Oltre la coreografia / Alessandro Sciarroni: il riso il corpo

7 Maggio 2019

Visto all’indomani dell’incendio che ha devastato la cattedrale di Notre Dame, in scena all’interno del Festival Séquence Danse presso il Centquatre di Parigi dove il coreografo Alessandro Sciarroni è artista associato, Augusto si apre a una visione inevitabilmente mediata dall’irrompere di un’attualità portatrice di un senso di rottura. Un senso di rottura e, insieme, una necessità di riconfigurazione e ricostruzione che apparentemente sta assediando, allo stesso tempo, anche la danza. Questo parallelismo servirà qui come mappa di orientamento dentro la visione di Augusto, lo spettacolo che, il prossimo 21 giugno, verrà presentato alla XIII edizione del Festival Internazionale di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia in occasione della consegna del Leone d’Oro alla carriera assegnato quest’anno proprio ad Alessandro Sciarroni. Le sue produzioni, una quindicina di opere che sfidano le categorie delle arti dal vivo, ridisegnano i confini della danza proponendo strade inusuali, talvolta inedite, arricchendo la nozione di coreografia e aggiornandola al suo “estremo contemporaneo”, un corpus eterogeneo e intensamente inclusivo.

 

Per chi scrive, dunque, lo spettacolo è stato l’occasione di un tempo di sutura, in cui lo sguardo ferito dalla realtà delle ore precedenti reclamava la possibilità di costruire un legame col mondo a partire da qualcosa di palpitante, una connessione che ristabilisse in qualche modo una logica viva dello sguardo e del corpo artistico, privato e sociale. Per orientarmi nella complessità di questo stato d’animo e dello spettacolo, mi soccorrono due nozioni di Guillemette Bollens, che descrive il “corpo articolare” come un corpo vitale poiché regolato dal sistema connettivo delle giunture e dal gioco di relazioni che esiste tra gli apparati muscolari, tendinei, ossei, legamentosi… un corpo che la studiosa dell’Università di Ginevra contrappone al “corpo-involucro” (corps-enveloppe), contenuto nella pelle che, trattenendo di fatto gli organi vitali, permette di stabilire rapporti tra l’interno e l’esterno del corpo stesso attraverso i suoi orifizi. 

 

Alessandro Sciarroni, “Augusto”, ph. Alice Brazzit.


Raramente è così viva una coscienza altrettanto forte dell’inizio di un tempo post-traumatico in cui il passaggio attraverso la fase del lutto è condizionato dalla natura stessa dell’avvenimento dirompente. Non a caso, si è parlato del 15 aprile 2019 come di un 11 settembre parigino. Forse, qui a Parigi è “solamente” bruciata una cattedrale, un’altra tra le tante che il tempo, le disgrazie e le guerre – per esempio in Medioriente – non hanno risparmiato, ma di certo ad aver preso fuoco e a necessitare di essere ripensata per l’umanità del XXI secolo – come molti hanno scritto – è una cattedrale dall’alto significato collettivo situata nel cuore d’Europa e nel cui abbraccio confluiscono emblemi dell’umanità del nostro continente quali l’architettura, le arti, la religione intesa soprattutto come spazio, anche fisico, dedicato alla dimensione spirituale. Allo stesso modo, la danza, allontanandosi gradualmente dalla canonica ritualità del teatro, sfidata, disfatta e decostruita da diversi decenni di cambiamenti ormai, sta cercando ancora nuove strutture e configurazioni, arricchendosi attraverso il lavoro e lo sguardo di artisti, spettatori, curatori e direttori artistici che stanno aprendo la strada a nuove forme della ricerca coreografica.

 

Mentre attendiamo l’inizio dello spettacolo, ancora è forte l’eco dell’ondata emotiva collettiva. Nella penombra delle luci di sala, tra i pensieri preme una possibilità di continuità e di assonanza tra quanto accaduto nel centro di Parigi e lo stato delle cose nell’ambito della danza. A essere in gioco è, in entrambi, una questione di discontinuità e di interpretazione, che si vorrebbe condivisa, di fronte a un cambiamento occorso tramite un trauma, l’incendio, o tramite un insieme non numerabile di slittamenti di forma di cui la comunità si trova a prendere coscienza. In entrambi i casi, si apre una fase dialettica tra l’atto di riconoscere l’oggetto in trasformazione e la quantità di libertà che la consapevolezza guadagnata è in grado di accordare alle pratiche di vita della comunità e alle ricerche individuali. Nel caso della danza, che nelle forme della coreografia esprime la propria evoluzione storica, l’elasticità del limite è costantemente sotto tensione, e inevitabilmente va incontro a forme di resistenza. 

 

Alessandro Sciarroni, “Augusto”, ph. Alice Brazzit.


L’osservazione si concentra sulla presenza di un’emotività collettiva. Le lacrime delle persone appostate lungo la Senna si sovrappongono alle risate sfrenate dei danzatori in scena. Sciarroni, infatti, ha scelto proprio questa manifestazione umana, la risata, come oggetto d’indagine dello spettacolo. L’effetto, in entrambi i casi, è di osservare come si possa ridurre a un unico tipo di esternazione – a fronte di un trauma, attuale o cronico che sia – tutta la complessità dell’espressione umana, la danza interiore e quella esteriore. Che sia una risata o un pianto inarrestabile, la dimensione comunitaria di un’emozione assume la capacità di destrutturare i corpi, avvia – nella scintilla inafferrabile dell’inizio di un tempo nuovo – la ricerca di un modo di stare il mondo, tanto per le cattedrali del XXI secolo quanto per i corpi danzanti.

All’inizio dello spettacolo, sulla scena silenziosa, bianchissima e vuota, i dieci danzatori iniziano a camminare, aggiungendosi uno alla volta nella traiettoria circolare. Il ritmo dei passi all’unisono scompone in segmenti una circonferenza che dopo alcuni minuti inizia a piegarsi, spostarsi, ridursi e ampliarsi fino a farsi spirale e poi, infine, linea. La velocità degli spostamenti nello spazio ora accelera, ora rallenta, seguendo un andamento naturale, che non distoglie lo spettatore da un’attesa coreografica e, anzi, lo stimola a cercare nell’apparente semplicità dei movimenti corali un disegno cui far aderire lo sguardo. Un gioco di contrappesi tra i performer allacciati per le mani richiama scenari d’infanzia e leggerezza, tra loro si va intessendo una complicità che, risuonando con quella proveniente dallo sguardo del pubblico, appare immediatamente come delicata, umanamente fragile: un’arcadia che tutti osserviamo pur sapendo che, malgrado la sua bellezza, sarà transitoria. I danzatori creano una sorta di stato di grazia comunitario ed emotivo, regna una sintonia profonda: lo scorgiamo nei sorrisi accennati, nei corpi dolcemente cadenzati dalle corse, dal concedersi del peso corporeo di uno nelle mani dell’altro, dagli sguardi docili che si continuano ad appoggiare intorno. Una comunità lieve, sospesa nel sorriso, nella quasi totale assenza dei suoni. 

 

Alessandro Sciarroni, “Augusto”, ph. Alice Brazzit.


Lo spazio liscio della superficie della scena funziona allora come uno stato d’animo che nasce da una forma particolare di quiete, una pagina bianca in cui la coreografia di Augusto inizia lentamente a disvelare la propria epifania; quel riso che via via s’insinua nei performer fino a farli esplodere fa di quei corpi danzanti l’espressione, quasi pura, di un desiderio chimerico di articolare di più, di poter scrivere dei movimenti nello spazio, di potersi connettere muscolo-scheletricamente, e quindi di danzare, mirando a uscire dalla condizione passiva della risata, da quel corpo che è contenimento di visceri ed espressione di emotività. Attorno, lo spazio resta dominabile, solidale, percorribile, non oppone resistenza. La risata convulsa esprime, condensandola in questi corpi-involucro, tutta la forza, la pervasività e la contagiosità di un’emozione collettiva comprensiva, nel suo dispiegarsi, della possibilità di essere rifiutata, mostrandosi anche come elemento manipolabile da parte di un potere occulto, che in Augusto è forse rintracciabile nella musica, segnata da crolli, respiri, ritmi intrusivi, incalzanti. Sulla scena dominata dalla risata resa virtuosismo, pesa il rischio del suo opposto, come quel pianto che a un certo punto proprio al riso sottilmente si affianca. 

Nella comunità di corpi danzanti che vediamo in scena, la risata è ormai l’unica forma di manifestazione dell’esserci. Il pianto, o qualsiasi altra esternazione vocale, come il canto barocco di Pere Jou tratto da L’incoronazione di Poppea di Monteverdi, è il segno raggelante della possibilità della discontinuità, della catastrofe. Per quanto angelica, quella voce che articola melodia è una sorta di minaccia eccezionale. L’eccezione, infatti, è il vulnus attorno al quale la comunità in scena ogni volta si scompone e si ricompone, è il vero motore dello spettacolo che qui si rivela, attivando l’espressione e il bisogno di conferma del proprio oggetto “sacro”, quel sacro che – come ha spiegato ai microfoni di France Culture il sociologo Guillaume Erner la mattina dopo l’incendio di Notre Dame – si manifesta sempre a seguito del sacrilegio.

 

Alessandro Sciarroni, “Augusto”, ph. Alice Brazzit.


Affondando ulteriormente nella visione di Augusto, sempre più lontani dal rischio di un mero esercizio di gelotologia (la disciplina che studia la risata), i corpi dei danzatori presi dal riso paiono maneggiare anche la sponda dell’adesione e il rischio della non appartenenza. Se è vero che per ogni regola esiste un’eccezione, per ogni forma di eccezione imprevista esiste anche una punizione. Così uno schiaffo, scena che si staglia al centro della scena, è l’esito per ben due volte di un affronto sacrilego grave: il disarmo. In quella fessura che disegna uno sviluppo figurativo del gesto si annida però una speranza, che rinnova il tendere comune verso una danza, che accade e si organizza, frontale al pubblico e dall’aria pop; tuttavia, la risata, espressione di un corpo confinato in un disegno coreografico non articolare, continua a sabotare questo incedere di movimenti in sequenza. Alla comunità sembra restare solo un segno, per comunicare la propria identità. Che questa manifestazione estrema dell’animo sia riso, pianto oppure, come accade, un grido, poco importa. 

Augusto, titolo che evoca il clown anarchico, ribelle, è l’antitesi del clown bianco dal quale egli si lascia governare, ma le cui indicazioni è sempre pronto a sovvertire. Così, dopo l’incendio della risata che ha contagiato la platea, disossato la danza e spogliato i corpi della propria articolazione, la comunità di Augusto si inchina di fronte al pubblico. L’inchino finale di tutti i danzatori – Massimiliano Balduzzi, Gianmaria Borzillo, Marta Ciappina, Jordan Deschamps, Pere Jou, Benjamin Kahn, Leon Maric, Francesco Marilungo, Cian Mc Conn, Roberta Racis e Matteo Ramponi – è oggi più che mai rivolto a un mondo di simboli, chimere, miti e magie senza i quali lo sguardo sull’esistenza si svuota, senza il quale – allo stesso modo – anche lo sguardo sulla danza si svuota. Così, anche nell’emozione dello spettatore, al sacrilegio fa seguito una nuova possibilità di sacro, è la danza che Augusto ha il coraggio di osservare da un punto che, per quanto possa essere distante, non si libera mai dalle spire elastiche della nozione di coreografia.

 

In un certo tempo, si potrebbe sintetizzare, le religioni hanno sostituito la magia così come le coreografie hanno sostituito le danze. Che cosa accade se non è più la coreografia così come l’abbiamo conosciuta e studiata a organizzare lo spazio della danza? Non verrà meno la danza, non verrà meno neppure la coreografia, ma dobbiamo fare appello a tutte le nostre forze razionali per non cedere, per non dare all’incendio responsabile della supposta sparizione della coreografia, un significato direttamente simbolico. È ancestrale nella nostra memoria l’idea che la “sparizione” di qualcosa non sia mai innocente, però, sul cammino dell’uomo c’è il danzare, l’evolversi, il cambiare. La coreografia di Augusto sembra suggerire questa radicale eppure accessibile estensione del proprio dominio. Il Leone d’Oro a Alessandro Sciarroni non è dunque segno di una deriva distruttiva della nozione di coreografia. È certamente il passo rischioso e complesso che attribuisce alla coreografia nuovi orizzonti di pratica e di pensiero. Che questo movimento venga dal nostro Paese, dove la danza ha così poco riconoscimento pubblico, è un premio che riceviamo tutti e che tutti insieme, se vogliamo, possiamo festeggiare. 

 

Nell’ultima fotografia, di Matteo Carratoni, Alessandro Sciarroni prova per il Balletto di Roma

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