I flashback di Lady Macbeth alla Scala
Nella Lady Macbeth di Šostakovič il grottesco serpeggia lungamente dentro alla tragedia che si snoda cupa e inesorabile, in un contrasto accuratamente studiato e volutamente straniato. Solo alla fine cede completamente il passo: l’ultimo delitto di Katerina Izmajlova e il suo suicidio nel gorgo di un fiume sono il luogo di una delle più raggelanti e desolate rappresentazioni musicali della disperazione, nella quale nulla più di tragicomico può trovare spazio. Il regista moscovita Vasily Barkhatov, autore dello spettacolo che ha inaugurato la stagione della Scala, ne è pienamente consapevole, almeno a giudicare dalle interviste sui giornali e in Tv. Ma solo a sprazzi riesce a centrare la narrazione adeguata. Così, il suo montaggio quasi cinematografico della storia, all’insegna di una problematica cornice in flashback, virtuosistica a fasi alterne, finisce per diventare un obiettivo fine a sé stesso e non un mezzo narrativo. Il risultato non è solo quello di “deformare” la drammaturgia di questo capolavoro del teatro musicale del Novecento, ma di spostarne e alterarne la stringente necessità interiore.
Accade specialmente – ma non solo – in due momenti cruciali, alla fine del primo atto e nell’atto conclusivo: i determinanti poli di questa storia desolante e feroce.
L’adulterio della protagonista con il bracciante appena assunto dal suocero – come abbiamo raccontato, la scena che negli anni Trenta scatenò la pruderie staliniana e occidentale e alla prima italiana del 1947 quella di casa nostra – non è solo la più “naturalistica” descrizione musicale di un rapporto sessuale. È anche e soprattutto uno snodo decisivo della drammaturgia, il momento in cui Katerina decide di andare “oltre”, di cercare una vita diversa affermando la propria libertà e accettando il rischio della sconfitta e dell’auto dissolvimento, incubo fatale che si materializza inesorabilmente, lontano peraltro, nelle intenzioni dell’autore, da ogni giudizio moralistico. Nella rappresentazione scaligera, proprio in questo momento viene sospeso il flashback che fino a quel momento aveva costituito il metodo rappresentativo: in precedenza Katerina già arrestata per gli omicidi del suocero e del marito confessa gli eventi a un ufficiale di polizia, e il suo racconto si materializza per così dire con carattere narrativo autonomo sotto gli occhi degli spettatori. In questo caso, il taglio è diverso: il frenetico rapporto viene ricostruito sotto gli occhi di questo poliziotto, tanto è vero che i due protagonisti dell’amplesso per lunga parte di esso hanno le manette, in quanto già arrestati, e sono vestitissimi, specialmente lei. Lui indossa una canotta quasi come divisa di ordinanza. Gli addetti alle foto segnaletiche della stazione di polizia si trasformano in paparazzi guardoni, che con le loro fotocamere immortalano i dettagli, anche se non c’è il groviglio di corpi seminudi di altre edizioni della Lady Macbeth. E basti citare al proposito l’allestimento di Krzysztof Warlikowski, Leone d’oro della Biennale nel 2021, uno dei maestri del teatro internazionale, che all’Opéra Bastille nel 2019 realizzò uno spettacolo che non sapremmo definire altrimenti che “softcore”. (Lo si trova interamente su YouTube)
Realizzata in questo modo, la scena viene assegnata al versante grottesco dell’opera, ma è evidente il fraintendimento: ritenere banalmente caricaturali le scelte musicali di Šostakovič in questo punto sposta la drammaturgia in territori estranei al suo tagliente modernismo.
Nel quarto atto, molto si è già compiuto, ma non tutto. E soprattutto, il contesto espressivo muta radicalmente. La solitudine e la disperazione di Katerina la conducono all’ultimo delitto e all’annullamento di sé con una cupezza che trasporta le istanze moderniste della musica, strumentali e politonali, in una dimensione ben diversa dal sarcastico furore che si è sentito in precedenza. Qui è la rivisitazione del pessimismo di Musorgskij e del suo Boris Godunov a determinare il clima. La protagonista contempla il suo fallimento, e il nulla a cui è decisa ad andare incontro, senza rimpianti e a ciglio asciutto; il coro dei deportati la accompagna all’insegna di un pessimo esistenziale di lancinante dolore.
Abbandonata inevitabilmente ogni struttura narrativa in flashback, al finale sono riservati i coup de théâtre: d’effetto, ma fuorvianti. Fino a quel momento la storia si è dipanata in un interno borghese russo degli anni Anni Cinquanta, fra il monumentale ristorante per la nomenklatura che è la spiegazione della ricchezza del marito e del suocero della protagonista e locali di servizio distribuiti su due piani, sordidi la loro parte, dove avvengono tutte le efferatezze (le scene, spesso con sofisticate mutazioni a vista, sono di Zinovy Margolin, i costumi di Olga Shaishmelashvili). Rinunciando integralmente a ogni allusione naturalistica – l’ambientazione è teoricamente siberiana – Barkhatov punta sulla spettacolarizzazione dinamica: un camion per il trasporto dei forzati irrompe nel ristorante frantumandone la vetrata e intorno e sotto al mezzo pesante si svolgono gli ultimi eventi. Il contesto ambientale – fondante e decisivo anche nel linguaggio musicale adottato al compositore – è limitato a qualche fiocco di neve all’esterno. Scomparso ogni riferimento all’elemento acqueo, suo ultimo orizzonte esistenziale e sua tomba, come in un film dell’orrore Katerina si cosparge di benzina e si appicca il fuoco, trascinando in questa morte anche la rivale. In scena, realismo cinematografico: due abili stunt appaiono avvolte dalle fiamme, torce umane mai viste prima sulla scena del Piermarini, spente dagli estintori nella rappresentazione e nella realtà che lascia a bocca aperta il pubblico. Il fuoco gli è stato “dettato” dalla musica di Šostakovič, ha dichiarato il regista. E il minimo che si possa dire è che si è trattato di un ascolto molto personale: nello strumentale e nella dolorosa linea di canto della protagonista dominano il gelo e l’oscurità dell’acqua che tutto annulla. Trovarci qualcosa di incendiario è quanto meno singolare.
Fra questi due poli, lo spettacolo si dipana ruvido ma mai “oltraggioso”, talvolta anche efficace nelle immagini, campo di libero esercizio della fantasia di Barkhatov pur nella fin troppo ricca messe di dettagli ininfluenti. Fra questi, la moltiplicazione dei fantasmi. Nell’opera esiste solo quello del suocero, ammazzato da Katerina con il veleno per topi nei funghi. Il regista fa apparire anche lo spettro del marito, massacrato dalla moglie insieme all’amante: spunta al terzo atto, uscendo dalla grande torta nuziale dei due assassini che nel frattempo hanno deciso di convolare. Invenzione, anche questa, molto da film. Forse si è ritenuto che fosse necessario sottolineare che Šostakovič è stato un importante autore di colonne sonore cinematografiche. Ma la Lady Macbeth non ha niente di un film. E per la verità, all’epoca in cui il musicista sovietico componeva il suo capolavoro operistico, di colonne sonore ne aveva scritte solo tre o quattro, della quarantina che compaiono nel suo catalogo definitivo. Ma del resto, anche i meravigliosi Interludi orchestrali che separano le scene all’interno degli atti, qui diventano altrettante piccole colonne sonore di episodi “muti” che talvolta annunciano quello che accadrà, altre volte sono francamente superflui, per quanto curati o suggestivi.
Se lo spettacolo è stato salutato da un vivo successo, accomunando nel consenso anche la regia, il merito principale è da ascrivere a Riccardo Chailly, autore di una lettura della Lady Macbeth in cui la composita trama espressiva della partitura è stata sottolineata in ogni singolo elemento e nell’insieme, risultando coinvolgente e allo stesso tempo sconcertante com’era nelle intenzioni del compositore di Leningrado. Serrato il fraseggio, mai espressionista in senso generico, meditato, capace di profonda introspezione psicologica e di esemplare articolazione timbrica. L’interpretazione del maestro milanese, che al passo d’addio alla direzione musicale della Scala ha centrato una delle sue prove più convincenti, è stata esaltata dalla sontuosa resa orchestrale, con la formazione scaligera eccellente protagonista in ogni sezione, per l’efficacia delle tinte e per l’equilibrio esemplare. Un’esecuzione, quella di Chailly con l’Orchestra della Scala, che anche al primo ascolto è sembrata avere la perentorietà artistica delle edizioni di riferimento, una di quelle che sarebbe opportuno potesse entrare in una discografia allo stato niente affatto ampia.
Degno della tradizione scaligera il vasto cast. Una Katerina Izmajlova di tagliente forza scenica e di vocalità sfarzosa è stata Sara Jakubiak, convincente sia nel disperato lirismo che s’intravvede nel primo atto e fiorisce tragicamente nel quarto, sia nella forza emotiva che la spinge al delitto per affermare la propria libertà di amare, riflessa in una parte particolarmente tendente alla zona acuta della tessitura, sempre magistralmente controllata. Fra le disgustose figure maschili che la circondano, da segnalare il miserabile suocero grottesco/spietato disegnato da Alexander Roslavets con vocalità piena e duttile; il marito imbelle (e impotente) di Yevgeny Akimov, il vuoto esistenziale in una linea di canto quasi denaturata; lo spietato profittatore/amante Sergej, voce educata e quasi “automatica” di grande effetto, in questo caso più della resa scenica. E ancora la sprezzante Elena Maximova, Sonetka, che causa la catastrofe finale. Impegnato e accorto il coro istruito da Alberto Malazzi: cantare in russo non è routine per chi normalmente frequenta un repertorio in larga parte italiano.
Quanto agli ascolti della diretta televisiva su Rai1, sulla quale abbiamo scritto queste note, il risultato è stato un record in negativo. Ha seguito l’opera solo un milione di spettatori – per la precisione, 1.011.000, per uno share del 6,4%. Una soglia psicologica raggiunta, non oltrepassata per un soffio. Da quando la serata inaugurale della Scala va sulla rete ammiraglia Rai, è il risultato di gran lunga peggiore. Seicentomila spettatori in meno della verdiana Forza del destino in scena il 7 dicembre dell’anno scorso (un calo ben superiore al 30%); restando in ambito russo, mezzo milione in meno rispetto al Boris Godunov di Musorgskij, anno 2022, che fu visto da 1,5 milioni di spettatori. Risalire nel tempo serve a capire la perdita di appeal della grande diretta. I record di ascolti restano saldamente (viene da pensare definitivamente, salvo imprevedibili contro-rivoluzioni) nelle mani di Puccini: 2,6 milioni per la Butterfly del 2016; 2,9 milioni per la Tosca del 2019, primato assoluto. Verdi ha tenuto botta fino a cinque anni fa, navigando intorno ai 2 milioni di spettatori anche con titoli minori come Attila (2018) o con un capolavoro non abbastanza riconosciuto per tale come Macbeth (2021). Ma già il Don Carlo del 2023, un’opera a ragione considerata dagli storici fra i massimi raggiungimenti dell’arte verdiana, non aveva indotto più di 1,4 milioni di persone a soffermarsi davanti al piccolo schermo.
Dopo il tele-flop riprenderanno forza le discussioni sul “format” della lunga diretta, le giustificate polemiche sui presentatori, le plausibili obiezioni sulle scelte dei personaggi intervistati nel foyer. Gli errori ricorrenti nell’immagine complessiva che si dà dell’evento. E qualcuno si metterà a fare i conti della imponente macchina produttiva messa in piedi quest’anno come in quelli precedenti dalla Rai, con risultati invero ragguardevoli per quanto riguarda la ripresa di quanto accadeva sul palcoscenico (la regia televisiva è stata firmata da Arnalda Canali). Quest’anno durante la trasmissione è stato proclamato a più riprese un motto, quasi come un mantra: l’opera in Tv è propedeutica, serve a portare il pubblico nei teatri “veri”. Una convinzione sbandierata che si scontra con il fatto che il pubblico del melodramma in Italia ha dinamiche lentissime e da molto tempo – oltre certe trionfali narrazioni – fa segnare solo piccoli spostamenti a crescere o calare. Lo costituisce un numero di persone attestato poco sopra i 2 milioni. Secondo l’ultimo rapporto Siae, pubblicato lo scorso luglio, nel 2024 sono state 2,1 milioni, in calo dello 0,8 rispetto al 2023.
Il deludente risultato di audience rischia peraltro di diventare un argomento politicamente sensibile nel momento in cui il nuovo e discusso Codice dello spettacolo sta arrivando alla fase decisiva. Ne è coordinatore un sottosegretario del quale le cronache hanno riportato poco tempo fa la convinzione che gli spettacoli operistici oltre l’ora e mezzo non devono andare. E figurarsi il lavoro di Šostakovič, che ha tenuto il pubblico in sala per 3 ore e 45 minuti. Sostenitore della legge in dirittura d’arrivo – che raccomanda l’italianità delle proposte nei teatri lirici – è il presidente della Commissione Cultura della Camera dei deputati, gran difensore di Beatrice Venezi nella querelle alla Fenice, il quale al primo intervallo della serata inaugurale alla Scala ha consegnato ai media la sua perplessità per l’allestimento di un titolo di un compositore sovietico, “che stride molto con i valori di rispetto delle donne”. In una successiva intervista lo stesso politico ha espresso apprezzamento per la scelta del prossimo 7 dicembre alla Scala, Otello di Verdi. In questo caso, nessuna considerazione sui “valori di rispetto delle donne”, anche se l’opera racconta uno spietato, terribile femminicidio. Ma si sa: Verdi e il suo librettista Arrigo Boito erano italianissimi. E per quanto la storia sia di origine anglosassone, questo oggi è quello che conta.
In copertina, fotografia Brescia/Amisano.
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