Sull’Appennino tra parentesi / Castelluccio

18 Dicembre 2017

Tra i Castelluccio d’Italia, il “mio” è la frazione che sta sopra a Porretta Terme, sulla dorsale che segna il confine tra l’Emilia e la Toscana. Per le carte amministrative è provincia di Bologna, anche se a brevissima distanza ha principio la provincia di Pistoia. Il paese è un pugno di case raccolte tra la chiesa di Santa Maria Assunta, edificata a ridosso di un’asperità rocciosa, detta il Sasso, e il castello Manservisi, sito di antiche origini che venne rimesso in sesto nell’Ottocento medievaleggiante. A cavaliere della montagna, Castelluccio sembra correre su una cresta sottile. Lo circondano ampie discese verdi, che digradano verso il fondovalle. In direzione sud, si staglia la massa imponente del Corno alle Scale, ma la vista è innanzitutto occupata dal monte Piella, che con i suoi 1200 metri sovrasta gli 800 metri di Castelluccio. Negli anni lunghi dell’infanzia per me il piccolo borgo rappresentò un luogo che aveva la stessa consistenza delle “fole” raccontate da nonna Norma.

 

Come quelle, infatti, faceva parte dell’immaginario di un’epoca, quella della giovinezza della nonna appunto, che lì, nel piccolo agglomerato di case di contadini del Parchié, era nata. Più che un luogo, si trattava dunque di un tempo, popolato da tipi stravaganti che circolavano tra i boschi ed erano capaci di staccarsi con un colpo di scure il piede morsicato dalla vipera, oppure percorso dalle acque refrigeranti ma insidiose dei ruscelli, a causa delle quali era morto per congestione il padre della nonna, durante uno dei suoi ritorni in Italia dall’America dove era emigrato. Lo sentivo come un tempo dove erano ancora vivi i partigiani che ammazzavano i fascisti e dove passava sbraitando lo zio Arnaldo, alto, dinoccolato, incredibilmente capace di essere, nelle storie familiari, un eroe involontario – era diventato, per motivi che ho dimenticato, soldato di Tito in Jugoslavia – e un pavido ragazzone desideroso solo di sfangarla. Ma soprattutto quello era il tempo in cui nonna Norma era bambina, ed era la figlia (una dei nove figli) di Ersilia, la più affascinante delle sue fole, la misteriosa donna alta e bionda, che nulla c’entrava con quelli che definiva “montanari”, perché lei era nata a Firenze, dove qualcuno l’aveva abbandonata alla Ruota. Di chi potesse essere stata figlia Ersilia fu leggenda di casa per eccellenza, così come il suo sistematico rifiuto di venirlo a sapere quando forse avrebbe potuto. 

 

Fino ai diciannove anni, questo groviglio di immagini e parole era per me Castelluccio, in cui ero transitato in pochissime occasioni senza riportarne tracce durature. Poi, un’estate, avvenne la folgorazione. Proprio quando i giovani mettono le ali e vanno alla scoperta del mondo, io, con moto opposto, seguii la famiglia in una breve vacanza sugli Appennini. Trovammo casa in un piccolo appartamento nella piazzetta del paese, non lontani dal castello, e iniziò così un decennio di frequentazioni irregolari ma a intensità crescente. Forse oggi so come interpretare quei momenti: Castelluccio e i suoi ritmi di vita, il suo abbandono apparentemente lieto, il suo non avere più nessuna collocazione nel mondo (requisiti profondi dell’appenninicità), acquisirono il senso di una pausa dalla vita prima della vita stessa, di una rigenerazione che era nello stesso tempo una fuga che avrei desiderato definitiva. Le poche giornate dei primi anni si trasformarono così in pause estive più lunghe, in settimane e poi, addirittura, in due mesi di fila, luglio e agosto, compatti.

 

Preso da una febbre smaniosa, avevo convinto una parte della famiglia a seguirmi e lì avevo ritrovato parenti di mia madre. Erano, per me, anni complicati, popolati di frequentazioni sporadiche e mal sopportate, di progetti incompiuti, di idee senza costrutto. Lì mi sentivo in pace, finalmente. Facevo poco, in un abbandono che non ho più sperimentato. Dedicavo le giornate alla lettura, a un particolare tipo di lettura, fatta di pause, di continui ritorni sulla frase e di discese nei suoi sensi. Mi ritrovai in libri che avevo letto nell’adolescenza, classici perlopiù. Andando contro la mia più radicata idiosincrasia, mi dedicai alla scoperta degli studi storici locali, trovando spunti in una rivista curiosa e diseguale, “Nuèter”, che acquistavo nella piccola edicola-emporio vicino al voltone. E poi, come se fossero tutt’uno con le letture (mi guidavano le pagine illuminanti di Mandel’stam sul ritmo della terzina dantesca modellata sulla respirazione del pellegrino in transito per le tortuose vie appenniniche) quelli furono anni di camminate, lunghissime, spesso solitarie o al massimo con mio fratello, che mi allontanavano per intere giornate da tutti e specialmente dal presente. Di quella porzione di Appennino esplorai ogni angolo. Cercavo di rinnovare i percorsi, ma per tradizione la giornata partiva dalla decisione se prendere la strada che conduceva al santuario della Madonna del Faggio oppure se andare verso il Lago Verde.

 

La prima soluzione offriva un’ulteriore possibilità, quella di inerpicarsi verso il Vivaio e poi verso le ampie ombreggiature dei boschi di Monte Cavallo, ma purtroppo presentava un difetto: nei tratti iniziali, essendo di facile percorrenza, mi costringeva a incontrare rari turisti. Quando la sceglievo, allora, fino alla frazione della Pennola, andavo con passo rapidissimo, quasi di leggera corsa. Poi, superato il centro abitato, rallentavo e, dopo il Mulino di Tognarino, cadenzavo l’andatura tra i faggi. Da lì al santuario – che sapevo senza custodi – dovevo percorrere circa un’ora di cammino, ma posso dire che non me ne accorgessi nemmeno. Il paesaggio era nello stesso tempo conosciuto e sempre nuovo: avevo il Corno alle Scale davanti, alla mia destra le casette incollate alla montagna di Monte Acuto, più distante c’era Lizzano in Belvedere. Allontanarmi dai seppur lievi segnali di vita pasticciata e confusa allora mi tranquillizzava. E poi più che vedere ascoltavo. Avevo sviluppato un’attenzione sospesa nei confronti dei rumori, dei suoni della montagna: riuscivo a distinguere fruscii lontani, l’intensità del fremito del volo degli uccelli. Ignoravo chi ci fosse intorno a me, faticavo a distinguere le piante, ma mi sembrava che la fronte si allargasse e la testa diventasse capace di accogliere qualsiasi pensiero.

 

Arrivato al Santuario mi sedevo sul muricciolo che lo circondava, a ridosso del torrente. Era lì che mangiavo i panini portati da casa, era lì che completavo le letture e prendevo appunti su qualcosa che ho dimenticato. Qualche volta, dipendeva dal tempo e dall’ora, decidevo di proseguire, ed entravo in una affascinante terra di nessuno, con sentieri mal tracciati, sfrascamenti prodotti da animali selvatici, sgusciare invisibile di serpi. Allora ero vagamente inquieto, l’Appennino profondo faceva paura, chilometri di foreste, rarissimi casoni diroccati, qualche spiazzo verde con tracce di vecchi falò, assenza di altre tracce umane, possibili insidiosi agguati mortiferi di vipere che non ho mai incontrato. Quando mi inoltravo ero solito dirmi mentalmente che avrei percorso ancora pochi metri e poi avrei fatto marcia indietro, ma non era semplice obbedire a me stesso: quello spazio aveva il potere di annullare qualsiasi forza razionale e di rendermi immemore di tutto. La stessa stanchezza aveva la capacità di intensificare le forze. Era solo il primo indizio dell’imbrunire a frenarmi: del buio assoluto, del buio medievale, avevo assoluta diffidenza.

 

Lungo quel percorso, prima di arrivare al Santuario, c’era un luogo irrinunciabile. A una certa distanza dalla strada bianca, completamente estraneo a tutto, si trovava il piccolo borgo di Tresana. Case di sasso, appoggiate le une alle altre. Un forno in comune. Un minuscolo luogo sacro. Nient’altro. Ai miei occhi il suo pregio assoluto era che lì non abitava nessuno. Mi avevano parlato di proprietari lontani. Di sporadiche presenze estive. Mai però avevo incrociato anima viva. Quello era il mio paese ideale. Così appena potevo lo raggiungevo, trascinando anche i malcapitati (e rari) miei frequentatori che mi compativano quando raccontavo loro che lì sarebbe stato ancora possibile vivere tutto l’anno. Lavorando a libri impossibili, vivendo una vita parsimoniosa e austera, coltivando un po’ di terra, raccogliendo castagne. Chiudendo la porta in faccia alla vita. 

 

Arrivare al Lago Verde richiedeva meno impegno. La strada era breve ed agevole, perlopiù pianeggiante. Arrivati in fondo alla strada che usciva dal paese si svoltava a sinistra e, superato il vecchio cimitero in dismissione (i vecchi resti erano allora in trasferimento verso una nuova e funzionale sede decisamente più marginale rispetto all’abitato), si proseguiva per almeno un chilometro in mezzo ai boschi. Il Lago verde era un ampio spazio verde circondato da alberi altissimi e appena deturpato dai resti di una costruzione abbandonata che era ormai coperta dalla vegetazione. Quello era il luogo del silenzio, assoluto, irresistibile. Lì Pupi Avati aveva da poco girato alcune delle scene del film Una gita scolastica e, inevitabilmente, certe situazioni di quella malinconia si riverberavano sulla mia. In un punto appena separato dallo spiazzo più ampio, scoprii un angolo interamente coperto di soffice muschio. Lì, inseguendo insondabili consonanze, lessi Storia di Genji. Il principe splendente. Un migliaio di pagine, di cui nulla ricordo. 

 

Poi la vita arrivò a dirmi altro. Nel 1993 trascorsi a Castelluccio la mia ultima estate. Rientrato a casa, in settembre, faticavo ad attraversare le strade di città e la folla mi stordiva. Successivi passaggi sono stati troppo rapidi e ormai insignificanti. Sull’Appennino potevo stare solo tra parentesi, nella dimensione dell’attesa (che può anche durare una vita). 

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