Andrea Tagliapietra / Filosofia dei cartoni animati

29 Settembre 2019

La visione della trilogia di Toy Story (nel frattempo diventata tetralogia, vedi il mio articolo su Toy Story 4) deve avere davvero colpito la sensibilità di Andrea Tagliapietra, ordinario di storia della filosofia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e instancabile animatore del dibattito filosofico dei nostri anni. La riflessione sulla celebre serie di film della Pixar, infatti, attraversa le ben 469 pagine del suo nuovo lavoro Filosofia dei cartoni animati. Una mitologia contemporanea, appena uscito per Bollati Boringhieri, costituendone una guida alla lettura e allo stesso tempo un modello perfetto attraverso cui rivelare al lettore la complessità delle questioni filosofiche sollevate da quella strana specie di testi che sono i cartoni animati. Non è un caso che Filosofia dei cartoni animati sia dedicato dall’autore al proprio figlio. Siamo, insomma, di fronte a un altro lavoro che scommette sul felice dilettantismo del filosofo – questione, peraltro, evocata da Marrone proprio su queste pagine – affascinato dalla riflessione sulla vita quotidiana, alla ricerca dei suoi risvolti significativi più generali. La riflessione sui cartoni animati costituisce, infatti, un modo attraverso cui mettersi filosoficamente di fronte all’impenetrabilità del mondo felice dell’infanzia, alla sua limpida semplicità, all’insostenibile (dagli adulti!) senso di pienezza che il cielo azzurro contornato di nuvolette paffute di ogni disegno da bambini evoca. Cosa significa questo cielo azzurro? Cosa significa Toy Story che di questo cielo azzurro e della felicità ad esso connessa fa la sua bandiera? Rispondere a questa domanda richiede un duplice impegno. Intanto, disporsi verso la meraviglia dell’essere stati bambini, ricordarsi della propria felicità e del proprio incanto di fronte alle storie e ai miti dell’infanzia, al giorno d’oggi veicolati sempre più dai media e, dall’altra, prendere sul serio i cartoni animati, smetterla di considerarli testi marginali e insignificanti, riconoscendogli la giusta dignità di opere fondamentali per la costruzione dell’identità sociale e culturale di ognuno. Vale, infatti, la pena ricordare, come fa l’autore nell’introduzione, che è precisamente il loro valore di storie di fantasia, di miti collettivi a conferirgli tale ruolo.

 

È proprio l’elemento affabulatorio, immaginativo, anti-realistico dei racconti a costituire un ingrediente portentoso per la costruzione di una visione non deterministica della vita, per un’educazione alla complessità che sappia tenere insieme il “teorema di Euclide e le narrazioni di Omero”, senza rinunciare a nessuno dei due. La disposizione per comprendere il mondo dei cartoni animati è proprio questa, la volontà di uscire dalle secche del determinismo per cui esiste una sola Verità. Dire, grazie alle storie, addio alla Verità, non per diventare fiacchi relativisti ma per ritrovare il mondo come possibilità, come orizzonte di trasformazione, di cambiamento. Al contrario dei teoremi, infatti, le storie posseggono proprio questa caratteristica, quella di rompere al proprio interno il principio di non contraddizione, facendo emergere l’esistenza di logiche multiple (tante verità con la v minuscola) a monte dell’azione degli uomini. Esse mostrano la possibilità di mondi e sistemi collettivi alternativi, nuovi ordini a cui rivolgere la propria attenzione. Esercitarsi nell’arte dell’ascolto è pertanto, secondo l’autore, un buon rimedio per moderare la pretesa della “realtà” di presentarsi come unica opzione possibile. I racconti, le storie, i miti “inventano altri tempi” (mi fa piacere ricordare un bell’aforisma di Stefano Benni) e questo gesto è una garanzia contro ogni totalitarismo con le sue pretese di realismo. Ma se queste considerazioni sono tanto generali da valere per ogni narrazione, cosa distingue davvero i cartoni animati? Come ritagliare l’oggetto d’indagine del libro per differenza rispetto agli altri generi mediatici? La risposta a questa domanda diviene possibile solo a partire dalla circumnavigazione che il libro propone, lungo sette capitoli, ognuno dei quali viene chiamato a (ri)orientare lo sguardo filosofico del lettore in funzione del punto di vista disciplinare chiamato in causa: ermeneutica, antropologia, ontologia ed estetica, semiologia, apocalittica, politica ed etica.

 

Ognuno di questi sguardi, è nelle intenzioni dell’autore (ma questa scelta, a dire il vero non sempre appare convincente) convocato per circoscrivere uno spazio di esistenza specifico dei cartoni animati. Il primo capitolo, dedicato allo sguardo ermeneutico, si sofferma sul problema della ricezione. Chi è il “lettore modello” dei cartoni? Che disposizione d’animo, che sguardo assumere nei confronti di questo tipo di testualità? La risposta a un tale dilemma è originale. Bisogna guardare, al cinema o anche a casa, i cartoni animati assieme. I cartoni animati vivono, infatti, nella tensione fra due modi della visione opposti, uno orientato alla meraviglia del bambino e l’altro, al riconoscimento dell’ideologia da parte dell’adulto. Se il bambino di fronte ai suoi amati cartoni si fa vedere come un bambino, ride di ciò che a un adulto può sembrare ovvio, “sgrana gli occhi” di fronte allo spettacolo che gli si para di fronte, lasciandosi sedurre da dettagli apparentemente insignificanti, d’altra parte, “i grandi” possono leggere i cartoni animati come “segno dei tempi”, riconoscendone i tic e il loro intrinseco valore ideologico. È proprio nel gioco fra questi due modi della visione, nello “sguardo duale” che tiene insieme adulti e bambini che i cartoni animati diventano fatti culturali.

 

Proprio la reversibilità fra questi due modi della visione – del bambino e dell’adulto – è oggetto preferito di tematizzazione dalle storie dei cartoni animati. Basti pensare a classici come Pinocchio o Peter Pan. Se il primo è una storia di metamorfosi che vede il burattino di legno progressivamente dismettere i panni del monello irresponsabile per trasformarsi in un “bambino vero”, in carne e ossa, affidabile e assennato, il secondo evoca l’ostinazione nel non voler uscire dal mondo dorato dell’infanzia. Si capisce come osservare queste due storie archetipiche rimesse costantemente in circolo nei media proprio attraverso le loro trasposizioni animate possa costituire un appiglio per orientarsi nel mondo, se è vero che della “sindrome di Peter Pan” sembra essersi ammalato tutto l’occidente, il cui apparato economico e tecnologico cerca di prolungare all’infinito la condizione di subordinazione e dipendenza – in definitiva di compiaciuta irresponsabilità – della fanciullezza, impedendo ai suoi cittadini, grazie alla lusinga, di diventare adulti, soggetti responsabili e autonomi. Ci vuol poco, insomma, perché il capriccio del “ragazzo che non voleva crescere” si trasformi, nello scenario contemporaneo, nella distopia del ragazzo che “non può più crescere”. 

 

Proprio sul discrimine fra trasformazione e ripetizione si basa una interessante classificazione dei cartoni animati, proposta da Luca Raffaelli (2005) e sposata dall’autore. Essa riconosce essenzialmente tre grandi famiglie di stili, il disneyano, l’antidisneyano e il nipponico. Lo stile disneyano caratterizza quei cartoni animati che sposano il modello classico della narrazione, orientato all’individualismo borghese e alla realizzazione del protagonista della storia grazie alla sua capacità di superare ogni difficoltà in virtù del proprio impegno e alla propria dedizione. Si tratta di storie in cui trionfano i buoni sentimenti, in cui l’eroe viene dipinto come un soggetto in grado di intervenire sulla società, modellandola sulla base dei propri valori. È unicamente grazie alla sua iniziativa di singolo che si può sbloccare una situazione di ingiustizia e far volgere la storia verso il lieto fine. I classici Disney come Il re leone o le moderne storie della Pixar o della Dreamworks appartengono a questo genere di cartoni. Diversamente procedono i cartoni animati giapponesi, che, invece, delle storie enfatizzano l’identità di gruppo e pensano ogni intervento del singolo in un gioco di squadra più ampio, volto a tutelare la dimensione del collettivo. Se, insomma, i cartoni disneyani portano in scena eroi solitari che scommettono su se stessi, sull’“uno per tutti”, allora, quelli nipponici puntano sul “tutti per uno”, chiamando in causa il sacrificio delle velleità del singolo in nome di un più alto valore dell’appartenenza collettiva. Non è un caso, secondo l’autore, che i cartoni animati giapponesi possano avere riscosso grande successo nella televisione degli anni 80, segnati da un profondo individualismo e dalla concreta solitudine dei bambini di fronte alla tv nella propria cameretta. Mimì Ayuhara, l’amata campionessa di pallavolo protagonista della famosa serie di cartoni animati, sacrifica tutto per il successo del proprio team e quindi della propria nazione, ammonendo i suoi piccoli telespettatori sull’importanza dell’affiliazione di gruppo.

 

In ultimo, si può riconoscere un’altra tipologia di cartoni animati: essa, piuttosto che puntare sulla trasformazione, evocando l’impianto classico della narrazione, si concentra sulla ripetizione dell’identico, puntando sulle gag innescate dall’interazione di personaggi di segno opposto, senza che essi si trasformino durante il corso della storia. Appartengono a questo genere cartoni animati come Tom e Jerry, Willy il Coyote e così via. 

Conclusa la riflessione sulla ricezione e sullo sguardo duale, si passa alla dimensione antropologica, dedicata a un’altra caratteristica fondamentale dei cartoni animati, quella di “animare l’inanimato”. Anche qui Toy Story costituisce l’esempio più immediato per entrare nell’argomento, dato che l’intera serie si basa proprio sulla semplice idea di dar vita ai giocattoli, riconoscendoli come persone. “Tutti i fanciulli parlano ai loro giocattoli” aveva ad un certo punto sostenuto Baudelaire nella sua “Morale del giocattolo” (1853). I piccoli – l’autore cita a supporto delle sue considerazioni psicologi del calibro di Jean Piaget e psicanalisti come Bruno Bettelheim – hanno un approccio al mondo sostanzialmente animista, non hanno alcun problema a riconoscere soggettività alle cose, instaurando con esse rapporti affettivi profondi. Il mondo, per loro, diventa un orizzonte magico. La mentalità animistica infonde loro fiducia in un mondo ancora troppo misterioso e problematico, per definizione non controllabile. Classici come Cenerentola o Fantasia mettono in scena il fascino del potere della magia, mostrando un mondo in cui tutto è animato, in cui cose e persone sono legate da rapporti affettivi e di fiducia reciproca. Questa propensione a rappresentarsi il mondo come groviglio animistico dominato dal pensiero magico, nota l’autore, somiglia molto all’atteggiamento dei tanti adulti, Peter Pan troppo cresciuti, che si rivolgono alla tecnologia con lo stesso spirito con cui i bambini si rivolgono alla bacchetta magica del mago di turno. Si tratta di un segno di “perdita di controllo”: la propensione di tanti verso il pensiero magico, insomma, la dice lunga sullo iato che si è, al giorno d’oggi, creato fra risorse del sistema sociale e tecnologico e contributo che il singolo può essere in grado di offrire a questo stesso sistema con le proprie forze, confinando l’umano in una condizione di inferiorità strutturale.

 

 

Si capisce come la questione antropologica della magia chiami in causa il grande tema della morte, “animare l’inanimato” significa innanzitutto superare il grande discrimine che separa ciò che vivo da ciò che è morto, permettendo di restituire il soffio vitale ai defunti. Sono tanti i cartoni di ieri (La bella addormentata nel bosco) e di oggi (Coco, Nightmare before Christmas, La sposa cadavere) che tematizzano una tale gigantesca questione. Ma come si diceva poco sopra, sono i giocattoli a rappresentare, come in Toy Story, il luogo prediletto attraverso cui sperimentare lo scarto sottilissimo che trasforma gli oggetti in soggetti. “Il bambino vuole trainare qualcosa e questo diventa un cavallo, vuole giocare con la sabbia e si trasforma in fornaio, vuole nascondersi e diventa guardia o ladro” (Benjamin). È nel gioco, insomma, che succede la magia. Basti pensare a Pinocchio (sulle cui peripezie tanta semiotica è intervenuta, cfr. Fabbri e Pezzini 2002, Belpoliti 2003), burattino di legno, giocattolo, in cerca della propria identità. Si capisce come la sua ricerca non sia affatto soltanto una faccenda di ordine biologico. Per Pinocchio, il problema non è – in quanto burattino di legno – respirare come un essere vivente ma imparare a districarsi nel mondo con senso, riconoscendo le insidie e le opportunità in esso custodite, decodificando i tranelli e le scorciatoie dell’ideologia. L’anima, Pinocchio deve guadagnarsela e questo percorso sarà essenzialmente, se si vuole, un percorso internaturale, che lo porterà verso una consapevolezza ulteriore, a dimenticare il suo mondo magico e animato di bambino, verso una posizione metafisica che ristabilisce una linea di confine chiara e misurabile tra uomini e cose. Interessante notare come questo percorso sia a tutti gli effetti appreso: passare, per dirla con Descola, dall’animismo al naturalismo è a tutti gli effetti un percorso di riduzione della carica simbolica del mondo che tutti i bambini prima o poi dovranno affrontare. 

 

Il capitolo su “Ontologia ed estetica del cartone animato”, è forse il più denso e importante del volume. Soprattutto perché aiuta a riconoscere uno spazio autonomo e univoco dei cartoni animati rispetto alle altre opere di fiction, specialmente rispetto al cinema. Le considerazioni fin qui fatte, in fondo, possono essere portate avanti sia a proposito di film “dal vero” che dei cartoni animati. Si può sperimentare lo “sguardo duale” e incontrare la grande questione antropologica dell’animazione dell’inanimato sia in un film propriamente detto che in un cartone. Fin qui, non si può davvero riconoscere una differenza di principio fra il Pinocchio di Disney e quello in pellicola, per esempio, di Benigni. L’abisso che separa il cinema “dal vero” dai cartoni animati è, allora, secondo Tagliapietra, ontologico. Il cinema è legato alla replica, all’impressione della pellicola di cui si propone come fedele trascrizione. Tutti i film, compresi quelli di fantascienza pieni di effetti speciali, come Guerre stellari, si fondano sulla documentazione, sul mostrare qualcosa che è già avvenuto da qualche parte, restituendola fedelmente. Il loro è, quindi, un realismo ontologico fondato sulla circostanza che gli attori si muovano davvero da qualche parte sulla scena. L’astronave, in un film di fantascienza, per quanto essa possa essere considerata come un’invenzione di fantasia, viene rappresentata come dato esperenziale, sperimentato da persone in carne e ossa, e restituito dal cinema in maniera realistica, grazie alla magia dell’impressione della pellicola. Per i cartoni animati non è così. Non c’è una referenza a cui appellarsi, prima dello spettacolo.

 

Essi si presentano già in partenza come creazione da zero, cosicché quando incontriamo Donald Duck nei cartoni visti al cinema o alla tele, stiamo socializzando con un prototipo, un essere unico nel suo genere, che si porge agli spettatori come nuovo aspirante cittadino del mondo dell’immaginario, unico della sua specie. Il mondo dei cartoni animati è quindi propriamente un mondo anti-realistico e questo anti-realismo è una caratteristica fondamentale per delimitare lo statuto artistico e sociale dei cartoni animati. Non sono poche le opere di animazione che insistono su questo aspetto per così dire meta della costruzione dell’immaginario dei cartoni animati. Come non pensare alle meravigliose opere dello studio Ghibli e del suo artefice Miyazaki, la cui figura viene evocata in La città incantata come quella di un grande ragno dalle mille braccia alle prese con una ardente fucina. Ma il film che forse meglio di tutti riesce a rendere questa differenza ontologica è Chi ha incastrato Roger Rabbit i cui personaggi si spostano incessantemente fra l’orizzonte filmico della copia conforme e quello animato di Cartoonia. Il film si apre con una scena in perfetto stile antidisneyano in cui il piccolo Baby Herman gattona in cucina scatenando una serie di incidenti domestici iperbolicamente comici. Subito dopo, si capirà che si tratta di un film nel film, di una scenetta “recitata” dal poppante durante le riprese di un cartone animato a cui, nella finzione, è chiamato a partecipare come attore. Ma, invero, Baby Herman non è nient’altro che il suo carattere in scena, egli vive come disegno, non può affatto recitare, egli può soltanto essere se stesso, come tutti i cartoni animati… Ed è proprio grazie a questa peculiarità, del resto, che i cartoni possono riuscire nel loro compito fondamentale, quello di liberare l’esperienza dal peso del reale.

 

Proseguendo nella lettura, si incontra il capitolo sulla semiologia che, per molti versi, si presta a essere criticato. La scelta di chiamare in causa la disciplina della significazione per rendere conto della questione della ripetizione appare arbitraria. Se è vero che l’intero libro – vertendo esso sul significato sociale che è possibile, grazie alla riflessione sui testi concreti analizzati e sulle questioni che essi sollevano, riconoscere a questo genere dell’intrattenimento – potrebbe essere letto come una semiologia dei cartoni animati, il capitolo ritaglia la questione del ritmo (che dal punto di vista della semiotica potrebbe essere ascritta a problematiche di tipo enunciativo) come suo focus. D’altra parte, mancano (qui e nel libro intero) i tanti contributi che la disciplina semiotica ha negli anni offerto sulla questione dei fumetti (e quindi di riflesso a quella dei cartoni): non c’è un riferimento al famoso articolo sulla lingua puffa di Eco (pubblicato nel 1979 sul Alfabeta), non c’è Charlie Brown (letto sempre da Eco – 1964 – e in epoca più recente da Calabrese – 1993 – e poi ancora da Marrone nel 2014), non c’è Paolino Paperino (Calabrese, 1985), Tintin (Floch, 1997), né gli ultimi lavori usciti sul tema dei cartoni animati rivolti alla prima infanzia a cui, nel mio piccolo, io stesso ho provato a contribuire (Mangiapane, 2014). Quando si sostiene giustamente che nei cartoni animati antidisneyani “non succede nella” (p.197) nel senso che non c’è una struttura narrativa che porti alla trasformazione dei personaggi, non si cita, per esempio, il saggio di Umberto Eco che aveva sostenuto qualcosa del genere già nel 1964 a proposito di Superman. Si preferisce piuttosto fare un lungo affondo sul sonoro e sul rapporto fra cartoni animati e jazz o qualche pagina dopo sul problema dell’assenza del padre, tanto che è difficile riconoscere una coerenza di fondo alle pur interessanti questioni sollevate.

 

Le considerazioni più pregnanti pertengono alla questione dell’individuazione del singolo all’interno di una collezione, ambito che tocca temi esistenziali fondamentali come in Blade Runner o ancora una volta in Toy Story: cosa distingue un soggetto dalla collezione di replicanti tutti uguali? La risposta di Tagliapietra è pregna di significato. È l’imperfezione, quella dimensione paradossale che toglie valore economico alla merce (il replicante “guasto”, il giocattolo rovinato o “rotto”) e allo stesso tempo la dota di identità per chi la possiede.

Un altro tema prediletto dei cartoni animati è quello della grande estinzione, dell’apocalisse, approfondito in un capitolo ad hoc. La questione è fortemente connessa all’ecologia e chiama in causa la naturale propensione di tutto il mondo dei cartoni a pensarsi come impegnato nella causa dell’ambientalismo, seppur con una sostanziale differenza nel modo di pensare e rappresentare l’orizzonte naturale fra occidente e oriente. Se nel caso dei cartoni animati occidentali la natura è un soggetto debole e precario da difendere dalla prevaricazione dell’uomo (Wall-E, Ralph Spaccatutto, perfino Piovono polpette), nella tradizione dei cartoni animati giapponesi, la natura è sostanzialmente indifferente ai destini dell’uomo, ragion per cui ogni atto di contaminazione e avvelenamento dell’ambiente naturale perpetrato dall’umanità non può essere considerato di per sé positivo o negativo, quanto pericoloso per l’esistenza dell’uomo stesso, dato che l’ambiente naturale, la Natura, può procedere ugualmente senza l’esistenza dell’uomo. Una considerazione a parte merita la questione dei dinosauri. Oltre al fascino della “grande estinzione” che essi evocano (film come Jurassic Park non fanno altro che riproporre il tema Shelleyano di una natura manipolata fino a generare mostri), una tale tematica evoca, nel rapporto fra il grande e il piccolo, l’archetipo dell’astuzia di Ulisse contro il ciclope. 

 

Si giunge quindi ai capitoli dedicati alla politica e all’etica, fra i più belli e densi del libro. La dimensione politica dei cartoni animati insiste spesso proprio sul riscatto del piccolo sul grande, portando il punto di vista del minuscolo (del bambino!) sul mondo, di fronte alla cecità dei grandi. Seguono una serie di affondi tematici sui piccoli protagonisti delle storie dei bambini, dalle api, alle formiche fino ai topi. Questi affondi sono un compendio molto utile a cui riferirsi per farsi un’idea delle ricadute significative che l’appartenenza animale di un determinato personaggio può riscuotere nella costruzione del senso della storia. Un’ultima questione affrontata nel capitolo è quella dell’“arca di Noé”, ovvero della metafora della convivenza interspecie nel collettivo del mondo. I collettivi dei cartoni animati (uno per tutti quello di Zootropolis) non fanno altro che ribadire il primato dell’affettività rispetto all’affiliazione di sangue: ognuno deve “poter essere ciò che vuole” come grida ai quattro venti la piccola coniglietta protagonista di Zootropolis, a dispetto dell’ascendenza ereditata. 

 

Il lungo itinerario proposto dal libro si chiude giustamente con la dimensione etica: il problema dell’altro e dell’amicizia, tematiche predilette dall’autore. Il mondo della fiction per bambini è pieno di mostri, soggetti strampalati e paurosi, che nella loro alterità non fanno altro che rivelare le nostre debolezze. Molti cartoni animati mostrano come il meccanismo della paura dell’altro sia spesso funzionale alla perpetuazione del potere da parte del sistema (Monsters&Co), mettendo in scena storie che evocano il superamento della paura in nome di una consapevolezza del mondo sociale, dell’ordine all’interno della quale il diverso trova posto (come non pensare a La città incantata di Miyazaki). È proprio una tale consapevolezza che può portare al riconoscimento dell’altro come amico, a cui fare riferimento, a cui mostrare (donare!) per primi il segreto della propria fragilità. Impara una tale lezione perfino il superbo Saetta McQueen dal suo amico, un tempo snobbato e giudicato “perdente”, Cricchetto. Imparare a rivolgersi all’altro senza misurare la “convenienza” di un tale gesto in termini economici, come fa McQueen, è un gesto rivoluzionario ed anticapitalistico. Chissà che la rivoluzione, per i piccoli spettatori del film, non cominci proprio da qui.

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