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Lecce / Paesi e città

20 Giugno 2012

Lecce non è la mia città.

L’ho incontrata la prima volta in un agosto caldissimo di quattro anni fa più o meno.

Siamo state insieme un giorno, di cui mi rimane la polaroid di un vicolo con la luce giallissima, che ricorda il deserto, anche se non l’ho mai visto.

Mi è salita prepotente la voglia di sud e dopo due anni mi ci sono trasferita.

Ho passato qualche mese in cui la mia unica occupazione era uscire per attraversarla, cercarla, cercarmi tra i vicoli, i balconi, le facce. Era maggio, che continuo a credere sia il periodo migliore per vederla passare davanti agli occhi una città come questa.

 

Porta Napoli sotto la luce di maggio è una divinità di pietra. Una delle tre porte di entrata alla città.

Imponente, gialla, tutta d’un pezzo, sembra venga direttamente da Oriente, accanto c’è una cupola di chiesa mosaicata e in certe sere la luna a sdraio ci si appoggia sopra.

Una porta è una soglia ed è bello che una città ne conservi il rituale. Per un attimo passando sotto si è in un tempo sospeso, non si è fuori, ma non si è neanche nel pieno di bar, persone, balconi, pietre annerite dall’umidità.

Nei dintorni di Porta Napoli ci sono i miei due bar preferiti, uno dentro e l’altro fuori, due pendici di socialità più scostumate, senza la polo rosa e le frasi finte.

 

Credo che il rapporto luce e ombra sia il cuore vivo e simbolico di Lecce.

Qua la luce è onnivora, si mangia tutto, attraversa la pietra, d’estate il cuore della città è caldo e quando ne attraversi una porta venendo da fuori senti la differenza di temperatura. Dentro le pietre respirano e rilasciano tutto il calore del giorno.

Nel suo rapporto con le ombre si gioca tutto.

 

 

Lecce è una donna che non esce mai senza trucco, che procura di nascondere sotto il fondotinta ogni accenno di ruga o di imperfezione.

Si perde così tutta la sensualità carnosa della scogliera tra Porto Badisco e Santa Cesarea, dimentica ogni amplesso di tronco aggrovigliato, si fa frigida Lecce al cospetto di quello che ha attorno, come se fosse superiore, un’entità mentale.

Le ombre del piacere e della meraviglia le trovi solo se sollevi la testa e ti perdi nei riccioli barocchi delle chiese, nelle facce demoniache e angeliche della pietra scolpita, oppure se ti inoltri nelle strade non imbellettate.

 

Una di queste è Via delle Vecchie Beccherie, appena entrati da Porta San Biagio, sulla sinistra.

Una stradina puzzolente che si accende di notte quando passi e parla spesso lingue “altre”, in alto un palazzo arabo s’affaccia oltre il muro. In certi giorni di sole buono ci puoi vedere qualche indiano che gioca di fronte al convento con i racchettoni o nelle notti di caldo ventoso una coppia di ragazzi che si stuzzica appoggiata allo scalino.

 

La strada è una delle entrate alle Giravolte, stando qua e chiedendo ho capito che ognuno ha il suo particolare sentiero per arrivarci dentro. Le Giravolte sono il cuore vecchio, sdrucito, selvaggio, non in posa della città. Sono il bosco in cui perdersi. Si deve correre il rischio di addentrarsi lì dove un balcone, un lampione o un batik steso catturano l’attenzione sapendo che probabilmente non si arriverà da nessuna parte. Trans, prostitute, albanesi, immigrati arabi, retate della polizia, La Mara, forme di desideri non conformi che sopravvivono a volte solo nell’immaginario.

 

Ciascuno racconta la sua versione delle Giravolte, con stupore, ammirazione o disagio, come se in quel labirinto di pietra ognuno potesse ritrovarsi, ritrovare i propri fantasmi, le proprie paure, o la voglia di godere del calcinaccio, della crepa più vistosa, delle vite non perfette. Le Giravolte non hanno un confine preciso, ognuno ne vede il cuore lì dove il suo batte, non importa se di paura o meraviglia.

 

Tra questi vicoli difficilmente incappi in turisti, ma facilmente ti viene davanti un’immagine, una scena, una donna, una bottega di rigattiere che ti riportano a luoghi lontani o a tempi passati. In questo pezzo di città ci si può innamorare dei nomi delle piazze e delle vie: Vico del sole, Piazzetta Arte della Stampa e magari trovarsi di fronte alla magnolia enorme con tronco di Venere dietro al Conservatorio di Sant’Anna. Qui ognuno srotola il suo filo, banale e poetico, ma quasi mai ne esce senza una storia anche piccola da raccontare. Peccato che in tutta quella zona non ci siano panchine, al massimo usci di case. Lecce in generale è avara di panchine, le trovi nei luoghi canonici: Piazza Sant’Oronzo o la Villa Comunale o se ti avventuri in periferia. Spesso mi è capitato di trovare slarghi in cui immaginarne alcune, salvo poi non trovarle.

Attitudine alla sosta non concessa in una città che, invece, avrebbe bisogno di stoppare la corsa e fermarsi a guardare, a pensare, a sognare.

 

Ai bordi delle Giravolte c’è la movida della città, che di notte e soprattutto d’estate sembra non voler finire mai.

In questo suo stare notturno Lecce dà spesso il peggio di sé. La tendenza dei locali è quella di far sembrare che non siamo nella punta a sud est dello stivale, ma piuttosto nel centro di Milano.

Spuntano come funghi lounge bar con le pareti vintage e il lampadario fashion. Si servono per aperitivo prosciutto di Parma e formaggio della Valtellina, dimenticando che attorno a Lecce, e anche dentro, c’è la terra.

 

 

Da vera signora borghese, la città ha dimenticato da dove viene, in cosa è immersa e non perde occasione per volerlo dimostrare.

Di nuovo insegue modi e parvenze che la allontanano dalle pietre, dalla luce, dagli ulivi, dal mare che sta a solo quindici chilometri.

A Lecce non c’è un vero mercato. Mauro Marino, un intellettuale vero con le mani nel fango e lo sguardo all’orizzonte, scrisse un po’ di tempo fa un pezzo bellissimo sul mercato di prima, quello grande, pieno di odori, accanto al castello Carlo V, dove tutti i giorni si poteva fare la spesa, dove il paesaggio intorno alla città si faceva cibo da portare in tavola.

 

Ora il mercato grosso è fuori dal centro ed è pieno di vestiti e scarpe, la signora ha scacciato la servitù ai bordi. Il contadino che si arricchisce fa di tutto per dimenticarsi che è stato contadino. Lecce così si tradisce: allontana odori e sapori della terra in cui affonda le viscere e senza la quale non esisterebbe neanche il barocco dei turisti e la movida notturna.

Che se il vino e l’olio non fossero così buoni e il pane, in ogni sua forma, divino, che se non bastasse d’estate una frisa “sponzata” con qualche pomodorino, olio e una foglia di basilico per nutrirsi, che se gli alberi di gelso attorno non fossero così generosi, Lecce non ci sarebbe e con lei neanche il tanto mitico Salento.

 

Anche la cultura soffre della stessa sindrome di allontanamento dalla terra, che non è un allontanamento dalle origini o dalla tradizione, ma piuttosto un’attitudine a non appoggiare le palme dei piedi al suolo. L’offerta culturale è spesso inutilmente sfarzosa, grandi eventi senza passione e coraggio, palchi grandi, enormi cartelloni pubblicitari.

Credo che in questo Lecce avrebbe bisogno di farsi nuda: togliersi i vestiti barocchi e indossare una misura, un metro più piccolo, ma più vero, nel mostrarsi e nel mostrare.

 

Occorre un’attitudine alle crepe e ai pertugi per trovare l’anima carnosa e in ombra di questa città.

Se si scava si trovano fessure da cui entra un modo diverso di fare, ci sono luoghi, persone, poeti, musicisti che tentano l’ancoraggio alla fonte: nelle distese “vuote” di cielo, ulivi e terra rossa si schiude la possibilità di un racconto nuovo, nel mare che ha portato con sé lingue altre, che ha contaminato.

Se ci si scansa da ogni strada a portata di macchina o di flusso allora ci si può perdere nelle interiora delle case a piano terra difese solo da tende leggere, in una porta metallica che si apre ed esce un uomo africano statuario che si lascia alle spalle un cortile fiorato, nei portoni apparentemente disabitati, da cui esce una donna grassa con un vestito giallo, nelle statue pagane che sorreggono archi mangiati dal vento, fatte di questa pietra gialla che altro non è se non polvere.

 

Ecco se Lecce, la città si lasciasse irretire dal paesaggio intorno, se lo portasse addosso, come un vestito comodo e spazioso, se si ricordasse della materia sgretolata con cui è costruita scenderebbe dal piedistallo, sarebbe più vera, si potrebbe attraversarla con più meraviglia e abitarla con più ardore.

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