Educarsi al caos

8 Novembre 2022

Lo scrittore Paolo Giordano, che significativamente è anche un fisico, nel suo ultimo romanzo (Tasmania, Einaudi 2022) parla dell’epoca che stiamo vivendo come di un tempo “pre-traumatico” in cui qua e là sboccia come un fiore marcio una “contiguità mai sperimentata tra le nostre vite e una nuova forma di male assoluto”. L’inquietudine crescente in cui viviamo ci spinge a cercare degli altrove in cui metterci in salvo, e uno dei personaggi dice: «Se proprio dovessi, sceglierei la Tasmania. Ha buone riserve di acqua dolce, si trova in uno stato democratico e non ospita predatori per l'uomo. Non è troppo piccola ma è comunque un'isola, quindi facile da difendere. Perché ci sarà da difendersi, mi creda». Il sentore di un trauma incipiente genera inquietudine. Di conseguenza l’incognito, il mistero della minaccia possibile relativizza l’assoluto “scientifico”, e spalanca le porte al simbolico di cui ora, pare, abbiamo un particolare bisogno. 

La presa scientifica e la presa simbolica sul mondo, ecco. La scienza (il concetto) da un lato, la cultura (il simbolo) dall’altro, e l’una non può essere senza l’altra. E poi c’è il caso, anzi, la musica del caso, un ron ron che tutto accompagna e addirittura precede, come ciascuno di noi fino all’istante prima del nostro “cadere” nella vita, con un formidabile e casuale proprio io che decide tra miriadi di possibili individui. È così, siamo fatti di caso. E di casualità, gioco e azzardo sono fatte le culture umane dalla preistoria all’età moderna. Non è un rumore, appunto, ma “una musica che il caso, quando entra in gioco, ci fa ascoltare”, come dice Andrea Tagliapietra nel suo La musica del caso. Ricerche sull’azzardo e il senso del gioco (Mimesis, 2022, pp.197).

Il titolo è direttamente mutuato dal bel romanzo di Paul Auster (The Music of Chance 1990, tr. it. Guanda 1991) di cui Tagliapietra assume lo scenario per introdurre i temi della sua ricerca. Due matti che hanno vinto una somma considerevole alla lotteria si dedicano nella loro nuova sontuosa dimora alle rispettive attività: una collezione di oggetti storici assolutamente priva di un qualsiasi senso e la costruzione di un modello della propria casa con dentro un modello della propria casa e uno che lo sta costruendo. Tutti e due hanno il bisogno di circoscrivere (nella collezione e nel modello) e di “imbrigliare la realtà” sperando di poter governare il caso spegnendone la musica. 

Il libro, particolarmente denso e ricco di riferimenti, è una sorta di excursus sulla cultura occidentale attraverso la lente della nozione di caso e del gioco che ne è una declinazione. L’esperienza umana, scrive Tagliapietra, sembra assomigliare al tentativo di catturare la realtà attraverso la conoscenza scientifica, la quale, tuttavia, si deve confrontare con le difese che le culture umane mettono a disposizione di individui e collettività con le loro prescrizioni immaginative e poetico-retoriche preparandoli ad accogliere gli eventi, a reggerne l’impatto, a sopportarli essendone all’altezza.

Gli uomini si difendono con la cultura e anche oggi, prosegue, di fronte al “tentativo contemporaneo di ridurre la cultura a intrattenimento e spettacolo, affidando alla scienza anche la prestazione strategica del senso”, appare quanto mai fondamentale approntare una “difesa culturale” che sia in grado di affrontare “uno degli aspetti strutturali della crisi materiale e spirituale che stiamo vivendo. Una crisi (…) che si manifesta nella forma di una drammatica asimbolìa, per cui tutto, indifferentemente, aspira a essere ricondotto sul piano di una presunta oggettività prospettica” (p.13). Insomma: dobbiamo recuperare la dimensione del caso perché è proprio la sua imprendibilità, dice l’autore, che lo rende “uno spazio di non sapere che resiste alla pretesa di spiegazione della ragione. (…) Se siamo liberi, forse, lo siamo per caso” (p.22). 

Sino ad oggi abbiamo creduto di poter sopperire alle nostre necessità con l’arma potente della Scienza, questa è stata l’illusione moderna che si è compenetrata nella coscienza sociale. Adesso dobbiamo prendere atto della sua insufficienza e ci ritroviamo a gestire una realtà che sfugge da tutte le parti, disastri, certezze in frantumi, angoscia. Paura del grande trauma. Alla “spinta solidarizzante” del passato ora abbiamo sostituito la “spinta della paura”.

Le grandi narrazioni concettuali di spiegazione del mondo, i grandi récits, sono finite e si pensa che la fede in un caso calcolabile possa governare le nostre scelte individuali. Abbiamo bisogno di nuove “prescrizioni immaginative e poetico-retoriche”, questo è il punto. E il caso e il gioco possono aiutarci: il caso con la sua imprendibilità che veglia dietro alle costruzioni teoriche e il gioco, con la sua capacità di simulazione che aiuta a “possibilizzare la realtà” (Tagliapietra), queste sono le cose “culturali” da cui possiamo trarre anzitutto alimento psichico. Per affrontare il “tempo pre-traumatico”.

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Il terzo saggio di Tagliapietra mostra “L’ambiguità dello sport”, cioè la trasformazione del diletto del tempo libero per eccellenza in attività produttiva sottomessa alle leggi della “società dello spettacolo”, un’attività “gratuita” ridotta a iniziativa economica vera e propria in cui la dimensione generativa del gioco è diluita nella logica del forcing, della prestazione muscolare, magari chimicamente falsata dall’alterazione farmacologica. L’agon, sempre più anche al livello amatoriale, è rivolto solo al denaro, non più alla nuda e leale sfida fra pari.

Chiude il libro Erminio Maglione con Un reale più reale del reale in cui si analizza la fenomenologia del gioco in generale e del gioco d’azzardo in particolare (uno studio nell’ambito del progetto di ricerca intitolato “Filosofia e gioco d’azzardo. Modelli teorici, forme simboliche e applicazioni sul campo” dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano). Con l’ausilio delle grandi trattazioni sul gioco, da Gioco come struttura di Émile Benveniste, a Homo ludens di Johan Huizinga e soprattutto a I giochi e gli uomini di Roger Caillois, l’autore descrive le dinamiche sociali e culturali del gioco evidenziandone storicamente il peso specifico.

“Il n’y a que peu d’hommes qui ayent une aversion sincere pour le jeu” diceva Denis Diderot nella sua Enciclopedia (p.139); per Huizinga il gioco è “un operatore simbolico fondamentale per ogni cultura”; per Caillois esso “svolge un ruolo di primo piano nella costruzione della nostra personalità perché insegna con leggerezza, non una particolare abilità, ma un generale portamento da assumere, con se stessi e con gli altri, nella nostra vita di tutti i giorni” (p.147). Proprio Caillois metterà a punto la sua celebre tassonomia, qui analizzata, costruita sulle quattro principali “pulsioni primarie” che guidano i giochi: l’agon (la competizione), l’alea (la sorte), la mimicry (la maschera) e l’ilinx (la vertigine) [p.161]. 

Al gioco d’azzardo (tempo fa me ne sono occupato qui) Maglione dedica un congruo spazio relativamente all’entità economica del fenomeno, quattro dati salienti: 1. l’Italia è il quarto paese al mondo (dopo USA, Giappone e Macao) per volume di gioco; 2. per il Gratta-e-vinci è il primo mercato al mondo; 3. l’ammontare della spesa di gioco è passato da 6,77 miliardi di euro del 1993 a 84,5 miliardi di euro nel 2014; 4. il gioco d’azzardo è la terza attività economica italiana per fatturato (p.141). Va da sé che la drammaticità sociale implicita in questi numeri non sfugge allo studioso, il quale tuttavia, sottolinea lo scopo principale della sua ricerca che è quello di rispondere alla domanda sul perché il gioco è così importante nella vita degli esseri umani. “Rispondere a tale quesito – dice – (…) rappresenta uno dei compiti cruciali per una filosofia della cultura o, meglio ancora, per una storia critica delle idee antropologicamente orientata” (p.143). 

 Ma al di là della sua oggettiva pericolosità sociale, tema a sé stante, da un punto di vista strettamente concettuale, il gioco d’azzardo contiene aspetti culturalmente assai interessanti. Nel gioco d’alea, paradossalmente, scrive Maglione, si assiste all’esaltazione della ricettività del caso da parte del giocatore nel momento dell’esito finale: “È in questo momento di grazia che la concentrazione si dilata, uscendo dal modello della proceduralità logico-lineare, per farsi concavità, luogo che accoglie l’imprevedibile compiersi dell’evento del caso” (p.187).

La funzione dell’alea “non è quella di far vincere i più abili o dotati ma, al contrario, quella di togliere ogni superiorità naturale o acquisita in modo tale da creare una condizione artificiale, fittizia, nella quale possa vigere l’uguaglianza assoluta fra i giocatori. […] Ora come un tempo, emerge il tratto prepotentemente egalitario ed eversivo dell’alea: essa in un attimo può rendere tutti uguali al cospetto della sentenza della sorte, creando una situazione di assoluta orizzontalità che, in condizioni normali, la società nega quasi sempre agli uomini. (…) Ecco il carattere civilizzatore della musica del caso” (p.189). 

Un piccolo “caso” personale di gara, gioco, azzardo (perdonate…). Da bambino andavo con mio nonno all’ippodromo ad allenare Veggiano, un bellissimo baio trottatore che doveva sgambare in pista almeno tre volte la settimana. Stavo seduto sulla pedana del sulky (calessino) da allenamento (in quello da gara la pedana non c’è) tra le gambe del nonno e davanti vedevo l’enorme massa muscolare posteriore e la bellissima coda di Veggiano. Con le mani il nonno teneva le redini, nella sinistra aveva anche il cronometro, nella destra la frusta.

In assoluto silenzio ascoltavo la corsa del cavallo e il suo ansimare, e i versi del nonno, strani suoni di incitamento, e a tratti le sue grida appena accennate di soddisfatta allegria per i tempi che l’animale riusciva a ottenere.

Poi si andava nel box delle scuderie e il grande Veggiano veniva coccolato con massaggi e la migliore avena. Ma soprattutto poteva stare a godersi la tenera compagnia del suo amico preferito, un galletto minuscolo che accarezzava, corrisposto, con la sua testa enorme. Io ero un intruso e me ne stavo in disparte mentre lo stalliere e il nonno analizzavano la seduta di allenamento, tempi, respirazione, andatura (per un trottatore fondamentale), temperatura corporea, un’occhiata alla ferratura. Veggiano era bravissimo e spesso le gare le vinceva. Ho girato tutti gli ippodromi del nord Italia per anni (fino quasi all’adolescenza) con il nonno che guidava in gara e noi, mio padre, mio fratello e mio zio che lo incoraggiavamo.

Tutto doveva convergere sulla gara, il dietro le quinte, che io vedevo, era la preparazione a quel minuto o due di gara. Una sfida animale-umana con gli altri cavalli-guidatori sulla quale il folto pubblico che la seguiva scommetteva. Era un gioco, un grande gioco, dal quale c’era chi traeva persino dei guadagni, anche lauti. Ma bastava un nonnulla per sbagliare, un insetto in un occhio, una tendinite incipiente, un gesto inconsulto di uno dei guidatori e la gara era persa. Il caso poteva decidere di mandare all’aria tutta quella complessità, la tensione, la fatica, le spese sostenute; il caso era il vero sovrano di tutto questo.

Se il gioco è educativo e formativo, io sono grato alla sorte di avermi dato da piccolo l’occasione di osservarlo molto da vicino. Forse è diventato una mia postura, una delle mie “difese culturali”. E adesso anch’io, come dice Erminio Maglione in chiusura, sono convinto che “Giocare in un contesto sicuro e regolato, con prudenza e responsabilità ci permette (…) di poter tornare a vivere le nostre vite, riprendendone in mano i margini di possibilità, d’immaginare che un cambiamento può sempre esserci, che sarà sempre possibile, con le parole di Ernst Bloch, ‘[costruire] nell’azzurro e [cercare] il vero il reale là dove scompare il semplice dato’” (p.190).

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