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Dimitris Lyacos storie di controllo perfetto

14 Giugno 2025

Thomas Stearns Eliot temeva che The Waste Land potesse trasformarsi in un labirinto. Un orizzonte chiuso ai lettori, intriso di riferimenti incomprensibili. Una selva oscura di rimandi agli studi di Jessie L. Weston e di James G. Frazer, all’indovino cieco Tiresia e ai miti dell’antica Grecia, alla Divina Commedia e alla complessa leggenda del Sacro Graal.

Ci pensò a lungo se pubblicare il testo così, senza troppo spiegare. Ma dopo la prima edizione di La terra desolata, inserita nel numero di ottobre 1922 della rivista letteraria “Criterion”, e dopo gli interventi del “miglior fabbro” Ezra Pound, che sfoltì in maniera opportuna i versi con “the Caesarean operation”, Eliot decise di allegare al poemetto un robusto apparato di note. Non fidandosi abbastanza del fascino stregonesco dei suoi versi: “Aprile è il mese più crudele: genera / lilla dalla terra morta, mescola / ricordi e desideri, scuote / le radici assopite con la pioggia primaverile” (la traduzione è di Elio Chinol, da La terra desolata a cura di Rossella Pretto, InternoPoesia editore 2022)

Nemmeno Raymond Roussel, lo scrittore francese amato da André Breton e dai surrealisti, era riuscito a resistere alla tentazione di rendere meno oscuri i suoi scintillanti esperimenti narrativi Locus Solus e Impressioni d’Africa. Al punto da affidare al saggio Come ho scritto alcuni miei libri il compito di svelare il segreto di quelle funamboliche ideazioni.

Al contrario, Dimitris Lyacos ha deciso di resistere alla tentazione di accompagnare Finché la vittima non sarà nostra, pubblicata da il Saggiatore nella splendida traduzione di Viviana Sebastio (pagg. 270, euro 19), con un’appendice di note. Questo testo arriva in Italia tre anni dopo la sorprendente trilogia Poena Damni (il Saggiatore 2022, sempre nella versione di Viviana Sebastio).

Greco di Atene, cittadino del mondo, Lyacos ha voluto prediligere le edizioni tradotte delle sue opere. Per coinvolgere lettori diversissimi in un confronto serrato con i testi che va creando, arricchendo, mutando e pubblicando da parecchi anni.

Raffinato cesellatore di un greco moderno, che si specchia spesso nell’antica lingua madre ma anche in un efficace rimando al gergo della quotidianità, Lyacos ha costruito Finché la vittima non sarà nostra come un romanzo libero dall’ossessione della trama che il lettore può esplorare, smontare e rimontare, decrittare e assaporare in tutta la sua forza e bellezza.

Nel magma incandescente di Finché la vittima non sarà nostra, un aggrovigliarsi di voci conquista le pagine urlando e sussurrando, ragionando e delirando, accarezzando le parole e usandole come fossero armi, protestando e implorando. In 23 capitoli scanditi dalle lettere dell’alfabeto, Lyacos costruisce un’opera visionaria, intrisa di riferimenti alla Storia e alle sacre scritture, alla letteratura e alla filosofia, al divenire dell’umanità e alle conquiste della scienza.

Lo scrittore greco trascina il lettore in un vortice di racconti che si intrecciano e procedono liberissimi, tanto che ogni nuovo capitolo sembra tirare dritto per la propria strada. Anche se, in realtà, questo lungo viaggio dalla A alla Z compone un grande mosaico del divenire dell’umanità, da sempre alla ricerca di un modello razionale che chiuda la sua animalità dentro un reticolo di regole. Per riuscire a ingabbiare le esplosioni di ferina violenza così ben raccontate nel prologo: dove le scimmie M1 e M2 si scannano in una resa dei conti rituale alla quale non possono sottrarsi.

Il controllo delle pulsioni; la ricerca di un ordine che permetta agli uomini di non esercitare più la violenza reattiva, ma che li porti a programmare solo quella proattiva in progetti di sterminio di massa; il richiamo del sangue; la comparsa di un nuovo Dio: sono questi i temi principali che compongono Finché la vittima non sarà nostra.

Lyacos mette a fuoco quel sistema di controllo perfetto (“È bene ribadirlo: abbiamo eliminato la violenza”) che ha redento l’uomo dalla sua animalità al punto da portarlo a sostituire lentamente il Dio dei riti collettivi, delle grandi religioni, con il Dio privato degli accumulatori di denaro e dei mistici. Per arrivare a un sempre più imminente messianismo cibernetico, dove un Superorganismo tecnologico riuscirà a imporre la gestione delle nostre vite. Dentro e fuori casa.

Niente di ciò che l’uomo crea, però, raggiunge mai la perfezione. Infatti Lyacos racconta la società dell’ordine assediata dai reietti, da chi non ha una casa, dagli emarginati. Ma ricorda anche il massacro degli animali, confinati ai margini della società in giganteschi centri di terrore e violenza. Macellati senza che nessuno associ le loro sofferenze alle bistecche servite ogni giorno nei nostri piatti. Perché il dolore, se non lo tocchi con mano, diventa invisibile.

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Dimitris Lyacos.

Di tanto in tanto l’apparato di controllo ha bisogno di una via di fuga, di “un salasso, per far calmare il sistema”. E allora prendono forma le guerre, perché è ancora vivo il ricordo biblico del fratricidio di Caino che ammazza suo fratello Abele. E poi, in fondo, l’oscurità accompagna da sempre l’umanità, tanto quanto lo splendore della luce. E si specchia nel racconto di una città alveare, claustrofobica, costruita sulle macerie di un altro sito. Da cui è possibile uscire solo salendo sui tetti.

Come i testi sacri, assemblati da più mani, anche Finché la vittima non sarà nostra è un corpo fatto di tanti organi indipendenti. Un’anima frammentata dove ogni storia, ogni voce, ogni dettaglio risplende di vita propria, ma si connette agli altri per comporre un tessuto multiforme. Che non promette verità assolute, ma preferisce ragionare, analizzare, interrogarsi e interrogarci, spingendo le nostre certezze a confrontarsi con il baratro del dubbio.

Non ci sono opere di riferimento per creare un albero genealogico letterario di Finché la vittima non sarà nostra. E allora, bisogna andare a rileggere testi di esoterica bellezza come I canti di Maldoror di Isidore Ducasse Conte di Lautréamont per ritrovare quel fiammeggiante afflato creativo e poetico che anima le pagine di Lyacos. Come il poeta francese, nato a Montevideo, anche lo scrittore greco costruisce la sua opera con una prosa netta, affilata, a tratti disturbante, dove il racconto può mutare in lirica, in accorata invocazione. E l’osservazione della realtà evoca apocalittiche preveggenze.

Con parole inglesi potremmo definire questo libro un composite novel – spiega Dimitris Lyacos, che ha presentato in anteprima mondiale al Salone del Libro di Torino Finché la vittima non sarà nostra –. Ci sono 23 capitoli contrassegnati da una lettera dell’alfabeto. In ogni testo, la voce cambia. Si ripete soltanto in tre sezioni del libro, quando intercettiamo l’invocazione di una ragazzina che cerca suo padre. In più c’è un prologo, in corsivo, che introduce il tema della violenza nel mondo delle scimmie. Un omicidio barbaro in un contesto non umano, che ci riporta alle nostre origini filogenetiche.

Il libro ha un montaggio del tutto originale. Come nasce?

Nella giustapposizione dei capitoli, ho voluto usare la tecnica di montaggio sperimentata dal cinema. Penso, in particolare, alla scuola sovietica degli anni Venti, a registi come Sergej Ejzenštejn, Lev Kulešov, Vsevolod Pudovkin.

Ha provato la tentazione di fare come T.S Eliot?

Quando ho deciso di pubblicare Finché la vittima non sarà nostra, mi è sembrato giusto escludere dal libro un corposo apparato di note. In altre 200 pagine avrei potuto fornire al lettore le tracce precise di quel sottotesto che è, poi, alla base di ciò che scrivo. Non escludo, però, che in futuro esca un’edizione con le note.

Così il lettore è del tutto libero di cercare le proprie traiettorie?

Sì, è giusto lasciare che il lettore esplori da solo il libro. Altrimenti, con le note, avrei chiuso il testo dentro un percorso preciso, quasi predefinito. La trilogia Poena Damni è diversa. L’ho sempre pensata come un’opera aperta. Infatti, nel tempo, è cambiata, si è arricchita, tanto che prima di cristallizzarsi nella versione attuale pubblicata dal Saggiatore ha subito diverse mutazioni. E, in parte, ancora le subisce.

In che senso?

C’è un capitolo, la Nota del traduttore, che ho scritto in seguito alla pubblicazione della trilogia. E che si può leggere, per il momento, soltanto in rete. Credo che entrerà in una futura edizione.

E allora riveli almeno uno dei sottotesti della “Vittima”.

Il capitolo H inizia con la frase “Siamo noi che lo scriviamo”. Ecco, in quelle pagine racconto la storia della nascita dei testi del Canone: come l’Antico Testamento, che non è stato composto né da una persona sola né da una voce sola. A metterlo assieme è stato chi, in diversi momenti, gestiva il Potere intellettuale, politico, religioso, dopo avere preso la decisione di che cosa andava detto e non detto nel libro stesso. Questo capitolo, in sostanza, dà voce a un’altra forma di imposizione, quindi di violenza, fatta di parole e pensiero.

La città del capitolo G, costruita sulle macerie di altri palazzi, senza vie di fuga se non dai tetti, l’ha inventata lei?

No, si riferisce a una città costruita nel periodo neolitico, tra il 7400 e il 6200 a.C. Si chiama Çatalhöyük, è situata nell’attuale provincia turca di Konya, ai margini meridionali dell’altopiano anatolico. Scoperta alla fine degli anni ‘50 del ‘900, oggi è patrimonio dell’Unesco. Le case sono addossate una all’altra, senza strade a dividerle. L’unica apertura è posta sui tetti.

Da secoli ci interroghiamo se esista un sistema perfetto per imbrigliare la violenza insita nell’uomo.

Era il 1651 quando usciva la prima edizione del Leviatano di Thomas Hobbes. Da allora l’umanità si è interrogata su come contenere la violenza. Alla fine, abbiamo delegato allo Stato, all’organizzazione sociale, il compito di trovare una soluzione. Il nostro impeto di violenza non è molto diverso da quello dei cugini primati. Però siamo riusciti a imbrigliarlo con l’invenzione di quello che potremmo definire un impianto tecnologico fatto di regole, leggi, principi da condividere e rispettare.

Altre forme di violenza sono ammesse dalle regole stesse?

Nelle nostre società abbiamo fatto in modo di nascondere molte forme di violenza. Per esempio quella esercitata nei confronti di miliardi di animali che uccidiamo ogni anno a scopi alimentari. Nel capitolo S descrivo la violenza brutale che ogni giorno si scatena negli allevamenti intensivi, luoghi separati dalle città. Ai nostri occhi, però, quell’omicidio industriale scompare, perché preferiamo non vedere il dolore, la paura delle mucche, dei maiali. Stacchiamo il collegamento con la realtà, come se le bistecche crescessero sugli alberi. E ci illudiamo pure che tutti abbiano da mangiare, anche se in molte parti del mondo si soffre la fame.

Nel capitolo N parla la voce di chi spiega questo sistema di controllo.

La voce narrativa del capitolo N porta in primo piano il legislatore stesso. Ovvero chi ha deciso di trasformare la violenza animale dell’uomo in un meccanismo controllabile: Michel Foucault lo chiama dispositivo. Noi, adesso, tramite le leggi, le scuole, gli ospedali, le prigioni, le caserme, ci siamo addomesticati. Riusciamo a vivere tutti insieme. Abbiamo il manuale di istruzioni, come chi impara a governare un apparecchio elettronico. Nel terzo millennio, poi, con l’avvento di sempre più sofisticate tecnologie, abbiamo abbracciato una sorta di messianismo cibernetico.

Tra poco saranno le macchine a controllarci?

Noi stessi abbiamo creato un’organizzazione intelligente capace di gestire le nostre vite. Un superorganismo che, portato al suo estremo, potrebbe imporre l’armonia perfetta nel mondo umano. Questo livello di conoscenza, realizzato in collaborazione tra uomini e macchine, finirà per annullare il desiderio di Dio. Presto non servirà più la figura divina che preghiamo nei riti religiosi di massa, e nemmeno quella che accompagna un individualismo sfrenato, caro ai mistici come ai profeti del capitale.

Il messianismo cibernetico potrebbe imporre la comparsa di un nuovo Dio?

La comunicazione perfetta porterà a un’organizzazione altrettanto perfetta. Imponendo l’idea di un Dio del tutto nuovo, terzo rispetto ai due di cui parlavo prima. Stiamo andando in una direzione che potrebbe annullare ogni forma di individualismo umano. Basterebbe pensare a quanto ci siamo allontanati dal concetto romantico di poesia: Byron, Shelley, creavano i loro versi in perfetta solitudine, oggi ci appaiono relitti di un passato lontano. Io stesso, mentre scrivo, sono in continuo contatto con altre persone. Ricevo suggestioni, intraprendo dialoghi, che poi andranno a influenzare in qualche modo il mio testo.

Abbiamo imbrigliato la violenza reattiva, senza rinunciare a quella proattiva?

Poniamo di chiudere 200 scimpanzé dentro un aereo di linea. Finirebbero per massacrarsi. Noi, quel tipo di violenza siamo in grado di controllarla quasi sempre. Perché abbiamo lasciato spazio al nostro istinto violento con progetti ben definiti: pensiamo ad Auschwitz, all’eliminazione di determinati gruppi deboli da parte di chi è dominante, ma anche alla morte alimentare nei mattatoi.

I suoi libri escono in traduzione, non nella lingua originale. Perché?

I miei libri escono esclusivamente in traduzione. Posso usare una lingua greca raffinata, come in Poena Damni, ma anche molto più normale come in Finché la vittima non sarà nostra. Eppure, non ho mai pensato al testo come l’origine di tutto, non credo che sia privilegiato rispetto alle sue traduzioni. Anzi, ogni versione crea un dialogo con un’altra lingua, con una diversa cultura.

Per esempio?

La mia amica Annalisa Bottacin, che insegna a Venezia, quando ha letto il prologo della “Vittima” mi ha scritto per dirmi che il prologo le ricorda il canto XXXIII dell’Inferno di Dante. Dove il conte Ugolino della Gherardesca rivela di essersi cibato dei cadaveri dei figli dopo un lungo digiuno. Ecco, un parallelo del genere non sarebbe mai venuto in mente a un russo, un americano o un cinese. Per questo amo le traduzioni dei miei libri: un lettore greco forse sa già cosa ci trova. Per lui è come entrare nel bar del paese, dove conosce tutti.

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