Cutolo, Tornatore e l’occasione mancata
La parabola umana e criminale di Raffaele Cutolo rivaleggia con la finzione cinematografica. Nato nel 1941 a Ottaviano, piccolo comune alle pendici del Vesuvio, figlio di contadini analfabeti, Cutolo costruì dal nulla e da solo quella Nuova Camorra Organizzata (NCO) che ha segnato un decennio di vita e malavita italiana. Lo chiamavano ’o Professore perché gli piaceva studiare, fare citazioni e impartire lezioni di strategia agli affiliati. La sua figura trascende quella dei “boss” ai quali ci hanno abituato le cronache recenti: Cutolo fu vero autore-regista della propria leggenda, un demiurgo che seppe fondere ideologia ribellistica, anima popolare e avidità assassina in un progetto totalizzante. Definiva se stesso “difensore dei poveri e vendicatore”. Si paragonava a Castro, Zapata e Pablo Escobar, perché la NCO non fu soltanto un’organizzazione criminosa ma un esperimento sociale, un’utopia violenta che prometteva al sottoproletariato campano il risorgimento attraverso la costruzione di uno stato parallelo.

Peccato che il cinema non sia stato capace di restituire in immagini un’esistenza così manifestamente larger than life. L’unico tentativo, Il Camorrista, diretto nel 1986 da un’allora esordiente Giuseppe Tornatore, è un’occasione mancata, un film che, malgrado le ambizioni, non è all’altezza del suo soggetto. Oggi, con la versione integrale proposta da Amazon Prime (lo sceneggiato in cinque puntate che venne rifiutato dalla Rai), la durata è raddoppiata, ma il risultato è lo stesso. Invece di fissare sullo schermo la dimensione tragica di Cutolo, lo riduce a un personaggio malinconico e a tratti piagnucoloso, interpretato da Ben Gazzara costretto in un ruolo che non è il suo. Il vero Cutolo era frenetico, istrionico, con uno sguardo spiritato e una parlata tagliente, sempre in movimento e sull’orlo del parossismo nervoso. Le rare interviste mostrano un uomo di cui ogni gesto tradisce l’inquietudine. Gazzara invece lo interpreta con la stessa rassegnazione del killer controvoglia protagonista di L’assassinio di un allibratore cinese di John Cassavetes: le palpebre a mezz’asta e il corpo ingessato, più simile a un sopravvissuto che a un despota in azione. Il problema del film, comunque, non è tanto l’interpretazione di Gazzara quanto la regia di un Tornatore alle prime armi: incerto tra il dovere di cronaca e la tentazione dell’epos, non imbocca né l’una né l’altra strada. Ne esce un lavoro piatto, privo del ritmo e delle torsioni di montaggio che avrebbero potuto riprodurre l’atmosfera isterica della NCO. Allo spettatore rimangono impresse solo due sequenze: l’arrivo di Cutolo a Poggioreale, che ricostruisce con qualche verisimiglianza l’ambiente carcerario dell’epoca, più un bailamme da girone dantesco che un istituto di pena. E poi il finale, quando, messo in isolamento all’Asinara su richiesta del presidente della repubblica, Cutolo fa l’ora d’aria farneticando su un esercito di soldati celesti che verrà a liberarlo.
Nel complesso, erano più coraggiosi i poliziotteschi degli anni Settanta, con le loro sparatorie girate come spettacoli voyeuristici e i momenti di noia sospesa. Quasi involontariamente, avevano creato uno stile unico: un realismo allucinato fatto di primi piani incongrui, zoom improvvisi e musiche ossessive che rendono percepibili la violenza urbana e gli spazi “desertici” delle periferie. Quei film gettano un ponte verso il cinema più recente sulla criminalità, come Gomorra, dove immagini molto fisiche ed espressionistiche cercano di mettere a fuoco non soltanto ciò che è visibile ma anche le tensioni e i conflitti nascosti, preferendo all’esposizione lineare una messa in scena sensoriale e discontinua. Il Camorrista, invece, è un raccontone corretto e “ben fatto”, sostanzialmente innocuo, come se Tornatore avesse avuto paura di ustionarsi con la materia incandescente che gli era capitata fra le mani. Manca il colpo di reni che avrebbe potuto farne il nostro Scarface, la biografia di una nazione. Perché l’utopia feroce della NCO è stata lo specchio deformato di un Mezzogiorno – e di un’Italia intera – dove la protesta sociale diventa apologia dell’omicidio e numi tutelari sono i delinquenti.

Per comprendere la portata rivoluzionaria della vita di Cutolo, bisogna pensare al momento in cui la NCO nacque: gli anni Settanta, che in Italia furono un periodo di smottamenti sociali e politici, con il terrorismo delle Brigate Rosse e una crisi delle istituzioni senza precedenti nella storia repubblicana (d’accordo, le istituzioni italiane sono sempre in crisi, ma in quegli anni lo erano più del solito). Fu in questo clima che Cutolo, già detenuto per omicidio, iniziò a immaginare una camorra diversa: non più arcipelago di cosche, ma organizzazione centralizzata. La sua intuizione decisiva fu che, per mettere ordine dentro la massa dei diseredati, la violenza e la paura non bastano: bisogna anche creare un’identità comune, un mito in cui gli affiliati possano riconoscersi. Così inventò un sistema di simboli, rituali e codici che fecero della galassia criminale camorristica una vera e propria contro-società, con gerarchie ben definite (dai picciotti d’onore agli sgarristi fino ai santisti) e un senso di appartenenza così profondo da trasformare ogni affiliato in militante di una guerra permanente contro lo Stato. Cutolo riuscì a fare leva sulla retorica del “riscatto” e, soprattutto, a trasformare le carceri, tradizionalmente luoghi dove le bande si sfaldavano, in centri di reclutamento e rafforzamento della NCO.
Quest’ultima fu un’opera criminale totale nel senso più pieno del termine. Cutolo era al tempo stesso lo sceneggiatore, ossia ideologo del movimento, il produttore, cioè stratega dell’organizzazione e, in quanto carismatico leader, anche l’attore principale. La sua personalità accentratrice e paranoica, dominata da un delirio di onnipotenza, rese impossibile qualsiasi delega dei poteri, proprio come accade con certi tiranni del cinema, quei registi che, sebbene fuori moda in tempi di ipocrita collettivismo creativo, sono gli unici in grado di firmare autentici capolavori. Persino i soprannomi dei membri della NCO sembravano fatti apposta per un film. Evocativi e pittoreschi, rendevano immediatamente riconoscibile la dimensione mitica e spettacolare di quell’organizzazione: Enzo Casillo detto Nirone per la sua chioma corvina, Giuseppe Puca detto Giappone per via degli occhi, Pasquale Barra detto ’o Studente perché devotissimo di Cutolo, Antonio Lucarelli ’o Prete, Corrado Iacolare ’o Psicologo. Non durò a lungo. Come tutte le opere totali, la NCO crollò sotto il peso della propria hybris: quello che era nato come un progetto quasi rivoluzionario divenne una sanguinaria caricatura di se stesso, divorato dai conflitti interni e logorato da una lotta senza quartiere contro i clan rivali, con i quali Cutolo non riuscì mai a stipulare una tregua duratura e che alla fine ebbero la meglio.

È curioso che un personaggio come Cutolo abbia lasciato così poche tracce nel nostro immaginario. A differenza di certi mafiosi diventati icone pop (pensiamo a Totò Riina), non ha ispirato nessuna produzione artistica di livello. L’unica eccezione è Don Raffaè di Fabrizio De André, la ballata di uno scalcagnato secondino che si intrattiene con un carcerato al quale si rivolge come a una specie di padreterno. Fin dal titolo è chiaro a tutti di chi si tratta. Cutolo, dopo aver ascoltato la canzone, scrisse a De André per esprimergli la sua ammirazione. Il cantautore gli rispose una volta, poi smise, non per pruderie ma per prudenza: in Italia, spiegò, basta molto meno perché un magistrato ti metta sotto inchiesta. Chissà che epistolario ne sarebbe venuto fuori. Un’altra occasione mancata.
Scomparso nel 2021 nel carcere di Parma, dove stava scontando una condanna a cinque ergastoli, per le conseguenze di una polmonite da Covid-19, Cutolo rimane sospeso nel limbo della nostra memoria, tra storia, leggenda e oblio, in attesa di un regista che abbia il coraggio di trasformare la sua vita in un vero film. Ci vorrebbe un Welles, capace di coglierne la dismisura scespiriana, o un Coppola, che magari ne farebbe una saga sulla caduta di un regno. Ma forse, più semplicemente, servirebbe qualcuno disposto a guardare in faccia l’Italia di Cutolo: un paese dove ogni tentativo di riscatto è prevaricazione, le speranze si riducono a inganni, e i sogni di grandezza coincidono con la realtà di un potere violento che divora se stesso. A dire il vero, qualcuno già ci sta provando. Sempre che non gli mettano i bastoni fra le ruote. Risale a un paio di mesi fa la notizia che il Palazzo Mediceo di Ottaviano – ex quartier generale della NCO – è stato interdetto a una troupe che voleva usarlo per girare una nuova serie tv dedicata a o’ Professore. Il sindaco ha motivato così il suo rifiuto: “promuoviamo un’immagine positiva del territorio”. Il giovane Andreotti, che almeno non parlava come l’impiegato di un’agenzia turistica, diceva che i panni sporchi si lavano in famiglia. C’è chi vorrebbe fare del cinema e chi invece vuole riempire gli schermi di preti investigatori ed eroi tutti quanti della Benemerita. Attenzione, perché potrebbe essere l’ennesima occasione che va in fumo.
