Susan Sontag, Contro l’interpretazione

17 Giugno 2022

Dopo la caduta, di Arthur Miller, è «il più notevole esempio di insulsaggine in scena in questo momento»; «le principali doti del Pavese romanziere sono la delicatezza, l’economia e il controllo»; «Ionesco è uno scrittore minore anche quando dà il meglio di sé»; Vivre sa vie di Godard «mi sembra un film perfetto». 

Nessuno di questi giudizi è veramente importante. Nessuna delle posizioni assunte su Godard, Bresson, Lukács, Sarraute è di fatto rilevante. Non perché alcuni di questi giudizi e posizioni non siano corretti, o validi, o condivisibili, o non abbiano in molti casi precorso i tempi con sensibilità impressionante. Ma perché non sono ciò che conta. Il valore degli scritti contenuti in Contro l’interpretazione e altri saggi – recentemente riedito da nottetempo nella traduzione di Paolo Dilonardo e con un’introduzione di Daniele Giglioli –, risiede piuttosto in un certo tipo di postura. Un metodo, una disciplina.

Prendendo in mano i taccuini di Sontag ci si imbatte spesso in elenchi, che iniziano con formule del tipo: «libri che devo assolutamente leggere», oppure «devo vedere questi film». Le liste di titoli occupano pagine e pagine, e sono sintomo, appunto, di una postura molto precisa. C’è una metodica autodisciplina nel portare avanti un apprendistato intellettuale che però non sfocia mai in intransigenza o sussiego: Sontag divora romanzi, film, saggi, opere teatrali, ci riflette e ci rimugina, collega e distingue, analizza, scandaglia, e poi ne scrive con quella che lei definisce «appassionata parzialità»: «in fin dei conti non sono interessata ad assegnare voti alle opere d’arte (ed è questa la ragione per cui in genere ho evitato di scrivere di opere che non ammiravo).

Ho scritto con lo spirito di parte di un’entusiasta e – così adesso mi pare – con una certa ingenuità». E se l’ingenuità di cui parla Sontag le consente di essere schietta ma mai sprovveduta, è proprio perché è puntellata da una prassi intellettuale, e da una certa idea di “vita della mente” – a cui associa una serie non casuale di sostantivi: «cupidigia, appetito, bramosia, anelito, insaziabilità, estasi, inclinazione» (La coscienza imbrigliata al corpo. Diari e taccuini 1964-1980, nottetempo). Sontag va oltre Barthes e il suo piacere del testo: Sontag nell’arte cerca un’erotica. E la cerca ovunque: nei film di Godard e nelle lampade di Tiffany; nei Taccuini di Camus e nei film muti pornografici; nel Lago dei cigni e nella cantante pop cubana La Lupe; in Santo Genet di Sartre e nei boa piumati degli anni Venti.

Nel Camp e nella cosiddetta cultura alta. «Nessuna gerarchia, quindi? Certo che c’è una gerarchia. Se devo scegliere tra i Doors e Dostoevskij, allora – ovviamente – sceglierò Dostoevskij. Ma devo davvero scegliere?». Ovviamente no: o si è puri o si è saggi. Da qui il rifiuto della vita accademica, che a sedici anni, appena approdata a Berkeley, considerava la «professione più adatta ai miei bisogni»; si ricrederà di lì a pochi mesi, dicendosi «spaventata» nel ripensare a «quanto abbia rischiato di lasciarmi scivolare nella vita accademica […]; avrei scritto un paio di articoli su soggetti oscuri a cui nessuno si interessa, e a sessant’anni sarei stata una brutta e stimata professoressa».

Sontag non teme di sporcarsi le mani perché, per lei, essere un’intellettuale significa interessarsi a tutto, costruire una cultura pluralistica e polimorfa, e dunque combattere contro le polarizzazioni alto/basso, come spiega in Note sul Camp, ma anche contro le moderne forme di interpretazione, caratterizzate da un’aggressività imperante: nel saggio che dà il nome alla raccolta, Sontag spiega che oggi l’interpretazione si basa sull’idea discutibile che le opere d’arte possano essere ridotte a puro contenuto – che è per di più inteso come contenuto manifesto, nella convinzione che spetti al critico rivelare il contenuto latente attraverso un’opera di traduzione. «L’interprete afferma: non vedete che X in realtà è – o in realtà significa – A? Che Y è in realtà B? Che Z è in realtà C?»: la critica moderna sovrascrive col pretesto di dissotterrare, e lo fa perché «la vera arte ha il potere di innervosirci.

Sontag

Riducendo un’opera d’arte al suo contenuto, e poi interpretando soltanto quello, la si addomestica». L’interpretazione, dunque, può essere intesa come un processo di semplificazione sotto mentite spoglie: finge di portare alla luce un contenuto recondito – e dunque di rivelare un ulteriore livello di complessità –, ma in realtà compie un’operazione che svuota l’opera del proprio significato, per attribuirle un significato nuovo, che è sempre legato al paradigma mentale di chi interpreta – rendendo il lavoro critico un esercizio autobiografico, come faceva notare già Woolf –, o quanto meno al paradigma mentale di un’epoca – quello che Sontag chiama «visione storica dell’esistenza umana», e che produce interpretazioni reazionarie.

In questo senso, non è un caso che Sontag si scagli contro l’interpretazione proprio negli anni Sessanta, un’epoca in cui stava nascendo una «sensibilità nuova»: gli sforzi interpretativi che Sontag definisce reazionari altro non erano che gli estremi tentativi da parte dell’élite culturale di mantenere in vigore un vecchio paradigma, che la modernità stava scalzando. Questo vecchio paradigma era fondato su una serie di polarizzazioni (cultura alta/cultura bassa, cultura scientifica/cultura artistico-letteraria, forma/contenuto), che la «nuova sensibilità» di cui Sontag coglie i prodromi giudicava invece irrilevanti: le pratiche artistiche a cui guardare erano quelle che attingevano «profusamente, con naturalezza e senza alcun imbarazzo, dalla scienza e dalla tecnologia» – ossia la musica, la danza, l’architettura, la pittura, la scultura, ma soprattutto il cinema. Il cinema è, secondo Sontag, anche l’unica forma d’arte che negli anni Sessanta riusciva a eludere l’interpretazione senza compiere sforzi particolari. E questo accadeva proprio perché era un’arte relativamente nuova, percepita ancora come mero intrattenimento – «in altre parole, espressione di una cultura di massa contrapposta alla cultura alta, e perciò ignorata dalla maggior parte delle persone intelligenti». 

Sontag, invece, si nutre di film non meno che di libri: in certi periodi, arriva a guardarne dieci-dodici a settimana, e a distanza di trent’anni dice ancora che le «sembrava evidente che nessun’altra arte fosse praticata tanto diffusamente a un livello così alto». Che fosse un’arte nuova non la spaventava, anzi: il merito di Sontag sta, ancora una volta, nel non avere paura di riflettere sul presente – con tutti i rischi e i possibili abbagli che questo implica –, nell’interrogarsi sulla modernità senza rinnegare le opere canoniche del passato, nel portare avanti un’idea di cultura militante fondata su uno schema di valori mai sconfessato – che spingerà Sontag a prendere parte al movimento di opposizione alla guerra del Vietnam, ad esempio – ma anche su un coraggio che non è solo intellettuale ma soprattutto umano.

Il coraggio sotteso a Malattia come metafora e Davanti al dolore degli altri – il coraggio, cioè, di guardare in faccia la malattia e la morte senza il filtro delle metafore e delle interpretazioni, – è legato a filo doppio al coraggio culturale di porsi di fronte alle opere, abitarle senza addomesticarle, assumersi rischi ed esprimere giudizi parziali, ma farlo sempre con una serietà metodologica imprescindibile. Quella di Sontag è insomma una scrittura, una vita, basata sul non farsi sconti, sul preferire la complessità alla semplificazione, la molteplicità al binarismo, ma anche sull’entusiasmo di una mente vorace, che sempre dubita del presente, del passato, del canonico e del camp, degli altri e soprattutto di se stessa: «la cosa più terribile per me sarebbe accorgermi che sono ancora d’accordo con quello che ho già scritto e detto – è la cosa che mi renderebbe più infelice, perché vorrebbe dire che ho smesso di pensare» (Susan Sontag, Odio sentirmi una vittima, trad. it. Paolo Dilonardo, Il Saggiatore, 2016).

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