L'arte di collezionare il mondo

25 Giugno 2012

Sul pavimento sono disposti in modo caotico una serie incredibile di oggetti: vecchi computer, raccoglitori, pennelli, spine elettriche, barattoli di vernice, libri, insegne, seghe, pialle, timbri, ecc. Guardando meglio si comprende che l’accumulo possiede un ordine, seppur non immediatamente afferrabile. L’artista, Karsten Bott (1960), ha realizzato l’installazione alla Kunsthalle Mainz nel 2011: Uno di ognuno.

Di che opera si tratta? Cosa vuole comunicarci? Bott ha esposto la propria collezione composta di oggetti prodotti in serie come un campionario possibile in orizzontale, sul pavimento, perché non esistono gerarchie.

Che collezionista è Bott? Raccoglie oggetti solo per esporli nei musei e nelle gallerie? La risposta non è semplice. Per prima cosa bisogna capire che tipi sono i collezionisti in generale, non solo quelli che accumulano opere d’arte, ma anche quelli che raccolgono francobolli, automobiline, bottoni, carte di caramelle, bottiglie di liquore.

 

Secondo Elio Grazioli, autore di La collezione come forma d’arte (Johan & Levi, pp. 126), sono tipi strani, appassionati, curiosi, silenziosi, che poi davanti alle loro raccolte divengono loquacissimi; discreti, e quasi invisibili, improvvisamente si trasformano in assolutisti. Soddisfano l’impulso che noi tutti possediamo, in forma forse più lieve, di circondarsi d’oggetti che trasformano lo spazio, facendolo diventare un luogo magico, universo parallelo dove le “cose” parlano.

 

La collezione è “un mondo dentro il mondo” che, secondo Krzysztof Pomian, persegue un solo scopo: offrirsi allo sguardo. Di chi? Del collezionista? Pomian sostiene che gli oggetti raccolti nelle collezioni vivono sospesi tra il visibile e l’invisibile, poiché lo sguardo che li raggiunge non è solo quello del presente, ma anche quello del futuro. Esporre oggetti, in particolare nei musei, significa affidarli allo sguardo delle generazioni future. Ma non c’è solo quest’aspetto visivo. Grazioli ci ricorda che il collezionista è un possessivo, ama il rischio, la competizione, attizza l’antagonismo e la rivalità, tutte cose che acuiscono il suo appetito ed eccitano le sue capacità combattive. Non indietreggia di fronte a nulla.

 

L’autore, che è un critico d’arte, mette in rilievo come oggi collezionare sia un esercizio estetico e la collezione è assimilabile a un tipo di “opera”. Come si arrivati a questo? Com’è accaduto che il collezionista sia diventato un artista, e l’artista abbia cominciato, da parte sua, a esporre collezioni? Qui il discorso si concentra su quel particolare tipo di collezione che espone pittura e scultura e si lega all’istituzione del museo moderno, all’inizio del XX secolo. Prendiamo il caso del MOMA di New York.  Alfred H. Barr, suo primo direttore, l’ha progettato disponendo le opere secondo un vero e proprio percorso che culminava con l’astrattismo. Il collezionismo d’arte esce dalla forma della Wunderkammer, l’accumulo eteroclito di opere d’arte del passato, per divenire un vero e proprio percorso didattico. Nei medesimi anni i collezionisti privati d’opere d’arte cercano qualcosa di preciso, secondo un’idea di sviluppo: da Van Gogh ai Fauve, e da questi al Dadaismo e al Surrealismo, per arrivare all’arte geometrica e astratta, e oltre.

 

La ricerca del nuovo diventa una ossessione nel collezionismo privato e pubblico. Nel contempo il Surrealismo ha spostato l’attenzione verso il fantastico, il meraviglioso, l’inconscio, così che acquisiscono uno statuto artistico anche le opere di bambini, folli e dilettanti. L’idea stessa d’arte s’allarga. Poi negli anni Settanta del XX secolo succede qualcosa di nuovo. Il collezionismo non è più un’attività di chi, non artista, raccoglie opere di artisti: collezionare è fare arte, e gli artisti stessi raccolgono ed espongono proprie strane collezioni presentandole come proprie opere. Così fa Bott, Madelson Vriesendorp, Stefano Arienti, Amedeo Martegani, Georges Adéagbo. E, prima di loro, i più conosciuti Joseph Cornell, Robert Rauschenberg, Cales Oldenburg, Fluxus, e in particolare il belga Marcel Broodthaers, campione dell’arte postmediale, che si trasformò in artista per l’impossibilità economica di essere collezionista. Si è fatto le opere da sé e una delle sue più note s’intitola Ma collection.

 

Com’è potuto accadere questo rovesciamento? Gli artisti si sono accorti tra i primi che collezionare è davvero un modo di tenere insieme le cose; si tratta di una risposta al trionfo della società dello “spettacolo” per cui, di fronte alla riduzione di tutto a immagine, le “cose” acquisiscono di nuovo una loro forza, soprattutto quelle quotidiane, reiterate in immagine dal Pop, o da Andy Warhol. Un nuovo modo di collezionare il mondo che mette, come spiega Grazioli, fuori gioco l’aberrazione consumistica o finanziaria delle tradizionali collezioni. L’arte della collezione, e la collezione come arte, sono ora divenute un modo per risignificare il mondo.

 

 

Per continuare a leggere sul tema della collezione:

Il libro classico sul tema è K. Pomian,Collezionisti, amatori, curiosi, il Saggiatore, insieme alle opere di Adalgisa Lugli come Naturalia et Mirabilia (Mazzotta), Arte e meraviglia  e Wunderkammer, entrambe edite da Allemandi; l’inventiva opera di L. Weschler, Il gabinetto delle meraviglie di Mr.Wilson (Adelphi) e il racconto di B. Chatwin, Utz (Adelphi); su M. Broodthaers si veda R. Krauss, L’arte nell’era postmediale (Postmedia); in inglese l’importante: J. Elsner e R. Cardinal, The Culture of Collecting (Reaktion Books).

 

 

Questo articolo è comparso su “Tuttolibri” de “La Stampa”

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