Viviamo tra l'originale e la copia / Malinconici eppure creativi

19 Marzo 2017

Sono la copia

 

Sono la copia e muoio di malinconia sognando di essere il mio originale. Mi consolo pensando che, dal momento che ha reso possibile la mia creazione, anche l’originale vive nello scarto tra se stesso e me. Persino chi ci ha creato entrambi non ne esce più: non poteva non crearmi mentre non riusciva a non cercare di conoscere l’originale, per scoprire che per farlo finiva comunque per creare una copia, cioè me. Quella sua capacità creativa che gli permette di conoscere è la stessa fonte della sua malinconia. Quell’illusione, che non è inganno, che nasce dal gioco con l’originale al fine di conoscerlo e che lo conosce solo dando vita a una copia, cioè a me, è il senso della vita, e quel senso pare che stia nell’ineluttabile scarto tra la vita stessa e la conoscenza. Chi mi crea non può che agire così, perché è fatto per “seguire canoscenza”; una volta che mi ha creato vivrà nella tensione tra me e l’originale, scoprendo che la vita è lì, con la sua generatività e la sua malinconia. Come ne I quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke, l’esistenza si dà tra elementi impercettibili e infimi, ma anche terribili e meravigliosi. Mi capita ogni tanto di pensare di sottrarmi all’attrazione di sognare di essere l’originale, o al gioco di garantire l’effetto conoscitivo a chi mi crea. In questa ambiguità mi struggo e torno a sognare di essere l’originale, mentre fungo da opportunità conoscitiva di se stesso e del mondo a chi continua a crearmi per vivere. Mi conforta che anche l’originale si presenti fragile; che in fondo io, per quanto mimetico e illusorio, non sia più fragile della sua fragilità. Me lo riconoscono persino i poeti e gli artisti, che ammettono che le loro creazioni sono qualcosa di fisico, un’espressione diretta della propria esperienza corporea e incarnata. Scrive in proposito Gottfried Benn: “Per colui che si sforza di dare espressione alla propria interiorità l’arte non è qualcosa che attenga alle scienze umane, bensì qualcosa di fisico, come un’impronta digitale”.

 

Del resto era stato Benedetto Croce a definire la poesia “la lingua materna del genere umano”, volendo indicare che una delle copie più profondamente coinvolgenti della creatività umana genera l’umano stesso. Se è possibile sostenere che non ci sarebbe nessun altro “fare” se non quello che istituisce il senso, il terreno – il mondo –  su cui poggiare tutti gli altri “fare”, come scrive Giorgio Manacorda nel suo bellissimo La Poesia (Castelvecchi, Roma 2016), seguendo il Faust di Goethe, l’attenzione si sposta dal logos al poiein. La poesia come copia per eccellenza si propone come necessaria per conoscere e per essere, per conoscerci e per esserci. Crisi e tensione, originale e copia, debbono allora conservarsi, debbono rimanere presenti sullo sfondo, come ha riconosciuto a suo tempo nel suo capolavoro, Mimesis, Eric Auerbach. 

 

Siccome non possiamo fare a meno di conoscere, di conoscere il mondo e di conoscerci, come ci conosciamo? Produciamo copie del mondo che tendono a sognare l’originale e in quel gioco che noi stessi produciamo si generano i mondi in cui noi stessi abitiamo, compresi noi come mondi. In quel gioco mimetico esistiamo: nei modi e nei limiti entro cui produciamo i concetti e ci rappresentiamo le cose, a partire da problemi, domande, dubbi, ambiguità delle epoche, come la nostra dove, attraverso finestre, ci affacciamo su un mondo fatto della materia virtuale dei nostri sogni. Queste complesse questioni si pone Alfonso M. Iacono nel suo ultimo libro, Il sogno di una copia. Del doppio, del dubbio, della malinconia (Guerini e associati, Milano 2016). E si domanda: anche se è vero che la depressione imita i segni e i sintomi della malinconia, perché tendiamo a confonderle e a pensare l’una come una copia dell’altra? In un mondo quale è il nostro attuale, in cui le copie, materiali e virtuali, sono prodotte in serie e in grande abbondanza, qual è il sogno di una copia se non quello di voler essere un originale? Se non si crede più alla corrispondenza tra rappresentazione e realtà, a cosa bisogna credere? L’odierna tendenza a patologizzare il normale evidenzia la confusione tra i modi di essere «sani» e le malattie, soprattutto perché non ci si rassegna ad accettare i nostri limiti e la nostra mortalità; il sogno di una copia che si vuole sostituire all’originale e mostrarsi migliore di esso affiora in un mondo in cui il virtuale appare più vero del reale. 

 

Sono l’originale

 

Sono l’originale, ho peccato di presunzione di bastare a me stesso. Chi cerca in me l’autenticità ha l’impressione di coglierla in pieno per poi accorgersi nello stesso momento che ha prodotto ancora una volta una copia. Eppure nel ritentare, stando nel mondo intermedio tra me e la copia, cogliendomi con la coda dell’occhio, la piccola donna e il piccolo uomo creatori di mondi, col loro bisogno di conoscere, trovano “sempre nuovo alimento per la loro sete di chiarezza” col racconto che generano, “il quale è più che mera ‘realtà’, ma di certo anche in pericolo continuo di perdere la realtà propria, come accade non appena l’interpretazione diventi soffocante e dissolvente”, come scrive Auerbach (p. 18; vol.1). Eppure, in quanto originale, presumo; oh! se presumo! Mi aggrappo persino al tentativo di collocarmi nei processi biologici in quanto fenomeni di carattere primario. Qualche ragione ce la devo pur avere se si considera che la poesia è l’essenza dell’essere; è la caratteristica fondante del nostro stare al mondo; dell’esistenza di esseri come noi che non coincidono mai con se stessi e con i mondi che creano, pur non smettendo, allo stesso tempo, di consegnarsi a quei mondi che essi stessi creano, reificandoli per ragioni di rassicurazione e di conforto. 

 

“Noi non possiamo non pensare «poeticamente», in questo senso non c’è nessuna differenza tra Einstein e Goethe. Forse poesia e scienza non sono poi tanto lontane, ciò che si presenta come categoriale e ciò che sembra l’opposto si incontrano nella metafora o, meglio, nella metafora hanno la loro origine comune” (Manacorda, p. 11).

Eppure si pongono non pochi problemi che potrebbero esaltarmi, nella mia convinzione, in quanto originale, di essere alla base di tutto. 

Sergio Solmi, ad esempio, parlava, da letterato, del “totale assorbimento del pensiero nella materia, che diventa perciò essa stessa il vero contenuto dell’opera”. Posso, in quanto originale, concedere una certa attenzione a Nietzsche quando dice che “la credenza nelle categorie della ragione è la causa del nichilismo”; ma vorrei chiedergli se esisterebbe la copia senza l’originale. Eppure mentre me lo chiedo ho dei dubbi: se sappiamo creare copie per così dire autonome da qualsiasi originale, qualcosa deve esserci che mi sfugge in questo strano e affascinante gioco!

 

Ph Lara Zankoul.

 

La convinzione che tutto quello che è nel mondo è materiale e che la poesia sia una produzione del nostro corpo, “una sublime deiezione”, come scrive Manacorda (p. 12), trova un sostegno di grande rilievo nelle considerazioni di Bruno Munari sulla fantasia, l’invenzione, la creatività e l’immaginazione. Quest’ultima, l’immaginazione, però, sostiene Munari, non è necessariamente creativa. 

“Facciamo un esempio:” – egli scrive – “proviamo a immaginare una motocicletta di legno. Ciò è possibile per l’immaginazione. Una motocicletta di vetro si può pure immaginare: una motocicletta tutta trasparente (come quei modelli del corpo umano dove si vedono tutti gli organi per trasparenza). Ma se si passa dalla materia solida a quella liquida e si pensa a una motocicletta liquida..., questa non appare visibile, qualunque sforzo faccia l’immaginazione per immaginarla” (B. Munari, Fantasia, Laterza, Roma-Bari 1977; p. 28).

Ci vuole comunque una nuvola, seguendo la creatività di Shakespeare, per immaginare tutto l’immaginabile:

“Amleto: vedete voi quella nuvola che ha quasi la forma di un cammello?

Polonio: per la messa, assomiglia a un cammello davvero.

Amleto: mi pare che assomigli a una donnola.

Polonio: ha il dorso come una donnola.

Amleto: o come una balena.

Polonio: proprio come una balena”.

Come si può facilmente verificare noi non possiamo trattenere il pensiero, mentre possiamo trattenere persino il respiro, come segnala George Steiner. Questo impulso a domandare, a ipotizzare, a cercare oltre, genera la civiltà umana, le sue scienze, le sue arti, le sue religioni. Allo stesso tempo è la fonte del nostro “dolore di pensare”, in quanto sentiamo che quello che pensiamo non corrisponde mai esattamente alla realtà che abbiamo pensato e cercato di conoscere. 

 

Io che sono l’originale, nonostante tutto, continuo a pensare di bastare a me stesso, ma mentre lo faccio so che senza la copia me ne starei appiattato senza possibilità di considerazione, senza la pensabilità della copia che mi solleva e consente almeno in parte di riconoscermi.  

 

Sono il creatore

 

Sono il creatore, il soggetto che conosce, e a lungo mi è parso di arrivare alla vita e alla realtà delle cose conoscendole in presa diretta e senza mediazione e illusione. Me ne stavo a distanza a guardare il mondo e anche me stesso, e più scavavo stando a distanza, più mi sembrava di giungere alla realtà. Fino a quando mi sono accorto che creavo copie su copie, copie dopo copie, più o meno conformi all’originale, ma copie. Nel mio viaggio infinito tra mente e mondo, mi sono inventato tante spiegazioni per poi verificarne il fallimento. A un certo punto ho cominciato a capire che forse proprio in quel gioco tra realtà e copia stava la conoscenza che cercavo. Non posso negare che mi sono sentito e ancora mi sento una palla che rimbalza tra originale e copia. Mi sono ritrovato in una malinconia permanente, che è in parte depressione, in parte opportunità creativa e generativa.

L’esperienza forse più evidente l’ho fatta e la faccio con il pianeta che ci ospita. La domanda che sempre più spesso mi faccio è se la Terra ce la siamo inventata noi, e se e come oggi dobbiamo reinventarcela.

 

Vi siete mai chiesti come si fa a farsi un’idea di una cosa che, per le sue dimensioni, non si riesce a vedere per intero? Si accettano le condizioni della conoscenza per noi esseri umani: “che noi non possiamo conoscere le cose per davvero, ma soltanto in figura, alla lettera geograficamente”. Così scrive Franco Farinelli a pagina 51 del suo libro, L’invenzione della Terra (Sellerio, 2016). Ma allora viviamo nella cosiddetta realtà o in una delle sue possibili e molteplici copie e rappresentazioni? Se, come ci mostra Farinelli, Anassimandro, il filosofo greco del sesto secolo avanti Cristo è stato il primo a creare una rappresentazione della Terra, facendolo egli ha operato il gesto proprio di ogni conoscenza scientifica. “La sicura via della scienza”, scrive Farinelli, “consiste non nel seguire le tracce di quel che si vede in una figura, ma al contrario nel trar fuori da essa quel che noi stessi vi abbiamo messo” (p. 68). La ragione, infatti, mostra di scorgere solo ciò che essa stessa produce secondo il suo disegno. Anassimandro, creando una metafora cartografica della Terra, riduce la Terra stessa al suo “cadavere grafico”. Sarà poi un altro filosofo, secondo Farinelli, quel Kant della Critica della ragion pura, a riconoscere implicitamente la priorità di tale cadavere rispetto al corpo vivo della Terra, e a far dipendere la conoscenza stessa della Terra dalle regole della rappresentazione e dalle copie che noi stessi ci diamo. Una perdita? Possiamo considerare una perdita quella che produciamo con la messa a punto di una rappresentazione conoscitiva del mondo? Una perdita della presa diretta sul mondo? 

 

È stato T. S. Eliot, grande poeta, a chiedersi con i suoi versi: “Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione? I cicli del Cielo in venti secoli ci portano più lontani da Dio e più vicini alla polvere”. Farinelli assesta una sottile e quanto mai opportuna critica alla cosiddetta filosofia della postmodernità, allorquando essa pretende di individuare una differenza tra moderno e postmoderno nel fatto che mentre nella modernità la mappa è la copia del territorio, nella postmodernità il rapporto sarebbe rovesciato: per la prima volta il simulacro (la tavola, la rappresentazione geografica) precederebbe il territorio. Farinelli commenta: “Come dire allora che già Kant sarebbe postmoderno, per tacere di Anassimandro”. Se così fosse “il più postmoderno di tutti sarebbe Cristoforo Colombo: così tra l’inizio della modernità e la postmodernità non vi sarebbe più nessuna differenza, la prima sarebbe la seconda e viceversa. Con Colombo, infatti, la rappresentazione geografica (la tavola, la mappa) prende il posto del mondo, ricomprende ed assorbe tutto ciò che esiste: la carta, cioè lo spazio, il primo degli strumenti della modernità, che proprio con Colombo si afferma” (pp. 69-70). Come già si può intuire, quello di Farinelli non è solo un rigoroso argomentare geografico: siamo di fronte a un pensiero, il suo, che non si piega alla mortificazione dei confini disciplinari né al rigor mortis degli steccati accademici. Intervengono nella sua narrazione arcipelaghi di punti di vista, geografie affettive e dati oggettivi, epistemologia e psicologia dell’osservatore, per condurre il lettore in una vera e propria esplorazione, fino al punto di far pensare alla geografia come un viaggio infinito andata e ritorno tra mente e mondo.

 

Noi, spesso, siamo come i marinai di Colombo, che sono nella condizione di credere “di vedere terra soltanto perché sono convinti della sua esistenza in quel punto, e sono convinti dell’esistenza della terra in quel punto soltanto perché l’hanno vista sulla carta, soltanto perché è la carta a dirlo” (p. 72). Se si vuole comprendere qualcosa di chi siamo e come vediamo il mondo bisogna leggere, soprattutto, il capitolo dieci del libro di Farinelli e sognare che l’autore possa accompagnarci in un luogo guidandoci con la sua prosa ammaliante. Il luogo è il Portico dell’Ospedale degli Innocenti, la prima architettura costruita secondo il principio prospettico moderno da Brunelleschi. Scrive Farinelli: “Se noi crediamo che più le cose sono lontane e più sono piccole, più sono vicine e più sono grandi, è soltanto perché siamo moderni, e soltanto perché vi sono stati un secolo e una città (il Quattrocento e Firenze) che hanno inventato un modello terribile, pervasivo, onnicomprensivo, il quale in epoca moderna avvolgerà tutto il globo: la prospettiva lineare, cioè il punto di vista spaziale…..” (p. 77). “E davvero è straordinario come alla fine, tutto sommato, la storia della conoscenza del mondo è una storia in cui due globi, due palle, due sfere (quella della terra e quella del nostro occhio), facciano tanta fatica a riconoscersi, a mettersi in contatto, per così dire, e a guardarsi come davvero sono”.

 

Da allora l’occhio diventa autonomo e quel divorzio tra gli occhi e gli altri sensi diventa sempre più insanabile. Abbiamo per quella via colonizzato il mondo e il modo in cui ce lo immaginiamo. Almeno dall’età di Pericle in avanti, colonizzare significa non solo occupare materialmente una porzione di Terra, ma anche colonizzare a distanza tramite i modelli mentali che adoperiamo. Il formidabile modello mentale della prospettiva è divenuto il modello con cui inventiamo la Terra: “il più completo e totalitario che esiste, proprio perché è insieme un modello di costruzione del mondo, di percezione del mondo, di rappresentazione del mondo. Di qui la sua straordinaria potenza”. (p. 95). Condotti per questa via narrativa avvolgente giungiamo con Farinelli fino alla globalizzazione. Qualunque cosa significhi globalizzazione, dice l’autore, vuol dire che oggi non possiamo più contare sulla mediazione cartografica, perché le direzioni non corrispondono più a relazioni fisse tra una parte e l’altra e siamo oggi nella condizione di dover urgentemente iniziare a reinventare la Terra stessa “attraverso altre logiche e altri modelli, anche se oggi è molto più difficile orientarsi nel pensare in nome di tutti gli esseri umani che tenendosi per mano continuano a girare in tondo e sono l’umanità” (p. 154).  

 

Inventare il mondo, tra doppi, dubbi e malinconia

 

Inventare copie del mondo che, pur se astratte dal mondo, sognano di sostituirlo senza mai riuscirci, è il gioco conoscitivo in cui siamo impegnati, secondo A. M. Iacono. Tra sostituzione e simulazione siamo nella condizione che Verga aveva attribuito allo scrittore che, per descrivere una formica, deve uscire da sé simulando di essere una formica. La copia che si crea nella conoscenza del mondo diventa “vera nella misura in cui rivendica una propria autonomia, anche se vincolata alla relazione con l’originale” (p. 16), scrive Iacono. 

“Il sogno di una copia è sì quello di prendere il posto dell’originale, ma trovando nello stesso tempo la propria differenza e la propria autonomia”. Ciò vale a anche per la conoscenza di sé e per quell’alterità che creiamo per conoscerci. La coscienza dell’alterità necessaria eppure inventata produce in noi uno stato di malinconia, ma ciò appartiene “alla parte sana della nostra natura di esseri mortali e non a quella malata”. C’è una parte non patologica, ma generativa nella malinconia. Secondo Iacono “la ragione è tale se comprende in sé il senso malinconico dell’incompiutezza e dell’incompletezza a cui siamo sottoposti noi esseri mortali quando, guardandoci allo specchio, indaghiamo noi stessi” (p. 18). La riflessione produce scarto e dolore tra realtà e copia e “la tristezza è la consapevolezza sofferta dello scarto incolmabile tra il pensare e il fare, è il senso del limite, è la ferita narcisistica” (p. 28). La via malinconica e riflessiva, per quanto dolorosa, se accompagnata da ironia, è una via generativa; senza ironia sfocia della depressione: “la politica di oggi non riesce ad essere né malinconica, né riflessiva”, secondo Iacono. 

Con un simile viatico la nostra condizione di ricerca di autonomia nella relazione e di vie per vivere le connessioni con il mondo, ci situa in una costante ambiguità e intermedietà. Impegnati ad abitare e a forzare le cornici del mondo scopriamo l’incompiutezza e lo spaesamento come condizione. Sentiamo alfine di vivere da qualche parte nell’incompiuto, come suggerisce Valdimir Jankélévitch che di ironia se ne intendeva. 

 

“La creatura, prima di aver gustato il frutto della coscienza”, dice Jankélévitch, “era quasi come Dio, ma soltanto quasi; quasi divina, vale a dire: non del tutto, perché se avesse avuto l’immortalità e la felicità custodite dai frutti dell’albero della vita, gli mancherebbe la coscienza, dono pericoloso promesso dall’albero della distinzione tra il Bene e il Male”. (…..) “Ciò che gli manca, la felice pienezza, potrà essere provato dall’uomo solo nella gioia-baleno di un istante, non in un qualche ritorno a un’innocenza perduta”. (…..) “non è possibile conoscere il segreto della felicità e insieme restare felici”. “E tuttavia, questa incompiutezza, questa insufficienza costituiscono tutto il valore della vita” (V. Jankélévitch, Da qualche parte nell’incompiuto, dialogo con B. Berlowitz, 1978, Einaudi, Torino 2012; pp. 62 – 63).

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