Divorzi

27 Aprile 2023

Sì, Sophie Blind è morta. È morta martedì pomeriggio, poco prima delle sei, decapitata da un’auto mentre attraversava avenue George V. Era appena uscita dal parrucchiere, perciò la testa che, recisa dal tronco, è rotolata sull’asfalto sotto la pioggia battente era fresca di messa in piega. È stato tutto molto veloce, il taxi, il portiere dell’hotel, la polizia, l’ambulanza, lo shock degli astanti, e per di più lei in quel momento aveva altro a cui pensare, comunque non c’è dubbio che sia morta, anche se per il certificato bisognerà aspettare l’indomani. Ma France Soir dà già la notizia, e il corpo di Sophie è in obitorio. A sistemarle la faccia e ricucirle la testa ci pensa la migliore impresa di pompe funebri di Parigi: di facce ne realizzano una mezza dozzina, tutte diverse – «impossibile accontentare ogni membro della famiglia», – e alla fine a scegliere è Ezra, il marito. «Identica alle foto del matrimonio», commentano i parenti al funerale; «non è lei, quella lì non è la sua faccia», chiosa candido il figlio Jonathan. Ezra piange, ma tra le lacrime cela un’espressione di sollievo: «è più sereno perché il destino non gli ha inflitto l’equivoco stato di divorziato. Che meraviglia essere vedovo». Ezra ha vinto – di nuovo, come sempre, come tutte le volte in cui litigavano e in qualche modo lui riusciva sempre a spuntarla, «doveva avere un vero talento»: ha vinto perché Sophie è morta prima di apporre l’ultima firma sulle carte del divorzio, è morta da moglie, per certi versi è morta divorziando – come suggerisce il titolo inglese, Divorcing, – ma Ezra sa che per lei il tempo si è fermato, e quel verbo non potrà mai attingere alla compiutezza del participio passato, né ambire al confortante status di sostantivo. Aveva provato a convincerla a desistere, a chiederle se c’era qualcun altro, se magari di punto in bianco non le piaceva più il suo naso, ma di fronte all’irremovibilità di Sophie – «non voglio essere sposata con te», – Ezra era passato all’attacco: «non mi importa con chi scopi, il matrimonio è sacro». Le aveva proposto di continuare a vivere in città diverse, non vedendosi che poche volte all’anno, solo per i bambini, ma Sophie ne aveva fatto una questione di autenticità, di rispetto per se stessa e i propri sentimenti: «mi fa impazzire il pensiero di essere sposata con te», gli aveva detto. «E allora va’ da un analista», aveva ribattuto lui. E anche se il divorzio di Sophie ed Ezra Blind non si realizza, quello di Susan Taubes rimane comunque un libro di Divorzi, come giustamente recita il titolo scelto da Fazi per la traduzione di Giuseppina Oneto.

Il primo divorzio di fronte a cui ci pone Taubes è il divorzio dalla vita – anche questo un divorzio sospeso, perché Sophie muore ma continua a parlare, muore ma «ha ancora molte cose da dire», come il Sebastián del Notturno cileno bolañiano. La testa di Sophie, pur staccata dal corpo, comincia a raccontare: ci parla del matrimonio con Ezra, del fatto che lei non avrebbe mai voluto sposarsi, tanto che alla prima proposta di Ezra aveva risposto offrendogli «una vita insieme nel libero amore». E nonostante alla fine avesse ceduto al matrimonio – cosa di per sé comoda, ammette, perché almeno «non si perdeva troppo tempo a guardarsi intorno e ad analizzare all’infinito i propri sentimenti» – quel suo libero amore lo aveva comunque professato privatamente, passando da un amante all’altro senza soluzione di continuità. È sposata con Ezra, certo, ma gode a tener testa alle perversioni sessuali di Gaston, si bea dell’amore di Nicholas che, pur sposato e con due figlie, la vorrebbe come amante a Parigi. E poi a New York c’è Ivan: avvolta nell’asciugamano di lui, appena uscita dalla doccia nella sua casa di Manhattan, si sente pienamente se stessa, vulnerabile, esposta, libera e bellissima, nuda come mai prima di allora, nuda di «una nudità che non potrà mai essere ricoperta».

Ma la testa di Sophie ci parla anche di psicanalisi e religione, deridendo la prima e sminuendo la seconda, con l’irriverenza di chi è figlia di un analista e nipote del rabbino capo di Budapest. Stesa sul lettino del suo, di analista, lo incalza impertinente: «di cosa vuole che parli: sesso? Padre? Madre? Enuresi notturna? Complesso di Elettra? Invidia del pene? Quello che vuole. Però sbrighiamoci». Sophie non crede né in Dio né in Freud, e il tentativo di cesura dall’ebraismo e dalla psicanalisi è un altro dei divorzi di cui ci parla il titolo. Eppure al centro della vita di Sophie sta un buco a forma di Dio, e la struttura del libro che Taubes va scrivendo sembra assecondare le teorie freudiane sul conscio e l’inconscio. La prima e l’ultima sezione di Divorzi sono sperimentali, apertamente moderniste: la teatralità frenetica e sincopata di alcuni botta e risposta coniugali ricorda da vicino certi scambi eliotiani, mentre il processo all’anima di Sophie, contesa tra i rabbini e il padre, è una trovata di chiaro sapore joyciano.

b

Sophie alterna la prima e la terza persona, descrive il proprio funerale come se vi assistesse dall’alto, parla del libro che sta scrivendo con espedienti metaletterari, si lascia andare a flussi di coscienza in cui emerge – senza essere spiegata – tutta la sua precarietà psichica, l’ossessività ricorrente e vorticosa dei suoi pensieri, e alla fine si chiude in una vasca di deprivazione sensoriale mentre i figli vengono ipnotizzati nella stanza adiacente. Di tutt’altro genere sono le due sezioni centrali, nucleo di razionalità racchiuso tra fantasmagorici deliri dell’inconscio. Sophie sembra riprendere il controllo della propria mente, e assume la postura di un convenzionalissimo narratore onnisciente: racconta la storia della propria famiglia, che s’intreccia con la storia della Budapest degli anni 10 e 20 – la guerra, il caos postbellico, il trattato di Trianon, il movimento controrivoluzionario, le esecuzioni di massa nell’inverno del ’21. Racconta il complicato rapporto coi genitori, che la vede costretta a barcamenarsi tra un padre che somiglia al Lear shakespeariano, alla costante ricerca d’affetto da parte di una figlia che già da tempo «si è rifiutata di esistere per lui, o piuttosto ha continuato a esistere soltanto attraverso questo atto di rifiuto», e una madre sempre assente, che infesta la casa come un fantasma, una madre di cui Sophie, per qualche scherzo del destino – o della psicanalisi – finirà per ripercorrere le orme, replicandone il matrimonio burrascoso, il divorzio, gli amanti, i figli trascurati. 

Ma c’è un altro divorzio al centro della vita di Sophie Blind, un divorzio precoce, per certi versi traumatico, deciso dal padre più che da lei: il divorzio da Budapest, dall’Europa, per «sfuggire all’orribile sorte che subivano gli ebrei». E così Sophie ci racconta del viaggio in nave per gli Stati Uniti, di quella terra che lei voleva amare a tutti i costi, dei difficili mesi a Pittsburgh e della rinascita a New York: «quando le chiedevano se le piaceva l’America, lei rispondeva che amava New York». Eppure Budapest rimane il suo chiodo fisso, non riesce a liberarsi del suo passato, divorziare dalla sua infanzia di bambina ungherese: «l’Ungheria era il posto dove era nata e al quale apparteneva; l’Ungheria era la casa, […] erano le immense montagne, i laghi, le finestre, i fiumi. […] L’Ungheria erano le pianure: il pastore con il suo gregge e il cane. Erano le giovani contadine con le gonne bordate di merletto e gli stivali, e i pastori che riparavano le reti sulle coste del lago Balaton». Ed è per questo – per le montagne, i pastori, i laghi e le pianure – che Sophie a un certo punto torna a Budapest: ci torna per conoscersi ma soprattutto per cercare di riconoscersi, di ricostruire la memoria di una vita precedente, scendere a patti col grande divorzio della sua esistenza.

Sophie Blind forse ci riesce, forse nella camera di deprivazione sensoriale raggiunge l’acme di una rinascita inseguita per un’intera vita – ma Susan Taubes no. Susan Taubes muore suicida poche settimane dopo l’uscita di Divorzi, suo unico romanzo, e a riconoscerne il corpo è l’amica Susan Sontag. Taubes si annega nelle gelide acque di Long Island, nell’Oceano che aveva attraversato a dieci anni, l’Atlantico che separa America ed Europa. E lo dico solo adesso per una ragione precisa: perché Divorzi è un libro che rischia di essere inquinato dall’atto finale della vita della sua autrice. Il suicidio di Taubes – come quello di molti altri autori e autrici – rischia di gettare un’ombra di pietismo su un’opera che invece non ha alcun bisogno della commiserazione dei lettori; è poco interessante giocare a trovare le (tante) similitudini e le (poche) differenze tra la vita di Sophie Blind e quella di Susan Taubes, o tra Ezra Blind e Jacob Taubes. Le letture esclusivamente biografiche, al pari di quelle forzatamente femministe, sono utili solo a etichettare il romanzo – come notevole precursore dell’autofiction, o encomiabile disamina del patriarcato. Divorzi è un romanzo d’inquietudine e libertà, del confine spesso sottile tra esilio e migrazione; è un libro pungente, che di fronte alla morte sorride sardonico; ma è anche un libro sensuale, che flirta col perturbante; è, come dice David Rieff nella sua introduzione all’edizione americana, un libro che sanguina. E quel sangue va osservato senza incanalarlo, senza cercare di fermarlo.  

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO
TAGGED: Susan Taubes