse attorno al 40 a.C. Il riferimento è eccentrico, anche semplicemente per la tipologia di letteratura che convoca, difficilmente diffusa fuori dai luoghi usuali della filologia classica. Presto si scopre che la connessione prodotta da Simon Vincenzi ha a che fare con la figura centrale dell’egloga, cioè Sileno, il vecchio saggio istruttore di Dioniso fanciullo, che insieme a Baccanti e Ninfe partecipa della corte dionisiaca, comunemente rappresentato con busto umano e attributi caprini, dotato di virtù profetiche quando sotto l’effetto dei fumi del vino. Lo stesso cui Nietzsche, ne La nascita della tragedia, mette in bocca il celebre monito, rivolto al genere umano: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente”.

 

Simon Vincenzi. From the Dead Air Orgy, The song of Silenus © Luca Ghedini

 

Nella VI egloga, dopo l’usuale richiesta alle Muse di dare fiato al canto, si narra di due satiri che sorprendono Sileno addormentato in un antro con le vene gonfie del vino del giorno prima. Con l’aiuto della più bella delle ninfe, Egle, i tre legano Sileno e lo costringono al canto, da troppo tempo negato. Sileno intona il suo canto, che avrebbe raggiunto le stelle (ad sidera), cominciando dall’inizio del mondo, dall’aggregazione di atomi e elencando le stirpi divine e umane… In realtà l’idillio agreste fa da sfondo a un truce paesaggio storico-politico, quello della guerra civile e delle espropriazioni delle terre ai contadini. Virgilio è il poeta di un mondo che volge al termine, e su questa mestizia della fine si innescava lo straordinario romanzo di Hermann Broch, La morte di Virgilio, che narra in un voluminoso volume le ultime diciotto ore del poeta. L’Arcadia delle egloghe virgiliane è sonnolenta e abbandonata, vi rimangono soltanto i segni senza contenuto di un Epos oramai trascorso, di una Storia già avvenuta.

Quello che per Simon Vincenzi, probabilmente era un nesso chiaro stabilito tra il negozio di prodotti enologici ospitato a Palazzo Pezzoli e il mito della sbornia cronica e divinatoria di Sileno, genera altri nessi e supera la contingenza perché negli spazi della dimora nobiliare Simon Vincenzi ci accompagnerà nell’esperienza di un tempo trascorso, qualcosa che è già avvenuto qui o altrove, ma non ora. Il titolo allora appare chiaro: From The Dead Air Orgy ci avverte che la performance agisce da un’orgia (orgy), “a segnale spento”: Dead Air è tecnicamente il segnale mandato in etere per avvisarci che la trasmissione è interrotta (per un guasto tecnico, una sospensione della diretta, oppure per un vuoto di programmazione): una morte è avvenuta nell’etere. Il titolo è, insieme, dichiarazione e istruzione, serve saperlo prima di entrare, dobbiamo sapere che qualcosa è scomparso nell’atmosfera, che l’orgia si è dissolta tra le stelle, e noi spettatori siamo chiamati ad arrivare dopo tutto questo, molto tempo dopo; e che ci si esporrà da questa scomparsa. Per tre giorni. A segnale spento. L’evento è sidereo (come il canto di Sileno).

 

Simon Vincenzi. From the Dead Air Orgy, The song of Silenus © Luca Ghedini

 

Fantasmi e sibille

Palazzo Pezzoli è al numero 7, di Via Santo Stefano. Il portone di legno massiccio è sbarrato e un cartello dice di picchiare il battente per farsi aprire. Ad accogliere un uomo, alto elegante freddo, che registra la nostra presenza nel palazzo, scrivendo su un computer qualche riga per contrassegnare chi entra: pochi tratti, colore del vestito o dei capelli, o possibile relazione tra le persone con cui si entra (più tardi scopriremo che le segnalazioni sono mandate nella chat live dello streaming). Dal vestibolo si accede a un lungo corridoio, a sinistra un cavedio a cielo aperto (nei giorni dopo da lì cadrà di tanto in tanto uno scroscio di pioggia); lungo la parete destra scaffali con materiali enologici e altro, piatti, scatole varie. Seguiamo la direzione del corridoio per inforcare e salire l’ampia scala di un palazzo nobiliare che porta su un atrio. Un guardaroba, sull’angolo, fa pensare che già qualcuno sia entrato lasciando i cappotti (quindi tolgo anch’io il mio e lo appendo insieme alla sacca). Un punto luminoso, una tenda che copre un ripostiglio, ma non è un varco. La porta di accesso è quella che introduce a una camera in cui sta succedendo qualcosa. A un ampio tavolo sono seduti due performer (Simon Vincenzi e il musicista Will Saunders) che lavorano con il capo chino sui loro computer.

Quello che durante le visite a palazzo Pezzoli si ricostruisce, anche avvicinandosi molto al tavolo dei performer, stando alle loro spalle e spiando le azioni misteriose per decodificarle, è che i due artisti manipolano suoni e immagini, lavorano sovrapponendo repertori di esplosioni stellari, galassie, pianeti atomi e materie cosmiche a due immagini che restano sempre fisse, e sono le stesse che vengono riprese da telecamere e inviate sul live: il soffitto della camera e il boccascena di un teatrino (ma dov’è? allora c’è una scena, da qualche parte?).

 

Al centro la performer (Kath Duggan) intesse piccole sequenze danzate, o altre volte intona gorgheggi, serie di esercizi per scaldare la voce. La performer si rifornisce di immagini o parole andando al tavolo. Si siede davanti al computer, trova audio che ingoia dalle orecchie e restituisce con la bocca in parole dal suono piacevole e vagamente inglese, ma probabilmente senza senso. La sua cavità orale viene riprodotta sullo schermo del computer, ingrandita, e contemporaneamente trasmessa in diretta. La performer riconquista una posizione più o meno centrale nella stanza, e torna. Da dove torni e dove vada è molto difficile stabilirlo, perché la sua azione non è mai mimetica così come gli altri due artisti, nonostante immersi in una pratica, non è mai così evidente cosa stiano agendo. La scena, nei tre giorni, appare sempre all’incirca questa. Il nucleo è quello dello sfondo mitologico che ha messo in moto la macchina della visione: i tre sono gli esseri leggendari (The Three) che hanno fermato Sileno per strappargli il canto e qui, attorno al tavolo e nel centro della camera, stanno preparando la scena perché questo avvenga, non sappiamo quando e dove, ma forse qualcosa si prepara, visto che qui tutto è già passato.

Nella piccola stanza a cui si accede da quella centrale, per terra il giaciglio abbandonato da Sileno con attorno le ghirlande scivolategli dal capo. Anche lui ha già abbandonato la scena (ricordiamo che lo storico dell’arte Aby Warburg colloca Sileno in una delle tavole del suo Atlante delle immagini per il suo “costume teatrale”). E dunque chi canterà? Sulla parete ricoperta di una sbiaditissima carta da parati floreale è appesa la riproduzione di un’immagine celebre proveniente dalla villa dei misteri di Pompei, in cui Sileno è ritratto con attorno fanciulli.

Dietro quella tenda, ci sarà un teatro?

 

Simon Vincenzi. From the Dead Air Orgy, The song of Silenus © Luca Ghedini

 

La prima visita a Palazzo Pezzoli è una ricognizione di spazi, una presa di confidenza con un’aria che serpeggia lì dentro, qualcosa che sicuramente ha uno stretto legame con la produzione “tecnica” di un’intensità. Ci vorranno dei giorni per mettere a fuoco gli oggetti sparsi nello spazio labirintico, per capirne la trama e individuare cosa era già nel luogo e cosa è stato “posato”. Ogni oggetto ha un tempo diverso, anche gli abiti appesi non erano di qui, forse altri spettatori hanno consumato il dramma e questo marca la performance e l’attitudine ad abitarla. Il godimento è stare, abitare un transito, e poterci ritornare a più riprese. Siamo alla ricerca di una redenzione, di chi “nei suoi atti ci farà cogliere l’evento incomprensibile di questo tempo?” (M. Blanchot, Il libro a venire)

Alla mezzanotte scoccata rientriamo nella camera centrale. Una donna velata, ma con la bocca scoperta e terrifica, come doveva essere quella delle profetesse o delle sibille dei misteri, forse messa in evidenza da qualcosa che la rende fluorescente, intona un canto fatto di parole sonore ma non comprensibili. Si aggregano atomi, filamenti di materie brute, corpi e masse stellari. Si ricomincia dall’inizio del mondo. Il canto si libera e ci libera.

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