Don Giovanni e Mozart, il mito ambiguo

8 Novembre 2025

Subito dopo i due demoniaci accordi in Re minore a tutta orchestra, con i quali attacca l’Ouverture, si vedono i personaggi dell’opera, circondati da numerosi figuranti – ciascuno secondo la classe sociale e le mansioni, in elegantissimi costumi settecenteschi – scendere dalle vie di Tebe del Teatro Olimpico di Vicenza, come se fossero appena usciti di casa. Tutti si affacciano solo brevemente sul palcoscenico prima di proseguire in altre direzioni, in una vertigine spaziale, monumentale e prospettica che sembra scaturire dalle stesse architetture progettate da Andrea Palladio e dalle scene realizzate da Vincenzo Scamozzi, le più antiche giunte fino a oggi, datate 1585.

Così inizia Don Giovanni secondo Joseph Losey. Lo si può rivedere facilmente, perché da un paio di anni la prima parte dell’epocale film-opera firmato nel 1979 dal cineasta americano è disponibile su YouTube. La scena è sbalorditiva: di lì a pochi anni sarebbe iniziata l’epoca del divieto per chiunque di mettere piede oltre la monumentale “frons scenae”, nel nome della salvaguardia. Ma l’utilizzo strutturale e “da dentro” dei capolavori palladiani è una caratteristica decisiva della pellicola e non riguarda solo l’Olimpico.  Per restare a Vicenza, la villa La Rotonda è la casa del protagonista, mostrata in ogni dettaglio con sontuosa ricchezza di particolari; e il palazzo del Commendatore, dove si consuma il suo omicidio, è la Basilica di piazza dei Signori, con le sue colonne in fuga prospettica senza fine e le monumentali scalinate avvolte in una inquietante oscurità. È quasi mezzo secolo, dunque, che Mozart e Palladio grazie al cinema si parlano sul serio, oltre il citazionismo classicistico di tanti storici allestimenti. Pur soggetti a tutte le successive restrizioni, in seguito all’Olimpico di Don Giovanni ne sono transitati parecchi, non di rado di un certo valore. Molto atteso era quello secondo Iván Fischer, che non per caso ha visto l’insegna del “tutto esaurito” innalzata con largo anticipo, dopo le richieste di spettatori provenienti da molti paesi europei. E che è stato rappresentato all’Olimpico tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, nell’ambito dell’ottava edizione del Vicenza Opera Festival, proponendo come sempre qui il direttore ungherese anche nelle vesti di regista.

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La cena di Don Giovanni nel finale dell’opera mozartiana all’Olimpico (foto Alberto Storti).

Impossibile da costringere dentro le cornici di genere del teatro per musica (a rigore, né opera buffa né opera seria: dramma giocoso, come lo definirono i suoi autori), Don Giovanni rinnova prodigiosamente un personaggio che al suo apparire al Teatro Nazionale di Praga (29 ottobre 1787) era usurato da oltre 150 anni di maniera teatrale e letteraria. Lo fa superando i canoni del canovaccio della Commedia dell’Arte, fino a quel momento riversati tali e quali nell’ambito operistico, grazie a un libretto e a una partitura che in straordinaria sinergia rendono protagoniste, sia pure in modalità differenti, tutte le figure che si muovono in quest’opera, ciascuna psicologicamente connotata in maniera sottile e per questo inquietante. E lo fa delineando anche una dimensione filosofica, quasi esistenziale ante litteram, se non addirittura nichilista, della quale l’amoralità e la voracità seduttiva sono un effetto e non una causa. Paradossalmente, il “giovane cavaliere estremamente licenzioso” (come viene definito all’inizio del libretto) finisce per risultare quasi una figura eroica, le cui abominevoli gesta non possiamo evitarci di seguire senza provare un qualche senso di partecipazione, se non una effettiva “simpatia”.

Nasce con quest’opera la versione moderna del mito di Don Giovanni, quella che vede nel demoniaco sensuale un elemento centrale della natura umana nel suo profondo, e che fa del personaggio un protagonista di prima grandezza nella lotta dell’uomo contro la sua finitezza. Sarà questa la concezione adottata dal secolo romantico – da E.T.A. Hoffmann a Kierkegaard: una ricezione capace di perpetuare ancora oggi, almeno in larga parte, la vitalità e il fascino del capolavoro di Mozart.

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Il concertato del secondo atto di “Don Giovanni”  (Alberto Storti).

Come già era accaduto nelle Nozze di Figaro, la poesia di Lorenzo Da Ponte si dimostra anche qui naturalmente connaturata al pensiero musicale e teatrale di Mozart, ma presenta in più una caratteristica decisiva: è singolarmente ed efficacemente “neutrale” rispetto all’evidente ambiguità dell’opera, la caratteristica che ancor oggi ne costituisce il principale problema interpretativo e allo stesso tempo un fondamentale elemento di fascino. Di più, in Don Giovanni ogni tradizionale unità drammaturgica risulta abolita: tempo, luogo e azione si dislocano anch’essi in una indeterminatezza e in un’allusività totali. Quella che per certi aspetti potrebbe apparire come una vicenda che si dipana nel giro di ventiquattr’ore, in realtà si frammenta, si frange in una serie di eventi a sé stanti, che sembrano contigui – nello spazio e nel tempo – quando non lo sono, e viceversa. La superiore unità – quella che fa dell’opera un ispirato blocco uniforme di altissima invenzione – è garantita dalla partitura mozartiana. La trama delle tonalità, articolata e sofisticata, delinea una tavolozza di forza espressiva senza precedenti; la scrittura armonicamente duttilissima aggira il descrittivismo fine a se stesso per raggiungere una profondità psicologica fino ad allora inusitata; Arie e Concertati sono rifiniti con suprema eleganza in un continuo rimando fra voci e strumenti, e si modellano efficacemente secondo l’urgere del racconto, senza rigidità formali, arrivando nei due Finali d’atto a un grado di complessità nella quale la qualità dell’invenzione è funzione della stringente evidenza drammatica. E poi, la limpida forza creativa del salisburghese regala con prodigalità, a getto continuo, gemme melodiche multiformi, ora brillantissime, ora suadenti e perfino tenere, ora di inquietante profondità. Sempre memorabili, in senso stretto.

Tutto in questo capolavoro illumina il mistero dello spirito umano senza pretendere di definirlo, rappresentandolo attimo per attimo, fra pianto e sorriso, quasi sgomentando lo spettatore per la forza del confronto fra l’assoluto naturale e quello soprannaturale.

A questo confronto appartiene, in fondo, anche il Sestetto conclusivo, che segue il richiudersi delle voragini infernali in cui è sprofondato Don Giovanni e vede i sopravvissuti affermare una semplicistica morale: “Questo è il fin di chi fa il mal”. La tradizione esecutiva nell’Ottocento e fino ai primi del Novecento, specialmente nei Paesi di lingua tedesca, è stata largamente portata ad ometterlo e molto ha fatto discutere gli storici il fatto che lo stesso Mozart per la prima rappresentazione viennese fosse propenso a tagliarlo, anche se non esiste certezza che lo abbia fatto davvero. Ma a parte il fatto che ogni rappresentazione, a quell’epoca, faceva storia a sé, condizionata da mille elementi occasionali, l’adesione di Mozart, con Da Ponte, allo schema antico dei tanti Convitati di pietra, tutti caratterizzati dal finale moralistico, non scalfisce minimamente la portata complessiva del Don Giovanni. Anzi, ne esalta la multiforme, illuministica logica drammatica. La sentenziosa e banale chiusa, pur brillante e tipicamente buffa, non suggella realmente il “dramma giocoso”, ma paradossalmente, con la sua trasparente ironia e il suo malcelato cinismo, lo dichiara aperto, e prepara ogni nuovo futuro viaggio nella vertigine.

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André Schuen, Don Giovanni, nella scena della serenata, al secondo atto (Alberto Storti).

Non è di questa idea Iván Fischer, che al Teatro Olimpico ha proposto un’esecuzione priva del Sestetto. Scelta legittima, per quanto di questi tempi decisamente minoritaria, ma a suo modo paradossale: la visione del direttore in quanto regista dello spettacolo è orientata ad agevolare in chi assiste la comprensione per il “dissoluto”, cosa ben lungi dall’accadere nella tradizione esecutiva tedesca a cui l’interprete ungherese musicalmente si richiama, che univa il taglio nella partitura a una visione del tutto negativa, in chiave moralistica, del protagonista. E quindi, il Fischer regista evita di giudicare, ma il Fischer direttore espunge il finale autentico come se non considerasse sufficiente il cinismo che contiene, oltre le vuote buone parole, per garantire la ricercata sospensione del giudizio. Cinismo fra l’altro tipico del compositore e del suo poeta, che di lì a poco raggiungerà il culmine in Così fan tutte.

Per il resto, lo spettacolo – che proviene da un progetto sviluppato fin dal 2010 e variamente rappresentato in giro per il mondo, ma mai in Italia – propone una chiave rappresentativa così essenziale da risultare in vari momenti ai confini dell’esecuzione in forma di concerto, non senza un’astratta ma dominante carica simbolica. La narrazione – e in certo modo la sua stessa connotazione scenografica, posto che qui l’Olimpico è sfondo inerte – è determinata dalla multiforme presenza di un gruppo di una ventina di giovani dell’Ensemble di danza della Iván Fischer Opera Company e dell’Accademia di arte drammatica e del cinema di Budapest. Interessante la molteplicità narrativa affidata al linguaggio dei corpi, vestiti in stile statuaria classica da Anna Biagiotti: non hanno solo funzione di figuranti, ma sono veri e propri elementi scultorei o appunto scenografici; componenti del coro ma anche in certo modo strutture architettoniche viventi, a disegnare in maniera originale archi, colonne, spazi sopra e intorno agli unici due elementi “estranei” sulla scena del teatro palladiano, due grandi piedistalli semoventi, di altezza e forma diversa (lo scenografo era Andrea Tocchio, progettista senza troppa fantasia anche delle luci). Il clou si ha nella scena finale, quando attori e danzatori “costituiscono” in ardua configurazione mimica il tavolo del banchetto conclusivo.

In linea con il simbolismo spinto dell’operazione, è quasi integralmente assente dalla rappresentazione qualsiasi tipo di oggetto, si tratti del catalogo celeberrimo di Leporello, di pistole e schioppi presenti in abbondanza nella vicenda e solo fuggevolmente impugnati – in versione bastoncino – dai figuranti, financo dell’altrettanto celebre “pezzo di fagiano” inghiottito di nascosto da Leporello durante la cena fatale. Durante la quale non si vede proprio traccia di “cibo mortale”. Per il resto, lo spettacolo soffre di una definizione attoriale dei personaggi piuttosto generica, affidata solo alla sensibilità dei cantanti (non sempre significativa), troppo spesso posti a dialogare a notevole distanza fra loro. Imperdonabile che il duetto della seduzione di Don Giovanni a Zerlina (“Là ci darem la mano”) avvenga con i due personaggi a una decina di metri uno dall’altra, l’uno sopra a uno dei piedistalli, l’altro a piano di palcoscenico.

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“Don Giovanni”, finale del primo atto. Fondamentali gli strumentisti in scena (Alberto Storti).

Se lo spettacolo lascia più di qualche perplessità, l’esecuzione musicale è sontuosa e affascinante. Interprete mozartiano di gran vaglia, Iván Fischer conduce la sua Budapest Festival Orchestra a un’esecuzione di assoluto livello per la ricchezza e l’equilibrio dei piani dinamici, per la multiforme vivezza del fraseggio, per la pertinenza stilistica semplicemente impeccabile, per la qualità multiforme dei colori. Memorabile, poi, la partecipazione degli strumentisti ai due Finali d’atto, che prevedono esecuzioni in scena: un esempio di come la musica diventi essa stessa personaggio regalando dettagli drammaturgici di straordinaria attrattiva. E basti dire delle citazioni operistiche altrui inserite da Mozart – insieme con l’auto citazione dalle sue Nozze di Figaro – durante il Finale ultimo, squisitamente e virtuosisticamente rese dai fiati e dai corni naturali della compagine ungherese.

Compagnia di canto di alto ma non uniforme livello. Spiccano per intelligenza musicale, ricchezza nella linea di canto e capacità attoriale il Don Giovanni di Andrè Schuen, voce forse un po’ chiara per il ruolo ma pronta a infinite sfumature espressive, e il Leporello di Luca Pisaroni, vocalmente efficacissimo senza concessioni alla comicità caricaturale che troppo spesso caratterizza le interpretazioni di questo personaggio. Comicità invece intessuta di ironia, cinismo e dubbi come si conviene a questo complesso personaggio. Bernard Richter è stato un Don Ottavio di stile appropriato e incisivo specialmente nella drammatica Aria del secondo atto, Krisztian Cser un Commendatore ieratico come si conviene, ma non senza le sfumature necessarie a rendere la parte non solo astrattamente ultraterrena. Masetto era Daniel Noyola, attento e preciso. Sul versante femminile, la migliore riuscita è stata forse quella di Samantha Gaul, chiamata all’ultimo per sostituire alla prima l’indisposta Giulia Semenzato. Prova brillante, la sua, vocalmente in efficace equilibro fra dolcezza lirica e sprezzatura maliziosa. Una Donna Anna in crescendo interpretativo, nella necessità di far risaltare sia la corda drammatica che quella sentimentale, è stata Maria Bengtsson, timbro chiaro ed elegante, sempre controllato sull’acuto come non è stato il caso di Miah Persson, una Donna Elvira intensa ma non di rado poco misurata nella zona alta della tessitura.

Sciolto il ghiaccio dopo l’Aria del catalogo di Leporello, il pubblico che gremiva l’Olimpico ha decretato molti applausi a scena aperta ai protagonisti della rappresentazione. E alla fine, consensi entusiastici per tutti, ma specialmente per Iván Fischer.

In copertina, Don Giovanni (André Schuen) e il Commendatore (Krisztian Cser) nella conclusiva scena infernale (Alberto Storti).

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