Speciale

Progetto Jazzi / Percorso didattico erroneo in un bosco

18 Settembre 2016

 

Continua l’intervento di doppiozero a sostegno del Progetto Jazzi, un programma di valorizzazione e narrazione del patrimonio culturale e ambientale, materiale e immateriale, del Parco Nazionale del Cilento (SA). 


Gli Jazzi (da iacere, giacere) erano dimore temporanee, giacigli per il ricovero di animali da pascolo, punto di connessione tra tratturi e paesi: luoghi dell’indugio, della presa di contatto con le cose. Il progetto intende recuperare questo modo di abitare la natura, raccontando percorsi da attraversare con lentezza, riappropriandosi di spazi e luoghi e della loro storia, rinnovando esperienze – come l’osservare le stelle o il nascere del giorno – capaci di ripristinare il contatto con la natura, con il ciclo delle cose e delle stagioni. La sfida è anche quella di produrre innovazione e rigenerazione sociale, recuperando strutture e architetture rurali, mettendo in moto un circolo virtuoso di ospitalità diffusa che si nutra delle realtà esistenti e delle reti di relazione con i ‘nuovi viaggiatori'.

 

Il cammino a ostacoli consisteva, come la corsa, nel fatto che gli ostacoli costituivano il tracciato del suo percorso. Se si imbatteva in un tronco d’albero caduto, in un masso, in un fossato, in una recinzione, non li aggirava, bensì cercava di superarli tirando dritto. La condizione era che non si doveva abbandonare il ritmo della camminata. Saltare o arrampicarsi era permesso se nasceva dal movimento del camminare e diventava parte dello stesso. Dunque nessun arresto o passi indietro per prendere la rincorsa, e per le arrampicate valeva la regola: senza aiutarsi con le mani. Ma che modo di arrampicarsi era quello, se ci si doveva tenere saldi solo con le dita dei piedi? E non pochi ostacoli vennero esclusi sin dall’inizio, per il suo sport. D’altra arte lo praticava solo là dove li vedeva ben chiari davanti a sé e supponeva che fossero idonei per il percorso. E in più richiedeva nella sua camminata a ostacoli sempre e comunque sporadicamente, quando una certa spossatezza non gli lasciava percepire nient’altro che, appunto, la spossatezza, e allora proseguiva un po’ più spedito e – o magari se lo immaginava? – con nuova energia. «L’importante è l’immaginazione, funziona». Questa era una delle invenzioni con cui l’attore giocava, più che altro con sé stesso. Dopo la camminata a ostacoli gliene venne in mente un’altra, mentre proseguiva tranquillo attraverso il bosco. Pensando a tutti gli itinerari didattici con tabelle scritte o illustrate a ogni pié sospinto, con le informazioni riguardo non solo ad alberi e cespugli, ma anche alla natura del terreno, all’origine delle pietre, alla genesi delle rocce eccetera, gli venne l’idea di un «itinerario didattico erroneo». L’idea era più o meno questa: lungo il percorso, parimenti a ogni pié sospinto, sarebbero state esposte, bene in mostra, cose in apparenza talmente somiglianti ad altre che, alla prima occhiata, si sarebbe dovuto prenderle per quelle. e queste altre cose «simulanti», al contrario delle cose scopertamente esposte, avrebbero rappresentato un valore, tutte. Uno sciame di foglie di un giallo particolare, per esempio, poteva essere sistemato e fissato su uno specifico cuscino di muschio in modo tale che chi percorreva l’itinerario non avrebbe potuto fare a meno di scorgervi un tappeto, un ricco tappeto di gallinacci/setas de San Juan, e di chinarsi istintivamente per coglierli. Oppure: un blocco di mica che si ingobbiva uscendo da una terra nera o rossa simulava una vena argentifera. Una corteccia di betulla arrotolata e con striature lineari apparirebbe come una pergamena medievale. Un quadrato di infiorescenze di castagno intrecciate insieme sarebbe un tappeto orientale. Una palla di escrementi di cinghiale un tartufo nero. Un ovale composto da bucce di faggiole sarebbe una mantellina di preziose conchiglie dei mari del Sud o di altre latitudini. Un mucchio di calcare dalla copertura bianca, se levigato, si trasformerebbe in un tesoro di avorio. Un nido vuoto di vespe o di calabroni che rotola qua e là nel vento tra i rami secchi potrebbe essere un altro tesoro perduto, proprio come la pelle cangiante di una serpe, anch’essa ondeggiante al vento su un arbusto, un oggetto di valore, e un coleottero morto dai colori dorati un autentico scarabeo egiziano d’oro, e la corazza scolorita di un insetto una statua in miniatura del Buddha nella posizione del loto.

 

E il senso di un simile percorso didattico? La constatazione, dettagliata, dell’errore, di ciò che erroneamente si riteneva degno di rinvenimento, di cosa aveva causato l’errore, dell’oggetto erroneo dopo aver preso coscienza dell’errore. – E cosa si ricavava da questa constatazione dell’errore? Le cose erronee, le cortecce di betulla, la mica – la «biotite bianca» –, il nido di calabroni, grigio topo, logoro, se osservato più da vicino, non erano decisamente prive di valore? – Niente affatto, rappresentavano un valore. L’attimo folgorante che accompagnava il riconoscimento dell’errore avrebbe aguzzato la vista, e gli oggetti erronei avrebbero acquisito l’aspetto di oggetti di studio. Sarebbero diventate cose nuove, sconosciute, in ogni caso mai viste così sino a quel momento. – «Così» come? – Attorno agli errori, nell’effetto postumo della folgorazione erronea, si sarebbe formato un alone nel cui centro le faggiole, il coleottero dorato, l’escremento di cinghiale, sarebbero stati illuminati da una luce intensa, sotto una lente speciale. – E allora? E poi? Che fare? Qual era il valore di una smorta spoglia di insetto, isolata dal suo contesto investita da una luce violenta? A quanto ammontava? Quanti yen o rupie? Largo al valore di mercato, prego! – L’oggetto erroneo di per sé: privo di valore. Il valore della sua constatazione: incalcolabile. Era insito nell’osservazione, nel poter osservare, nel passaggio dall’occhiata distratta alla contemplazione attenta, e successivamente, appunto, nello studio: detto altrimenti, nell’accogliere dentro di sé le forme che si palesavano per la prima volta con l’aiuto dell’errore, i colori della figura dell’oggetto erroneo, un accogliere dentro di sé il giallo delle foglie, la struttura delle infiorescenze, il disegno nella schiuma della conca formata dalle radici della quercia, un accogliere tutte queste incalcolabili ricchezze per la prima volta e durevolmente – «altrimenti questo non sarebbe certo il mio percorso didattico, no!» – Qui ci si accorge subito che già da bambino hai giocato a diventare inventore. E già a suo tempo non avevi in mente niente di praticabile e di utile, vero? Cosa avrebbe detto tuo padre del tuo itinerario didattico erroneo? – A suo tempo avrebbe alzato le sopracciglia. Anche oggi, solo in modo diverso… E del resto un itinerario didattico del genere andrebbe al di là del conoscere e dell’accogliere gli oggetti della natura o le forme cromatiche in un bosco: quello che si svolge tra te e la natura vale in maniera analoga per la tua vita attraverso il mondo. Il tuo cercare, trovare, perdere, girare in tondo, scambiare nella natura e tramite la natura, ha una forza simbolica. I processi naturali sono simbolici. – Non hai un’altra parola per «simbolo»? – Sì: esempio. La natura interpreta esempi. L’itinerario didattico erroneo nel bosco, le simulazioni nella natura, rappresentavano esempi, e chiari.

 

Da Peter Handke, Il grande evento, Garzanti 2016.

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