Mario Desiati: memoria e postmemoria

28 Ottobre 2025

Nell’opera From Here to Eternity di Caitlin Doughty è descritta la cerimonia indonesiana Ma’nene durante la quale si dissotterrano i corpi dei familiari defunti. Il senso di stabilire un contatto con i morti – come nella pratica Ma’nene – o con i loro spiriti – come avviene in altri riti e feste, tra cui il carnevale, secondo la lettura che ne dà Marie-Louise von Franz nel libro L’asino d’oro – è quello di mantenere un canale di comunicazione col passato per dargli voce e una giusta collocazione. Lo stesso fa la memoria quando restituisce vita ai ricordi e a quei vissuti che per un motivo o un altro non si sono uniti al presente. Insieme all’immaginazione, la memoria costruisce e ricostruisce ciò che è rimasto oscuro o indefinito. Di questa azione, faticosa e indispensabile, si fa carico Marco Petrovici, protagonista di Malbianco – il nuovo romanzo di Mario Desiati uscito per Einaudi. Marco Petrovici raccoglie dati, testimonianze, interroga, chiede, per trovare tasselli mancanti della sua storia familiare e per curare un presente discordante. Compie un viaggio attraverso i luoghi e le vicende intime e storiche che hanno segnato generazioni di Petrovici, un viaggio che mette a nudo zone d’ombra, silenzi, traumi. Nelle pagine di Malbianco, presente e passato, personale e collettivo s’intersecano perché ogni destino individuale si muove entro un contesto storico e geografico popolato di persone e perché questo è l’incedere della memoria. L’incipit del romanzo di Desiati sembra custodire, al suo interno, i versi di Alejandra Pizarnik: “Cercare. Non è un verbo, ma una vertigine.”

Marco Petrovici sviene, perde i sensi e cade a terra. È il suo corpo a segnalargli per primo che qualcosa non va in lui, nella sua vita, e lo fa nel modo in cui un corpo può fornire avvisaglie: ammalandosi, manifestando sintomi. La forza di un personaggio come Marco risiede nella sua capacità di ascoltare questi sintomi e trasformarli in indizi. La ricerca familiare che sceglie di intraprendere nasce dentro questo ascolto. I colori della vertigine sono il bianco e il nero. Bianco è anche il “velo sotto cui spariscono gli alberi” – scrive Desiati –, il parassita che “assomiglia a una nebbia che scende sulle foglie, sui germogli e sui frutti” e che prende il nome, appunto, di malbianco. Marco squarcia la coltre di malbianco che avvolge da generazioni i non detti e i traumi dei Petrovici. Si insinua, pagina dopo pagina, nello spazio di latenza della sua famiglia. Le sue indagini, i suoi viaggi, i suoi studi fanno parte di ciò che Mario Panico definisce “lavoro postmemoriale” nel saggio Rileggere Marianne Hirsch. Postmemoria e riscrittura del passato traumatico familiare (il Mulino): “Nel lavoro postmemoriale, il soggetto crea una trama nuova della memoria attraverso la combinazione e la ripetizione, rendendo presente ciò che è rimasto silenziato nelle atmosfere di famiglia, condizionate dal trauma vissuto dalle generazioni precedenti.”

Marco Petrovici ricostruisce, riposiziona, ripara. Torna sui luoghi del trauma. Raccoglie le informazioni che sono state mascherate dalla segretezza, dalla vergogna o dalla paura. Trasforma l’eredità in qualcosa su cui e con cui agire, in una chiave di accesso a nuove letture del suo passato familiare restituendo così a quest’ultimo un nuovo futuro. Attraversa quattro generazioni di donne e uomini – quattro, come le parti in cui è diviso il romanzo. Mette a fuoco immagini ridotte a bagliori, frasi spezzate, come se la cura fosse ricucire un canto – e in Malbianco è letteralmente anche questo.

Marco sa cosa significa guardare un lupo negli occhi. Gli è capitato da bambino mentre si stava riparando dalla pioggia in una grava, con sua zia Ada. Guardare un lupo negli occhi non è poi così diverso da seguire la memoria nel suo andamento discensionale, da esplorare gli inferi, e forse questa è l’unica via per non rinunciare alla comprensione di sé, del proprio tempo e del tempo a venire.

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Mario Desiati.

Il protagonista di Malbianco sceglie di ascoltare il proprio corpo, di pulire le ferite del passato di cui serba tracce – Mary Oliver, nella poesia Tecumseh, paragona queste ferite a rifiuti impigliati tra i rami, a giornali e sacchetti di plastica dopo le piogge. Liberando i rami dai rifiuti, Marco libera sé stesso. L’albero simboleggia l’essere umano. In Spatriati, l’opera precedente di Mario Desiati, vincitrice del Premio Strega 2022, è narrata una leggenda nordica secondo la quale, la donna che diede origine all’umanità, era un albero, un olmo. La nostra vita si sviluppa in parallelo a quella degli alberi: ancora oggi, c’è chi pianta un albero quando nasce un bambino. Malbianco raccoglie questa visione che unisce mondo umano e vegetale, ampliandone il significato. Marco Petrovici cura sé stesso curando il suo albero genealogico. Persone e alberi sono soggetti agli stessi mali. Entrambi trattengono memorie del passato e ne riportano i segni sulla pelle, sulla corteccia. Marco fa ritorno al bosco della sua infanzia – ai boschi di Taranto – per guardare questi segni e decifrarli.

La storica Esther López Barceló, autrice del saggio L’arte di evocare la memoria. Anatomia di una ferita aperta, inedito in Italia, racconta il processo collettivo che ha portato una parte della Spagna a cercare le fosse comuni dove tuttora si trovano corpi senza nome delle persone assassinate dal regime franchista. Identificarli, costruire musei con i loro oggetti e indumenti, equivale per l’autrice a operare una riparazione simbolica e comunitaria. Nel suo racconto, la vegetazione collabora a questo processo crescendo più rigogliosa in prossimità di fosse comuni, aiuta a ritrovare le vittime della dittatura rivelandone l’ubicazione. Di nuovo, le piante veicolano messaggi. Il saggio di Esther López Barceló, come quello di Mario Panico e come il romanzo di Mario Desiati, si occupa di postmemoria tracciando importanti e inevitabili parallelismi tra memoria individuale e collettiva.

Il protagonista di Malbianco comincia il suo lavoro postmemoriale una volta tornato nei luoghi della sua infanzia e della sua adolescenza. Torna in Puglia da suo padre Use e sua madre Tonia. Si ferma, perché sa che fermarsi non è che un modo di procedere, a volte l’unico possibile. Ed è lì, nella campagna tarantina, che Marco Petrovici dà inizio alla sua personalissima Ma’nene – la cerimonia menzionata al principio di questa riflessione. È lì che convoca i suoi fantasmi per ascoltare cos’hanno da dirgli e chiudere con loro discorsi interrotti, lasciati a metà. Facendo i conti col passato, permette ai propri morti di essere trasportati dalle rondini nell’aldilà – come vuole il racconto di Demetrio, nonno di Marco, che troviamo nelle prime pagine del romanzo. Rondini e asini si affacciano a più riprese in Malbianco, mettendo in comunicazione aria e terra. Secondo alcune tradizioni e correnti filosofiche, tra cui il cabalismo, l’asino è associato al sapere. Nella foto di copertina del nuovo libro di Mario Desiati, l’animale dalle lunghe orecchie si allontana da un albero, appresso a un uomo, in un paesaggio innevato. Chissà che l’asino, col suo sapere, non sia un antidoto per il malbianco, per il parassita che copre le piante e nasconde e mistifica porzioni di passato alle persone. Se così fosse, la sua funzione sarebbe complementare a quella delle rondini e tutti ci augureremmo di camminare con un asino al seguito e gli occhi al cielo. In attesa delle rondini.

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