Decrittare l’universo

21 Settembre 2022

In La religione romana arcaica, Georges Dumézil racconta della curiosa competizione che, pare solo a Roma, esisteva tra Giano e Giove. Secondo una definizione di Varrone, ripresa da Agostino d’Ippona, a Giano apparterrebbero tutti i prima, a Giove i summa. Mentre i summa prevalgono sul piano della dignitas, sicché non stupisce che Giove sia il rex, i prima obbligano quella strana devozione nei confronti di Giano per cui egli, per l’appunto, viene sempre invocato per primo. Se per analogia prendiamo a prestito una tale ambigua divisione delle attribuzioni celesti, non è chiaro se quel campo ibrido di sperimentazione e finzione letteraria che si conosce come fisica preferisca interpretare Giano oppure Giove.

Se cioè la fisica voglia considerarsi come la scienza che primeggia su ogni altra, perché di ogni altra pretende esser fondamento, nel qual caso s’agghinderebbe della maschera bifronte di Giano, o se di contro reclami quel surplus devozionale là dove aspira a offrire una risposta a qualsivoglia domanda: sul mondo, sulla natura, sull’umano. 

Se gli scettici potranno ritenere che la questione non sia dirimente, perché considerano la fisica una disciplina i cui esiti si misurano sul solo piano della pratica, la quale presenta scarsa attinenza con i personaggi che figurano nel pantheon degli antichi, varrà qui la pena segnalare che la crisi della fisica teorica contemporanea chiama su detta alternativa a una decisa presa di posizione: il punto non è più tanto elaborare una teoria capace di ricomprendere il numero maggiore possibile di fenomeni osservati e osservabili, quanto quello di immaginare, con un salto anticipatorio che lambisce la chiaroveggenza, cosa potersi attendere da una simile teoria nei termini di una spiegazione non ulteriormente emendabile di tutto ciò che esiste. Una scelta di metodo – ma in fondo anche di credo – che conduce a concezioni della fisica affatto diverse.

Secondo alcuni studiosi, uno degli esiti più fascinosi e dirompenti della fisica del Novecento è che la realtà naturale, e così le teorie attorno ad essa, sono strutturate secondo livelli, gli uni irriducibili agli altri. Questa prospettiva fa della fisica il dominio dei prima. Se la fisica-Giano certo è considerata la scienza che studia i fenomeni nella loro struttura microscopica, ad essa si nega la possibilità di conchiudere il reale entro le maglie strette di un singolo paradigma teorico, per promuovere così un pluralismo metodologico secondo cui non si dà un livello ultimo di realtà, rispetto al quale gli altri potrebbero essere recuperati per derivazione. In tale ottica, è pertanto vano più che inutile ricercare il livello fondamentale e rintracciare la legge fisica che ne descrive le dinamiche.

Chi invece ha a cuore una fisica-Giove guarda come a una promessa la difficile conciliabilità tra le teorie contemporanee più consolidate, vale a dire la teoria della relatività e la meccanica quantistica, perché a suo giudizio segnala l’esistenza di un livello fondamentale che esse non acciuffano e alimenta così le speranze di giungere a una teoria più fondamentale in grado di ricomprenderle, e assieme ad esse, ricomprendere ogni fenomeno naturale. In questa fisica dei summa, lo stato di crisi che le teorie oggi si trovano a vivere potrebbe far da richiamo a una chance futuribile e troppo a lungo disattesa: la messa a punto di una teoria del tutto, capace di offrire una descrizione completa dei fenomeni del nostro universo, dai più ovvi ai più enigmatici.

Un testo che assolve il compito di informare con dovizia di particolari e con un piglio a tratti tecnico e al contempo di aprire qualche spiraglio sugli scenari futuri è L’algoritmo del mondo. L’irragionevole armonia dell’universo (il Mulino, 2022) di Luca Amendola, cosmologo italiano di stanza a Heidelberg. La testimonianza, che proviene da chi con questi temi ha da confrontarsi su base quotidiana, con tutti gli inconvenienti e le incombenze propri di una felice ma non sempre facile convivenza, non reclama alcun grado di neutralità.

All’opposto, e come perlopiù accade per fisici di professione che si cimentano nel campo dell’editoria meno specialistica, Amendola fa della sua sofisticata divulgazione l’occasione per promuovere una precisa concezione del reale. La discussione dello stato dell’arte si fa così pretesto, o meglio opportunità, per prendere posizione su temi che, pur certo legati alla fisica, ne eccedono i confini disciplinari. Ma, come in ogni dramma che si rispetti, una congerie di fattori, dettagli, contesti devono predisporsi in maniera opportuna per instradarci sul corso degli eventi; sicché, prima di discutere il tenore e la plausibilità della proposta di Amendola, sarà consigliabile offrire una rapida silloge delle linee tematiche toccate nel libro. 

m

L’algoritmo del mondo si snoda lungo tre principali direttrici. La prima consiste in una disamina di quelle che, da Newton in poi, sono state identificate come le entità su cui la fisica vanta un primato disciplinare indubitabile: spazio, tempo, forza, materia. Mentre la relatività generale dettaglia la struttura e la dinamica dello spaziotempo, la teoria quantistica riunisce forza e materia nella nozione di campo. La seconda direttrice, che prende corpo nell’ottavo capitolo, offre un’agile presentazione dei principali punti di strappo nel tessuto della fisica contemporanea: materia ed energia oscura, inflazione e gravità, per menzionare le più note. Si tratta di un coacervo di fenomeni, ipotesi e costrutti teorici, che nel complesso denuncia la scarsa tenuta dei paradigmi al momento disponibili allorché sono chiamati a spiegare fenomeni particolarmente rari e complessi: dall’origine dell’universo all’analisi di quel che accade su scale planckiane, passando per buchi neri e materia oscura.

La terza, che invero scorre come un fil rouge per l’intero testo, ma si palesa con prepotenza negli ultimi due capitoli, si accentra su quella che in fondo per Amendola è la questione più rivelante: la fisica può fornire da sé sola la chiave di volta per la comprensione del reale? Dalla recensora, cui si richiedono le virtù rarissime della sintesi e della chiarezza, non si può esigere neppure lo sbozzo di una risposta a una domanda tanto epocale. Ma seguire le orme di Amendola sarà quantomeno utile per comprendere come egli attribuisca alla fisica le qualità di Giove più che di Giano.

Uno dei fenomeni discussi nel libro, e d’altro canto tra i più controversi e dibattuti della fisica novecentesca, è l’entanglement. Con tale inglesismo ci si riferisce a una particolare condizione che caratterizza due particelle la cui evoluzione manifesta un alto grado di interdipendenza. Detto altrimenti, l’entanglement corrisponde a una relazione istantanea tra due particelle, a prescindere dall’eventuale distanza spaziotemporale tra esse. In fisica classica si è soliti distinguere tra le particelle, che risultano localizzate in senso spaziale e trasportano la propria massa nei punti via via occupati, e le onde, che sono viceversa diffuse nello spazio e non trasportano materia.

Com’è noto, tale distinzione perde di pregnanza nell’ambito della meccanica quantistica, se è vero che, ad esempio, gli elettroni si comportano ora come particelle ora come onde. In altre parole, come recita il canone della quantistica ortodossa, sono le particolari condizioni ambientali e sperimentali che definiscono le proprietà di simili oggetti. Questo implica altresì che a ogni particella venga associata una corrispondente onda. Prese allora due particelle, se esse sono relativamente indipendenti – ovvero, se esse manifestano un basso grado di influenza reciproca – sarà possibile descriverle attraverso una singola onda, data dal prodotto delle onde individuali.

Se però le suddette particelle vengono generate rispettando una specifica relazione, indipendentemente dalla loro mutua distanza, l’onda risultante non è più scomponibile nel prodotto delle due onde distinte: le proprietà dell’una vincolano necessariamente quelle dell’altra. Come spiega Amendola, un simile effetto può essere esemplificato in fisica classica fissando rigidamente due monete in modo tale che mostrino sempre facce opposte. Nel mondo quantistico tale fenomeno si realizza, tra gli altri contesti, nel decadimento spontaneo di una particella detta mesone pi-zero, che produce due fotoni polarizzati in senso sempre opposto. In simili casi, “non siamo neanche più autorizzati a parlare delle particelle come se fossero entità autonome: l’unica realtà fenomenica è l’onda complessiva” (p. 87). E questo apre a un secondo tema di immediata rilevanza per quanto qui si va discutendo: la non-località.

Convinto della patente assurdità dell’idea che due particelle non contigue possano trovarsi in uno stato di relazione istantanea, nel 1935 Albert Einstein scrisse un articolo assieme a due colleghi, Boris Podolsky e Nathan Rosen. I tre segnalavano la presenza di un paradosso, il quale a sua volta non era che spia di una mancanza: con tutta evidenza, sfuggivano delle variabili in grado di giustificare l’allineamento sistematico tra le due particelle coinvolte.

A tali variabili, dette nascoste, spettava il compito di fornire informazioni aggiuntive, capaci di reinstaurare il principio di località, pena l’insostenibile conclusione di “un’inquietante azione a distanza” (si veda George Musser, Inquietanti azioni a distanza, Adelphi 2019). Nel 1964, il fisico inglese John Stewart Bell dimostrò che l’idea delle variabili nascoste nell’esperimento mentale proposto dai tre fisici per dare l’idea di un irrealizzabile potesse all’opposto essere verificata empiricamente, come in effetti accadde nel 1982 ad opera di Alain Aspect e collaboratori.

Sebbene vari argomenti siano stati avanzati per criticare la neutralità degli esperimenti condotti dal gruppo di Aspect, Amendola li considera una prova manifesta della non-località quantistica, che obbliga a prendere congedo da alcune delle intuizioni più immediate e ordinarie del nostro quotidiano: “Gli antichi, naturali, ostinati concetti d’individualità, di qui-e-ora, dovevano essere radicalmente rivisti” (p. 94). 

Quel che insomma i fenomeni dell’entanglement e della non-località sembrano suggerire è che non sia da ultimo possibile scomporre la realtà naturale in un insieme di elementi separati. Piuttosto, essa va intesa quale continuum di enti mutuamente connessi. Un’analogia molto felice, che Amendola mutua da un saggio del Nobel olandese Gerard ‘t Hooft per introdurre la nozione di campo, ma di cui i meno avvezzi ai tecnicismi possono farsi un’idea tangibile guardando alle note istallazioni di Tomás Saraceno, è quella della ragnatela: il mondo sensoriale del ragno è veicolato dagli effetti che le entità circostanti – siano esse insetti, fenomeni climatici, oggetti d’interesse – producono sulla rete.

Tali entità si traducono pertanto in vibrazioni, le cui caratteristiche – ampiezza, fase, velocità di propagazione – consentono al ragno di orientarsi in quello spazio-mondo che è la rete stessa. Nulla si dà per il ragno all’infuori del processo di interazione che l’incontro con la rete produce. E vien subito da pensare a Jakob von Uexküll, nel cui Umwelt, o mondo circostante, non c’è distinzione netta tra gli organi percettivi del ragno e quanto accade e transita (spesso senza via di fuga) nella rete che tesse. 

Insomma, sembra che pensare il mondo nella sua struttura più intima, a prescindere dalla fisica, sia un investimento a perdere. Non solo come disciplina che dà inizio e avvio, ma come sapere che chiede di ripensare ogni frammento dell’universo nella sua segreta connessione con ogni altro. E se su questo non si può dar torto ad Amendola, egli avanza una tesi persino più ardita, che a ragione presenta come eccedente le premesse e le pretese della fisica e penetra nell’empireo del filosofico, cioè che una futura teoria del tutto possa approssimare una “legge delle leggi”, un “principio di Ananke” (p. 243), capace di spiegare qualcosa che va ben oltre i buchi neri primordiali e tutte le singolarità cui ci espongono: suddetto principio rivela il segreto mistico della selezione naturale degli universi attraverso cui si è giunti al nostro e al reticolato di leggi fisiche che ne governano ogni singola dinamica, dalla polpa della materia inorganica alla sofisticazione della vita intelligente.

E non c’è dubbio che su chi, come la scrivente, preferisce associare la fisica al ruolo umile e accomodante di scienza gianesca, che apre ma poi cede il passo, questa bramosia di assoluto eserciti un misto di stupore e paura: la forza ineguagliata di soffocare sul nascere ogni nuovo sapere e porre in quiescenza ogni vecchio. Ci vuole coraggio a farsene carico, ma Amendola tesse con sobria eleganza le lodi di questo divino Giove. 

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO