Romaeuropa Festival: archivio e creazione

7 Ottobre 2022

Con la conclusione della stagione estiva si aprono, consuete, le danze di Romaeuropa Festival giunto quest’anno alla sua 37esima edizione. Grazie a un programma multidisciplinare diffuso, che anima una decina di teatri e spazi culturali della capitale, e grazie alla concomitanza di altri festival nello stesso arco di tempo tra cui Short Theatre e Interazioni Festival, Roma vive ogni autunno la ricchezza di una vera e propria stagione culturale e artistica internazionale. 

Sul fronte della danza internazionale in programma a Romaeuropa, grazie alla direzione artistica di Fabrizio Grifasi si sono accese le luci sulle proposte di alcune delle compagnie che da decenni, e ancora oggi, scrivono la storia della coreografia contemporanea. Tra questi vi sono – tra gli altri – maestri come Emio Greco e Pieter C. Scholten, cui è stato affidato lo spettacolo di apertura del festival, Anne Teresa de Keersmaeker e Sasha Waltz, ma anche nuove leve come Benjamin Abel Meirhaeghe e Jan Martens.  Questa selezione di artisti, che traccia una prospettiva di visione dentro la programmazione del festival stesso, si compone di produzioni provenienti da orizzonti temporali ed estetici differenti. Tuttavia, tutte le proposte qui prese in considerazione sono accomunate da un’attenzione particolare rivolta al passato come oggetto di studio, ricerca e riflessione che si attua con sguardo totalmente contemporaneo.

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We Want It All, di Emio Greco e Pieter C. Scholten, foto M. Alzoabi.

Si legge, negli spettacoli di questi artisti, una tensione verso quel potenziale multiforme del repertorio che spesso è oggetto di riattualizzazioni, omaggi, riscritture e, talvolta, tradimenti (ma non in questo caso).  Alcune delle coreografie, come lo spettacolo inaugurale del festival We Want It All di Emio Greco e Pieter C. Scholten, aprono un dialogo diretto con l’archivio creando un’inedita serata di danza a partire da undici finali di altrettanti spettacoli prodotti tra il 1995 e il 2020.

Nonostante le radici ben piantate nel repertorio-archivio della compagnia ICK Dans Amsterdam, lo spettacolo disegna un nuovo legame col presente mettendo a disposizione con sincerità la propria memoria. La stessa presenza di Emio Greco in scena è l’incarnarsi di un angelo della storia che è testimone, guida e maestro. La danza in scena, che evoca uno dopo l’altro i finali di spettacoli memorabili del repertorio di Emio Greco, si ossigena attraverso la presenza dei giovani danzatori dell’ensemble junior ICK-Next, che rifornisce di freschezza i movimenti e garantisce la continuità del flusso tra le diverse scene. 

Che cosa significa per uno spettacolo come Drumming, creato nel 1998 da Anne Teresa de Keersmaeker, tornare in scena nel 2022? Si nota, in questo caso, la tensione di alcune opere verso la propria canonizzazione, come se la continuità delle rappresentazioni nel corso del tempo avesse, tacitamente, il fine ultimo di conferire a un determinato titolo una sacralità derivante non solo dall’opera stessa, ma compiuta dalla ripetizione che, come una conferma, rende eterno il tempo di un determinato evento. Il fenomeno è proprio di alcune opere che presentano un corredo genetico particolare. In questo caso, la musica di Steve Reich del 1971 è garante di una vitalità che conferisce alla coreografia di Anne Teresa de Keersmaeker una grazia particolare. Uno spettacolo che, eponimo, definisce e identifica le caratteristiche più profonde e longeve delle creazioni della coreografa belga.

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Drumming, di Anne Teresa de Keersmaeker ​​​​​​.

Nato durante la pandemia, IN C – live di Sasha Waltz con la musica di Terry Riley suonata dal vivo dall’Ensemble Casella offre una prospettiva ancora diversa sul rapporto tra creazione e repertorio. Non si tratta in questo caso di un’opera ricreata a partire da tracce d’archivio, ma non si tratta nemmeno di una creazione completamente slegata da una dimensione archivistica poiché lo spettacolo si pone in continuità e in dialogo con la produzione artistica di Sasha Waltz, innanzitutto, ed è composto da cinquantatré figure coreografiche definite, create a partire dalle figure presenti nella partitura musicale minimalista di Riley. Qui emerge comunque una prassi compositiva che tiene insieme la musica e il movimento del corpo attraverso una serie di elementi, che la coreografia contiene e descrive. Questi appartengono all’archivio di movimento conchiuso di questa stessa opera coreografica nella quale l’improvvisazione dei danzatori in scena è relativa esclusivamente alla sequenza delle cinquantatré figure del vocabolario della pièce.

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IN C – live, di Sasha Waltz, foto di Yanina Isla.

Spostando lo sguardo dai maestri della coreografia, il cui lavoro è radicato nella profondità del Novecento, alle nuove generazioni, nel programma di Romaeuropa Festival abbiamo incontrato le interessanti creazioni di due artisti di area fiamminga, Jan Martens e Benjamin Abel Meirhaeghe.

Jan Martens ha presentato un denso spettacolo dal titolo Any attempt will end in crushed bodies and shattered bones, con un cast di diciassette interpreti di età diverse, dai diciassette ai settant’anni. Qui la relazione con l’archivio, letteralmente, si espande a dismisura. L’architettura coreografica punta a un continuo sovrapporsi di strati di senso e di percezione che fanno riferimento a una struttura gestuale rigida, fatta di sequenze fisse, camminate e traiettorie ad alta precisione. Su questa struttura si posano, inoltre, la voce e il testo, portatori di uno strato ulteriore di significati che ancorano saldamente l’opera all’oggi e, così facendo, la situano in un archivio-corrente di pensieri e di pensiero che, nel corso dello spettacolo, si svela sempre di più. Qui l’archivio è, dunque, proprio il motore dell’azione stessa. Jan Martens sembra quasi far convogliare nella sua coreografia un discorso sul mondo tutto intero, e per farlo non rinuncia a nessun mezzo e, così facendo, incontra la piena approvazione del pubblico. 

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Madrigals, di Benjamin Abel Meirhaeghe, foto di Fred Debrock.

Infine, Madrigals di Benjamin Abel Meirhaeghe. Non una vera e propria coreografia ma, piuttosto, un’opera-performance, per certi aspetti in risonanza con la celebre Sun and Sea di Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė che venne presentata al padiglione lituano della 58° Biennale Arte di Venezia e successivamente anche al Teatro Argentina, nella stessa sala in cui abbiamo assistito a questo spettacolo. Qui il corpo, la voce, il canto, l’azione, la scenografia e tutti gli altri elementi convocati in scena fanno pensare a una serie molto sofisticata di intuizioni. L’insieme è un madrigale di nome e di fatto, che instaura con la musica di Monteverdi un rapporto totalmente carnale. Anche in questo spettacolo, l’archivio è presente secondo una dimensione che definiremmo “da Wunderkammer”. In scena, da Monteverdi alla performance art si tende un filo che, guardato da vicino, è un vero e proprio gioco di specchi.

La valorizzazione trasversale e multimodale dell’archivio, come oggetto di studio ed emblema di una modalità di funzionamento del pensiero, rappresenta una dimensione ancora e sempre attuale del discorso sulle arti performative. I processi creativi si nutrono di relazioni sempre nuove e diverse con il passato e con il passato delle arti stesse. E dunque almeno una certezza c’è. In teatro, parlare di passato rappresenta un’opportunità di approfondimento e di decolonizzazione, di apertura e di libertà. In particolare in questo tempo in cui, fuori dai teatri, il passato sembra tendere alla propria riattualizzazione e il presente si fa sempre più inattuale e distante da sé stesso, inconoscibile. 

Nell’ultima foto: Any attempt will end in crushed bodies and shattered bones di Jan Martens, foto di Phile Deprez.

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