Inès Cagnati, la cattiva

10 Giugno 2023

"È molto importante che ogni cosa abbia il suo nome" scrive a un certo punto Inès Cagnati nel suo primo romanzo, del 1973, Giorno di vacanza, che esce in Italia ora, tradotto da Lorenza Di Lella e Francesca Scala per Adelphi. Ma nemmeno lei sa che nome dare al dolore di Galla, la quattordicenne protagonista di questa storia di persecuzione, violentata dalla povertà e torturata da una intelligenza vivida, quella che la sua maestra riconosce e che la porterà ad adoperarsi per far avere alla bambina, contro il parere dei genitori contadini, una borsa di studio per andare "interna" al liceo. Galla somiglia al Barbino di Seminario sulla gioventù che Aldo Busi scrive dieci anni dopo (1984), uguale alla sua è la negazione dell'infanzia e dell'adolescenza, che per loro sembrano non essere mai cominciate, seppellite dalla crudeltà di un ambiente rurale spietato: Barbino canta mentre balla il mambo tra gli sghignazzi di un pubblico di ignoranti e anche Galla canta, a squarciagola, mentre pedala sulla sua bicicletta nel buio di una notte d'inverno e quando torna in camerata, nel silenzio del convitto. Qualcosa nei due ragazzi frana, "un sottoscala che portato alla costrizione della luce frana" dentro Barbino, e in Galla, un buio che al primo chiarore trapelato da una crepa rivela una sofferenza incomprensibile a tutti e due.

Il dolore nel libro di Inès Cagnati è quello leopardiano che non risparmia né uomini, né animali, né piante: uno zibaldone di pulcini falciati e ridotti in pezzettini, topi infilzati, cani impiccati, maiali sgozzati, mucche impazzite dalla fame, perché anche gli animali e le piante provano dolore in questo libro, nessuno è destinato a un'esistenza felice, diceva il poeta. La salamandra che il padre di Galla appende viva a un gancio, la perseguiterà perché il suo flebile stridio le ricorda la sua bicicletta, che geme nello stesso modo, arrugginita, ad ogni pedalata.

Giorno di vacanza, l'ossimoro di un titolo spensierato su una catabasi senza redenzione, è una storia tutta nella testa di Galla, raccontata in prima persona ma, come disse in una intervista l'autrice: "L'autofiction è un sogno, un sogno non è la vita, un libro non è la vita", cercando di depistare il lettore morboso che vorrebbe a tutti i costi rintracciare in questo sogno – un incubo, piuttosto – i dettagli dell'autobiografia. Inès Cagnati (1937-2007) era davvero figlia di contadini italiani immigrati, aveva davvero quattro sorelle (a cui questo romanzo è dedicato), soffrì plausibilmente per la mancanza di affetto della madre, come racconta in Génie la matta (Adelphi, 2022, vedi la recensione qui). Anche in questo libro la madre, che non compare, tiene viva l'attenzione del lettore, in una sorta di suspense che sarà sciolta soltanto alla fine.

Nei suoi romanzi la figura materna è sempre appena accennata, ma presente in modo ossessivo, e riempiendo in absentia i pensieri della figlia e la narrazione. Galla torna nella povera casa di campagna per un fine settimana, percorrendo in bicicletta i trentacinque chilometri che la separano dalla scuola in città, per compiacere sua madre, che avrebbe voluto non andasse mai via, per riconoscere un'altra volta quell'odio-amore che la lega a lei. Ma, finalmente arrivata, intirizzita, e aperta la porta, le viene incontro il padre che le dice soltanto "vattene"; glielo ripete, lasciandola interdetta, spingendola fuori e chiudendosi dentro a chiave.

Un senso di sventura incombe da questo momento sul racconto di Galla, che si sistema per passare la notte accanto alla cagna Daisy, e al suo cucciolo, sulla paglia. Inizia una specie di delirio, un dormiveglia interrotto da ricordi, un andirivieni emotivo tra storie che si accavallano, tra l'affetto per le sorelle e il rancore per un' ingiustizia cosmica che avverte, di cui è vittima, ma alla quale non sa dare un nome: è il suo grembiule verde, che lei stessa si è cucita, rappezzando un vecchio vestito di sua zia, che marca la sua diversità, tra tutti quelli rosa, la divisa scolastica delle ragazze; il suo essere "nera come una zingara" mentre Fanny, l'amica che la protegge dalla crudeltà delle compagne, è bionda e con i capelli "pieni di sole"; l'oscuro senso di colpa per la morte di una sorellina; le umiliazioni che una professoressa le infligge; l'avversione profonda verso il genere umano, che le fa immaginare le sue zie e la nonna che odia divorate dai maiali, o vedere i gendarmi, che dovevano andare a prenderla perché aveva gettato delle talpe morte nel pozzo del paese, annegare tutti, con "la voglia di uccidere il mondo intero".

Il desiderio di rivalsa e la ribellione impotente si alternano a una paura infantile, ai dubbi, all'angoscia del sentirsi perseguitata senza sapere perché. Solo sentimenti contrastanti: amore e odio, rabbia e compassione, nella consapevolezza di non poter dare una svolta al destino che le è toccato. "Quando avrò i soldi comprerò a mio padre un pezzo di terra buona, senza sassi", ripete senza crederci. Giorno di vacanza è un libro che non dà tregua a chi legge, perché è la vita stessa di Galla che la soffoca e che la fa essere dura, polemica, cattiva ("sono fatta così" è la sua giustificazione ricorrente). C'è un solo momento di sollievo nel racconto: Galla fa una doccia lunga e calda nel collegio, dopo aver pedalato nella notte gelida al ritorno da casa ed essere caduta nel buio. Ma anche il liceo, che potrebbe rappresentare l'unica sua ancora di salvezza, è invece per Galla un altro inferno, la riprova della sua diversità, della sua stranezza, della sua povertà. 

Cercando notizie su questa singolare scrittrice incontriamo, in una intervista rilasciata in tv, una donna con una faccia severa, senza sorriso: nello stesso modo in cui non concede nessuna gratificazione al lettore dei suoi romanzi, Inès Cagnati non sembra preoccupata di creare disagio in chi la intervista, tanto meno compiacerlo. Le sue sono le risposte aspre di chi ha sofferto, e che solo attraverso lo studio ha potuto riscattare e circoscrivere i confini di un dolore antico. Cagnati considera l'infanzia un'età maledetta della vita, pensa che i matti siano gli unici a comprendere lucidamente gli uomini, sembra non essere capace di liberarsi dal suo passato, pur essendo diventata un'autrice famosa e premiata e dice che, con i suoi romanzi, ha voluto dare voce a vite fatte soltanto di miseria.

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