Il caso da Poe a McEwan

13 Ottobre 2022

Non di rado chi si accosta al pensiero di Spinoza lo fa come fosse un vademecum di pratiche redentive utili a liberarsi dal dolore che si trae dai fatti di cui non ci si rende ragione. Un rituale di elaborazione del lutto quando non si accetta facilmente una ferita perché non se ne intravedono in alcun modo le radici.

E siccome non c’è fatto, benché irrilevante, che non racchiuda in sé la storia dell’universo e l’infinito suo concatenamento di cause e di effetti, Spinoza offre in un sol colpo il metodo e gli argomenti più solidi per recuperare nei fatti la loro ragione più profonda, vale a dire la connessione a ogni altro fatto occorso in passato e che occorrerà in futuro: “E una cosa si dice contingente per nessun’altra ragione che per un difetto della nostra conoscenza” (Eth. I, 33 schol. I). Insomma, nulla davvero accade per caso: affermazione da brividi, che ci rende nodi inerti e inetti di un enorme intrico – e nodi difettosi, per giunta, affetti come siamo dall’immodestia di crederci liberi.

Eppure, è affermazione che in certi momenti concilia il sonno (senz’altro la quiete, in ogni caso), perché ci consegna a un pensiero che con forza tanto intensa si è saputo sviluppare solo in alcune regioni dell’Oriente: quanto è accaduto, che pure ci fa disperare, che genera quel vizietto dell’anima chiamato rimorso, non avrebbe in alcun modo potuto non accadere, quand’anche avessimo voluto il suo contrario, quand’anche avessimo tentato di approssimare il suo opposto. Insomma, la rigenerazione dal dolore, per Spinoza, è possibile solo qualora si smetta di considerare un dato evento come puntiforme, come isolato o legato al suo più limitato contesto, e lo si individui nel viluppo indefinito di legami con tutto quanto l’universo: solo allora ci renderemo conto, con immediati effetti miorilassanti, che tutto quel che accade ci vede come parti inermi di una catena causale lunga quanto la storia del mondo. Questo, secondo il più celebre dei molatori, consentirebbe la liberazione dagli errori di valutazione della conoscenza umana e quindi dalle passioni tristi che questa tende a ingenerare. 

Un recente libro di Francesca Romana Capone, L’universo letterario del probabile. Matematica, determinismo e probabilità da Poe a McEwan (Bollati Boringhieri, 2022), illustra come questa onerosissima ipoteca teorica, ancora al centro di dibattiti infuocati in molte aree delle scienze dure e morbide, sia stata e sia un motore portentoso di produzione letteraria. Prima però di fare qualche passo nelle spire di un libro divertito e divertente, sarà bene avanzare una distinzione che risulta necessaria per capire ciò di cui si tratta. I due termini al centro del libro sono determinismo e probabilità, ed è noto che, da che mondo è mondo, questi termini sono in tensione. Malgrado ciò, la tensione potrebbe essere apparente, a seconda di cosa si intende per l’opposto del determinismo, ossia l’indeterminismo. Da un canto, ci si potrebbe porre su un piano che si dice di indeterminismo epistemico, vale a dire non tanto di realtà quanto di conoscenza della realtà.

Si potrebbe così sostenere che ogni evento causato è sì determinato dalla catena di eventi causali che lo precedono, ma che questa catena non è accessibile alla conoscenza umana, perché troppi sono gli snodi che le sfuggono. Quindi, il determinismo potrebbe ben essere la cifra dell’universo, ma si tratta di un piano cui noi umani non abbiamo accesso, talché la conoscenza per noi umani conserva il carattere della probabilità: possiamo prevedere un evento futuro che è in sé determinato, ma che ad occhi umani non potrà che apparire più o meno probabile. Se l’essere umano che qui scrive godesse di una cognizione simile a quella del divin Creatore, potrebbe avvedersi di quanto rilevante sia stato l’attraversamento del Rubicone il 10 gennaio del 49 a.C. per il fatto che ora si trova qui a scrivere; ma quale umano, e più che limitato, questa rimane un’ipotesi curiosa.

Ci si può invece porre su un piano di indeterminismo ontologico, ben più radicale di quello epistemico, e sostenere, come fa il celebre fisico tedesco Werner Heisenberg, che nell’idea secondo cui “se conosciamo in modo preciso il presente, possiamo prevedere il futuro”, è la premessa ad esser falsa, non tanto la conclusione (v. Werner Heisenberg, Indeterminazione e realtà, Guida 2002). La tesi è assai più radicale, perché non concerne un difetto dell’umana cognizione, ma una realtà di fatto: non esiste nessuna macro-catena di eventi tra loro irrevocabilmente combinati, perché si danno stati fisici che possono evolvere in un senso o in un altro secondo un grado di probabilità non governato dagli stati fisici antecedenti. 

Ma se su questo dovremo tornare, guardiamo ora a L’universo letterario del probabile, che ripercorre con perizia ed efficacia le tracce degli scrittori che più hanno saputo trarre letteratura dal rapporto tra determinismo e probabilità. E Capone dispone nel suo canovaccio tre opzioni. Davanti a una realtà che è groviglio di concause, lo scrittore, come ad esempio fa Edgar Allan Poe, può disporre i suoi arnesi per darsi allo scrutinio dei segni ed esaltare così le sue figure letterarie quali accortissimi intercettori di quei dettagli che, posti nella giusta sequela, disvelano d’un colpo il vero.

Oppure può scegliere, come Carlo Emilio Gadda, di celebrare l’inevitabile naufragio: il groviglio di cause e concause è così avviluppato che, più si crede di portarvi chiarezza, più si rimane incastrati nelle sue ramificatissime arborescenze. Oppure infine si può, come Robert Musil, accettare l’inesistenza di concatenamenti rintracciabili e vedere nella letteratura un modo di intervenire nel mondo, di perturbare le sequenze di cause ed effetti. In questa serie di opzioni, com’è intuibile, ciò che più ne va è la natura epistemica od ontologica dell’indeterminismo.

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Poe è il campione dell’indeterminismo epistemico. Capone analizza con meticolosità dupiniana la figura di Auguste Dupin, che si muove nell’universo rigidamente sequenziale di Pierre-Simon de Laplace. Dupin è il protagonista di una serie di racconti gialli che ebbero inizio con I delitti della Rue Morgue (1841) e che compare altresì in Il mistero di Marie Roget (1842) e in La lettera rubata (1842), feticcio di celebri maestri del profondo come Sigmund Freud e Jacques Lacan. Orbene, per Dupin, il più spinozista degli indagatori, c’è un universo di eventi tra loro connessi da rapporti di rigida causazione, il cui intreccio però è tanto convulso da nascondersi alla vista umana.

Solo un’intelligenza affinatissima, che oltre alla vista convochi ogni altro strumento percettivo e deduttivo, consente di saltare a zig-zag di evento in evento per individuare il legame tra eventi e interpretare così un singolo fatto, che per i più ha dell’inspiegabile, come la naturale conseguenza di fatti apparentemente irrelati. Capone non si limita alla produzione poliziesca di Poe, ma scevera anche gli audaci tentativi in cui l’autore s’improvvisa fisico e ontologo per mostrare come la metodologia di Poe sia viziata da un difetto di matematica: non c’è alcun modello matematico, cui Poe invece crede di potersi appellare, che consenta di leggere il passato come una foresta di segni che preconizzano gli eventi futuri. In buona sostanza, Poe è più scomposto aruspice che affidabile bookmaker. S’improvvisa in matematica, utilizza una bislacca teoria della probabilità, e incorona Dupin come sommo detentore di una scienza dell’investigazione che ha più a che fare con la chiaroveggenza che con la reale concatenazione degli eventi. 

Ben più probante l’attitudine gaddiana. Anzi, Gadda è una sorta di camera della carità del determinismo: inevitabile la tendenza a mettersi alla prova da parte di chi vorrebbe farsi novello Dupin, ma con la consapevolezza amara che si cammina sulle sabbie mobili. Nondimeno, l’indeterminismo di Gadda è ancora quello epistemico: “L’universo gaddiano è un universo caotico, nel quale si rispecchia l’idea chiave di Poincaré che non solo ogni fenomeno è estremamente sensibile alle condizioni iniziali, ma che essi, in forma di groviglio o gomitolo, non siano in alcun modo attingibili” (pp. 75-76).

Per l’essere umano, certo, il mondo è dominato da un caos che non si lascia dipanare; eppure, rimane pur sempre un mondo determinato e la vita ci appare come un campo di probabilità per uno spinoziano difetto di conoscenza. L’anti-dupinismo gaddiano è quindi una sorta di elogio dell’indeterminazione epistemica: è forse più umano, oltreché più divertente, rassegnarsi all’impossibilità di scomporre il mosaico di concause per disporne i pezzi in una sequenza decifrabile. Certo, quest’idea è assai meno confortante e liberatoria, ma perlomeno non esige lo sviluppo di un’intelligenza e di una percezione che hanno quasi del divino: la chiaroveggenza rimane un’arte da furfanti che al meglio sanno sfruttare i segni involontari lanciati da chi ha disperato bisogno di un conforto quale che sia, purché sia. 

È solo nel quinto capitolo di L’universo letterario del probabile che Capone si avvia sulla strada più recente e meno battuta dell’indeterminismo ontologico, che com’è noto è legato, tra gli altri sviluppi delle scienze dure, alla meccanica quantistica nell’interpretazione di Copenaghen (v. Emilia Margoni, Niels Bohr: 100 anni dalla rivoluzione dell’immaginario). Benché la ricostruzione sia solida e godibile assieme, per offrire l’idea di una rottura tanto epocale con l’indeterminismo epistemico converrà fare riferimento all’efficace sintesi di Carlo Rovelli. Egli spiega come, nella rivoluzione avviata da Planck e Bohr prima, ma calcata con decisione senza pari da Heisenberg, “il futuro non è determinato dal passato: il mondo è probabilistico.

Siccome misurare P altera X, misurare prima X e poi P dà risultati diversi che non misurare prima P e poi X. Quindi è necessario che nella matematica ‘prima X e poi P’ sia diverso da ‘prima P e poi X’” (Carlo Rovelli, Helgoland, Adelphi 2020, p. 114). Non si tratta pertanto di un difetto della conoscenza umana, ma di una proprietà intrinseca dei sistemi fisici. Chi, come ad esempio Albert Einstein e David Bohm, cercava di individuare variabili nascoste che spiegassero l’evoluzione dei sistemi fisici in senso deterministico, secondo Rovelli, era affetto dalla paura di congedarsi dalle certezze della fisica classica e dalla rassicurante immagine dell’universo spinoziano.

Ogni interpretazione che nel corso del Novecento ha cercato di rimuovere l’indeterminismo – questa la tesi rovelliana, dal chiaro retrogusto psicanalitico – non è che un tentativo di esorcizzare una paura. Ma l’idea che il contingente sia un limite gnoseologico, per l’indeterminista ontologico, avrà pure del terapeutico, ma rimane fondamentalmente erronea. Quindi, resta da scegliere se crogiolarsi in una consolante ma mendace illusione oppure accogliere una verità fisica e farsene una qualche ragione.

Capone si mette allora sulle orme di quegli autori che si disfano della paura e accolgono l’indeterminazione ontologica come un dato di cui fare qualcosa. Tra questi Musil, com’è noto di formazione scientifica (la sua dissertazione era dedicata alla teoria di Ernst Mach – v. Robert Musil, Sulle teorie di Mach, Adelphi 1973). Lo spirito copenagheniano di Musil si ritrova nella tendenza a considerare la letteratura come “una costruzione ipotetica rispetto alla quale lo scrittore mette in gioco la sua capacità di valutare gli sviluppi potenziali delle vicende” (p. 117). Lo scrittore, quindi, non mette i suoi attrezzi al servizio di uno scrutatore accorto che dinanzi agli occhi ha una rete di segni tutti indicanti il vero, bensì incarna la consapevolezza di una realtà che non segue linee radicate nel passato.

Ma c’è di più: se, come sottolinea Rovelli nel passo riportato poco sopra, l’indeterminazione di Heisenberg è legata al fattore dell’osservazione, vale a dire all’interazione tra chi osserva e l’oggetto osservato – interazione che muta in modo irredimibile il legame tra lo stato osservato e gli stati che l’hanno preceduto –, così la vita dei personaggi di Musil è un’invenzione, un’intromissione ripetuta tra il corso degli eventi e quell’evento particolare in cui si contempla il corso degli eventi. “Il problema – scrive Capone a proposito di Daniele Del Giudice, ma questo vale per tutti gli autori che rientrano nel novero indeterminista – diventa allora quello di dare corpo alle cose probabili che non possono più realizzarsi attraverso una rappresentazione intuitiva” (p. 125). La letteratura, in tale ottica, non è più propedeutica ai protocolli dell’investigazione delle cause, né conciliante resa al groviglio inestricabile, ma produzione di vita a mezzo invenzione letteraria.  

Insomma, credo che, come ogni libro che funzioni davvero, L’universo letterario del probabile raggiunga un obiettivo che è tutt’altro da quello dichiarato. Se Capone sostiene di voler dire qualcosa a proposito del modo in cui la letteratura incamera, metabolizza e restituisce verità scientifiche (o presunte tali), il testo in realtà non fa che esaltarne la natura alchemica: la narrazione vive della trasmutabilità di alcuni eventi in eventi che con quelli non hanno nulla a che fare, e che di questo nulla fanno materia nuova, inanticipata. Ma su questa capacità unica della letteratura, dice meglio di ogni altro Giorgio Manganelli.

Nel recensire Il signore di Ballantrae, di Robert Louis Stevenson, il cui protagonista affida la propria vita a un lancio di moneta, Manganelli commenta il collasso letterario di caso e destino, per cui il racconto è l’ingresso in un universo di possibilità costruite con la forza cosmopoietica della parola: “Secondo gli imperativi di questo universo d’invenzione, stile e destino sono dunque tutt’uno; e quindi non significato, e neppure serie di eventi coordinati o comunque necessari; ma, al contrario, forma imprevedibile e struttura gratuita. La qualità fatale dell’evento starà appunto nel non aver rapporto con quello che lo precede, di non essere necessario: ogni volta, la moneta poteva veramente cadere dall’altra faccia. Il caso totale è l’indizio del fatale” (Giorgio Manganelli, La letteratura come menzogna, Adelphi 2004, p. 23). 

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