Marco Magini. Come fossi solo

16 Maggio 2014

Dirk, Romeo, Dražen: un casco blu olandese, un giudice del Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia, un soldato serbo-croato. Sono tre uomini che non si conoscono, eppure si troveranno uniti per sempre da una stessa storia che ha nome Srebrenica. Dirk non vorrebbe più svegliarsi, riesce a percepirsi quando si taglia ed è lui stesso che sanguina, Dražen si accusa per non impazzire, il giudice González lascia la toga per poter continuare a convivere con la sua coscienza. Tre uomini, tre punti di vista in soggettiva portano il lettore nella testa di Dražen che uccide, di Dirk che osserva impotente e di Ramon che, dopo, dovrà giudicare – il massacro lo raccontano loro due, il soldato arruolato nelle file dell'esercito della Repubblica serba e il casco blu olandese. L'orrore che non pare essere umanamente possibile diventa realtà sul campo – dove non c'è alcuna istanza superiore a cui chiedere salvezza.


Marco Magini scrive Come fossi solo (Giunti, finalista al Premio Strega 2014) per il suo bisogno di raccontare una storia che ha scoperto attraverso un’amica. Ma il suo bisogno di comunicare è il loro, come se solamente una confessione in pubblico riuscisse a lenire gli incubi, a permettere a ciascuno il ritorno nel consesso degli umani. Magini lavora a Zurigo dove si occupa di cambiamento climatico ed economia sostenibile. Nato ad Arezzo nel 1985, laureato alla London School of Economics, ha girato paesi culturalmente diversi – Canada e Belgio, Stati Uniti, Turchia e India –, e con questo testo, difficile definirlo un romanzo, è stato finalista al premio Calvino 2013. Come Paolo Giordano in Il corpo umano (Mondadori), storia di un plotone di giovani spediti in Afghanistan, anche Magini riesce a descrivere con precisione le caratteristiche delle “nuove guerre”, assurde e sregolate, prive di obiettivi raggiungibili, che sfuggono ogni volta alle analisi di contesto e che producono un rapporto perverso tra militari e civili.

 

Marco Magini


L’eccidio di Srebrenica, un massacro tra i più documentati della storia del Novecento, definito genocidio dalla comunità internazionale, sintetizza tutte le componenti di un conflitto dove l’azione bellica ha avuto come obiettivo la “pulizia etnica” che ha reso la popolazione bottino e ostaggio. È il linciaggio post festum quando, nel luglio 1995, le armi si sono ormai tacitate, e la carezza di Ratko Mladić sulla testina bionda del ragazzino di Srebrenica dà il via alla mattanza. È quel “di più” che diventa essenziale. È l’orrore “inutile” davanti al quale ci si ritrae, qualcosa di non spiegabile, non immaginabile, di non razionalizzabile.


Attraverso tre punti di vista individuali, che sono anche mondi mentali, e una scrittura incalzante, Magini avvicina il lettore a una storia collettiva che continua a produrre incubi traumatici, dubbi giuridici ed etici, interrogativi politici e dilemmi antropologici, ma qui diventa anche paradigma tragico e universale.
“Sono uguali, sono tutti uguali, è una guerra tra poveri. Liberissimi, dico io, ma perché abbiamo deciso di metterci in mezzo?”, si chiede Dirk. Vorrebbe sentirsi in colpa per la sua dissociazione emotiva da quanto accade a loro, abbarbicati alla rete dei caschi blu, che separa i civilizzati dai barbari. Lui fa la lista di chi potrà partire con gli internazionali, è un burocrate che esegue gli ordini, così ligio al dovere che non gli viene in mente di aggiungere altri, persone che potrebbe salvare se non ci fosse la sottomissione a un legge astratta che vieta ai caschi blu di intervenire, di proteggere i civili a loro affidati nella zona di sicurezza delle Nazioni Unite. Così non sente le urla delle donne violentate, non vede i bambini crivellati di colpi perché il loro pianto innervosisce. I loro diventano noi solo nell'illusione di un attimo, quando, gli occhi rivolti al cielo, paiono avvistare un aereo Nato che potrebbe rappresentare l'uscita da quell'inferno.


Sotto il naso dei caschi blu partono pullman carichi di uomini pronti per la mattanza, i militari di Mladić regolano il traffico come se si trattasse di un servizio di linea. Sono viaggi brevi, incontro alla morte – più di ottomila maschi uccisi in tre giorni, il più giovane aveva 13 anni, il più vecchio 84.


Dražen è Dražen Erdemović, nato a Tuzla nel 1971, di madre croata e padre serbo. Dopo la disgregazione jugoslava, braccato dalla Grande storia, è costretto a indossare la divisa, perché non ha un altro lavoro che gli permetta di mantenere moglie e figlia. “Gli eventi avevano preso la mia generazione di sorpresa: i primi segnali ci erano sembrati poco più che schermaglie, da liquidare come la voce grossa dei soliti politici preoccupati di tenersi la poltrona. (...) Arruolarsi in un esercito o in un altro sembrava poco più dell'adesione di un tifoso a una squadra piuttosto che a un'altra”.


Ma durante le azioni della sua unità, il Decimo battaglione sabotaggio,
Dražen non riesce a ubbidire senza pensare. A partecipare dell'ebbrezza dei carnefici, a trasformare la paura in odio, a godere con donne costrette al sesso, a partecipare a violenze sempre più sadiche che avranno bisogno di quantità sempre più abbondanti di alcol.


Quando si trova davanti gli uomini bendati scesi dal pullman arrivato da Srebrenica, Dražen deve scegliere tra la loro vita e la sua, tra uccidere e morire non c'è una terza via. “Oggi ho ucciso almeno settanta persone. Che differenza c'è tra aver ucciso settanta persone e l'intera umanità?”


Dražen Erdemović sarà l'unico, tra quanti in quei giorni hanno continuato a sparare fino a stancarsi, a dichiararsi colpevole. Sarà prima condannato a dieci anni, poi ridotti a cinque perché gli verrà riconosciuto di aver agito in uno stato di pressione estrema.


“Comunità internazionale? Non c'era voluto molto perché Romeo González capisse che quando qualcosa dovrebbe interessare tutti finisce per non interessare a nessuno.” Il giudice analizza la dinamica del collegio, in dubbio tra iter consueto e iter eccezionale, cerca di capire come mai anche lui, seppure in disaccordo, contribuisce alla sentenza di condanna, ma poi scrive una lettera ai colleghi e rassegna le dimissioni.
Nemmeno il tribunale può rendere giustizia dei crimini sui quali deve esprimersi. Per Dirk, Romeo, Dražen c'è solo la possibilità di andare controcorrente per sentirsi di nuovo umani. 

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