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Vie di fuga?

9 Luglio 2025

“C’è un che di terrificante”, così si apre la vicenda descritta dal critico d’arte e curatore Nadim Samman nel libro Criptopoetica. L’arte nell’era del tecnocene (Luiss University Press 2025), “nell’idea che non possiamo più esistere al di fuori del nostro guscio, della nostra cella – che vi siamo rinchiusi per sempre” (p. 27). Non è esagerato sostenere che la filosofia cominci con questa scoperta, quella che Platone descrive nel settimo libro della Repubblica. Socrate chiede al suo interlocutore Glaucone di immaginare che “dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce […] degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli […]. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce di un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa […] un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. […] Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno […]” (Repubblica, VII, 514). Per i prigionieri nella grotta le ombre che vedranno proiettate sulla parete della grotta coincidono con la realtà del mondo: “se quei prigionieri potessero conversare fra loro”, chiede infine Socrate, prenderebbero infatti “le loro visioni” per degli “oggetti reali”.

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Il punto più rilevante è che i prigionieri sono prigionieri soprattutto perché non sanno di essere prigionieri, e per questo scambiano le ombre per realtà; in altri termini, essere prigioniero significa non sapere che la prigione non coincide con il mondo, ossia che esiste un fuori. È questo il punto di partenza di Samman, che come tutti non è mai uscito da quel mondo di ombre eppure non smette di immaginare una via di fuga. La caverna di Platone è quello che lo stesso Samman chiama “Tecnocene”, da intendere come “l’incombente presenza della tecnologia in ogni anfratto della vita (e della morte) nel soggetto” (p. 23) umano. Per Platone come per Samman la posta in gioco è immaginare un modo, ammesso che ne esista uno, per uscire dal “guscio” dentro cui si svolgono le nostre esistenze, un guscio da cui è tanto più difficile uscire quanto più non ci accorgiamo della sua esistenza: “in quest’epoca di tecno-sepoltura, nella quale la soggettività e l’agency politica si ritrovano soffocate da strati e strati di infrastrutture” la funzione dell’arte consisterebbe propriamente nel tentativo di “aprire il guscio, o la cripta, e così rivolgersi al nocciolo che racchiude” (p. 28) avendo come obiettivo finale “il recupero di un essere umano libero” (p. 43). In questo senso va inteso il titolo del libro, Criptopoetica, come un’arte (una poetica appunto) della cripta, del guscio, della caverna platonica in definitiva. Fare arte della condizione di prigionieri, come si può vedere in Cockpit (2014) di Jon Rafman che “colloca un computer dentro a un armadio da ufficio e invita gli spettatori a entrarvi per guardare Mainsqueeze (2014), un montaggio di filmati fetish tratti dai più oscuri recessi del web” (p. 47).

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Se siamo sempre in quel guscio, se di fatto coincidiamo con quel guscio (in questo senso l’hikikomori rappresenta la figura emblematica del tecnocene), ci sono tre possibili percorsi di ‘liberazione’ che la criptopoetica può esplorare: “il primo riguarda l’essere rinchiusi: la sepoltura o la tumulazione in una tomba tecnologica, e gli sforzi necessari a sfuggirvi. Il secondo esplora le risposte affettive alla sensazione di essere intellettualmente esclusi dall’onnipresenza dei prodotti industriali e di consumo – la condizione di chi non è né archeologo né tombarolo a tutti gli effetti. Il terzo propone un’indagine anatomica degli strani effetti associati alla confusione fra interno ed esterno, chiuso e aperto – prospettive oblique legate alla condizione di reclusione” (p. 21). Si può fare arte dello stare nella prigione tecnocenica; del mondo ‘esterno’ da cui siamo esclusi; degli effetti che produce la condizione di reclusione. Per Samman non è possibile uscire dal tecnocene, perché noi stessi siamo propriamente creature tecnoceniche, nel senso che non possiamo vivere senza la sovrastruttura tecnologica che ci rende propriamente umani. In questo senso se Platone “credeva che i prigionieri infine potessero rivolgersi al sole e osservare le vere ‘forme’ della realtà e, quindi, liberare l’intelletto dalle sue catene, nel Tecnocene le cose stanno in maniera diversa. In linea col profluvio di scatole nere che definisce questo periodo […] si possono leggerne solo i margini, e scandagliare una dimensione mediale alla ricerca di un indizio sul corpo occulto” (p. 87).

In effetti la prospettiva della Criptopoetica non è quella di una impraticabile uscita dal tecnocene, piuttosto una operazione interna allo stesso tecnocene per “rendere l’inaccessibile” cioè appunto il suo segreto algoritmico ed economico almeno “virtualmente presente” (p. 119), affinché il prigioniero sappia almeno di essere rinchiuso in una prigione. Il mistero al cuore del tecnocene è inaccessibile (semplicemente perché non esiste, l’algoritmo è diffuso e impersonale, senza centro come vuole la definizione scolastica di Dio che apre il libro: Deus est sphera cuius centrum ubique circumferentia nusquam; se al posto del nome “Deus” mettiamo “Tecnocene” abbiamo una descrizione piuttosto accurata del nostro tempo), tuttavia l’arte – è questa l’ottimistica ipotesi di Criptopoetica – ci permette di stare “sempre sia dentro sia fuori” (p. 54) dello stesso tecnocene.

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Allo stesso tempo il mito che guida tutto il libro di Samman è quello di Orfeo e Euridice: Orfeo, famoso cantore, perde l’amatissima Euridice a causa del morso di un serpente. Disperato, scende nell'Ade per supplicare gli dei di restituirgliela, commuovendoli con la sua musica irresistibile. Ottiene così la straordinaria concessione di riportare Euridice sulla terra, nel mondo dei vivi, ma a una condizione: non dovrà mai voltarsi a guardarla finché non saranno entrambi alla luce del sole. Orfeo, tradito dalla sua stessa ansia e preoccupazione, non riesce a rispettare la condizione e si volta prima di essere uscito dagli inferi, e così perde Euridice per sempre. L’arte prova a farci uscire dalla cripta, ma non può non fallire, e fallisce proprio perché cerca di mostrare quello che non si può mostrare, il vuoto che è al centro del tecnocene. Come scrive lo stesso Samman, “Orfeo non seppe resistere e si girò a guardare. In quel momento Ade relegò Euridice di nuovo nei più profondi recessi degli inferi, per sempre. A mio avviso, la natura specifica di tale errore è stato un ritorno alla materialità nel momento in cui, al contrario, avrebbe dovuto lasciare quello stesso luogo per un regno superiore. Poiché, un elemento chiave nella catabasi iniziatica che non dobbiamo dimenticare è che dovrebbe costituire un moto d’ascesa o un’elevazione della persona (o, se usiamo il linguaggio classico, dell’anima). Orfeo, voltandosi, ri-afferma una discesa (caduta) che elimina qualsivoglia elevazione (in particolare per Euridice, il suo doppio). Un errore che equivale a ucciderla” (p. 47). Ma in che senso, allora, la criptopoetica può rappresentare una salvezza per chi è imprigionato nella bolla del tecnocene?

È intorno a questa contraddizione – una salvezza che si trasforma in una condanna senz’appello – che ruotano i tanti esempi di criptoarte descritti e commentati da Samman, che tanto più si affannano a mostrare al prigioniero la sua condizione di recluso tanto meno sono però capaci di liberarlo da quella stessa condizione di reclusione. Il punto è che l’idea di “arte” discussa in Criptopoetica è quella di un’arte paradossalmente molto poco ‘artistica’: in effetti quasi tutti questi lavori sono del tutto incomprensibili se non accompagnati da lunghe, e spesso cervellotiche, spiegazioni. Sono lavori da leggere, forse, non certo da vedere o ascoltare. Si tratta in effetti di lavori, video, performance che non ‘parlano’ da soli, che senza il commento del curatore rimarrebbero muti, estranei se non addirittura ostili. E così Samman, forse contro le sue stesse intenzioni, finisce per dare ragione a Platone che condanna l’arte perché “è lungi dal vero” (Repubblica, X, 598), ossia, nei termini di Samman, non riesce a farci vedere il segreto nascosto al centro della cripta in cui siamo rinchiusi: quello che può proporsi di essere, al massimo è “una forma di dis-chiusura, che così ri-centra la posizione del soggetto in un panorama criptato e interconnesso” (p. 33). Non si tratta di uscire dalla cripta tecnocenica, appunto, ma di starci dentro in modo consapevole. Ma davvero dobbiamo dare ragione a Platone? L’arte non può essere più ambiziosa?

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TAGGED: Nadim Samman