Da Dylan Dog a Non è successo niente / Sei anagrammi per Tiziano Sclavi

23 Dicembre 2017

Avanzi sciolti (anagramma di «Tiziano Sclavi»).

 

Il mio primo ricordo di Tiziano Sclavi è nebuloso. All'età che avevo, e negli anni in cui l'avevo, raramente si fa caso alle firme degli autori, anche se la mia inclinazione enigmistica avrà sicuramente notato già allora il cognome e la sua non comune composizione. Solo tanto tempo dopo ho saputo che Sclavi era nello staff del Corriere dei Ragazzi, testata insostituibile del passaggio da infanzia ad adolescenza per me e per molti miei coetanei. Ero alle medie inferiori e c'era il «Sottosopra», paginone bazar di battute nonsense di cui non ricordo quasi nulla di preciso se non il tono, invariabilmente, supremamente e istruttivamente demenziale. Il piacere di capire il senso del nonsenso, il nascente feticismo per la carta stampata, la condivisione delle battute con gli amici. Penso che venissero da «Sottosopra» certe cose che ripeto da più di quarant'anni, tipo: «Non siamo mica perfetti, ognuno ci abbiamo i suoi difetti».

 

Zio calvinista (anagramma di «Tiziano Sclavi»).

 

Poi si salta il liceo a piedi pari e sono all'università. Loretta, mia compagna di appartamento bolognese fuori sede, mi dice: ah, esce Dylan Dog. (Chissà come si era diffuso il tam-tam dell'attesa, da chi l'avesse saputo). E io le chiedo: cos'è Dylan Dog? E lei mi dice: non lo so bene, un fumetto nuovo, ne parlano tutti. E io lo compro. Devo dire che le cose da paura a me fanno effettivamente paura, ma (sarà un limite mio) all'epoca non avrei mai immaginato che quello del mistero, del soprannaturale, della ferocia subumana o oltreumana potesse essere un genere destinato a diventare, anche oltre Dylan Dog, un culto giovanile, anche oltre l'età giovanile. Mi ha dato molto da pensare, quel bilico fra normalità e orrore, acutezza e stupidità, incubo e humour, tran tran e devianza: ma non sono pensieri particolarmente significativi e memorabili. Li ho poi ritrovati quando sul «caso Dylan Dog» hanno parlato in tanti fra cui il mio professore di allora, l'Umberto Eco destinato molti anni dopo a essere omaggiato in una storia di Dylan Dog.

Si salta un altro paio di decenni e risento e rivedo Loretta. Toni alti di voce, ma quanto tempo, sei sempre uguale. Sincronizziamo un po’ di memorie e resoconti, lei mi dice: ma sai che ho ancora il primo numero di Dylan Dog, che avevi comprato tu? Quando vuoi te lo restituisco. Mi è parso invece giusto regalarglielo, cioè riconoscerle l'usucapione. 

 

Il vizio stanca (anagramma di «Tiziano Sclavi»). 

 

Quando ho rivisto Loretta me n'erano già successe un paio. Racconto la prima. Siamo negli anni Novanta e mi capitava di avere una bella libreria vicino a casa, la "Sapere" di piazza Vetra, a Milano. Faccio rifornimento, una volta a settimana. Un pomeriggio che ho scelto un po' di libri e sto andando verso la cassa vedo che sul banco lì vicino, fra le novità, c'è l’ultimo romanzo di Sclavi, Non è successo niente. Ha una strana copertina ruvida che richiama una prima pagina di giornale anche se il contenuto del titolo è l'esatto contrario di uno scoop giornalistico. Trascuro bandelle e quarte di copertina, apro alla prima pagina, leggo l'incipit, finisco la prima pagina, viene il mio turno alla cassa, pago i libri che ho preso e anche quello, esco dalla libreria e mi fermo a leggerlo sulla panchina sino a che non è proprio ora di tornare a casa. Che io ricordi, quel giorno e il successivo non ho fatto che leggerlo, con interruzioni per banalità fisiologiche come mangiare e dormire.

 

 

Appena finito, l'ho riletto subito, tanto per essere sicuro; ancora adesso, se mi capita in mano il volume e commetto l'imprudenza di aprirlo, ci finisco dentro di nuovo. È il romanzo più bello e forte – ma di gran lunga – su certi anni e su una certa Milano, che io (sia pure di poco) non ho vissuto direttamente. Erano anche gli anni della Milano della creatività e cosiddetta "da bere", e in quel romanzo se ne vede la trama rovesciata (di Milano, della creatività, e anche del bere). È come se tutto il lavoro precedente di Tiziano, la sua capacità di inventare mondi anche estremi, si fosse riversata sul mondo come è e come è stato, sino a reinventare quello: non più «reale ma fantastico», bensì «fantastico ma reale». Ecco, è difficile parlarne senza usare etichette, oltretutto sbiadite. Probabilmente risulta noioso e allora dirò che per me Non è successo niente ha funzionato come una canzone ascoltata per caso alla radio, da cui sono rimasto fulminato sino a che non l'ho imparata a memoria e ormai non posso più risentirla senza che un intero universo di sensazioni non mi avvolga di nuovo, come la prima volta.

 

Tic, salvazioni (anagramma di «Tiziano Sclavi»).

 

Che poi è un libro sulle dipendenze, sulla vita che combatte le ossessioni, sull'incomprensibilità delle traiettorie personali, sulla casualità della salvezza, sulla solitudine e sull'amore. (Cose che di lì a poco avrei trovato, in un'altra maniera, anche in David Foster Wallace). Sono i temi più importanti del contemporaneo: quelli da cui viene fuori pressoché tutto il resto (opinione mia). Intanto avevo scoperto che la biblioteca del paese in Liguria dove passavo weekend e vacanze aveva un grande fondo-Sclavi, e ho setacciato i libri non più disponibili in libreria. Gli piace anche l'enigmistica, ho dedotto. Chissà che tipo è.

 

Incalzato, svii (anagramma di «Tiziano Sclavi»).

 

E qui è successa la seconda cosa, altro che il "niente" del romanzo maggiore. Avevo conosciuto, neanche per lavoro ma per l'obliquità delle relazioni personali, Andrea Cane, che era stato l'editor di Non è successo niente, e se non ricordo male era arrivato a Tiziano Sclavi tramite Carlo Fruttero, lettore entusiasta del romanzo precedente, Le etichette delle camicie. «Vieni a cena da noi, una sera», mi aveva detto Andrea. Ci vado e ci trovo Tiziano. Conoscerlo e parlarci è stato un grande privilegio, anche se notoriamente l'ethos di Tiziano non prevede smancerie né ghiotte rievocazioni dei successi passati. Non ho provato neppure una volta a fare il giornalista, con lui; intanto io sono un giornalista per modo di dire; poi nel giornale per cui scrivo ha già almeno un amico che gli ha fatto alcune delle rare e importanti interviste degli ultimi tempi; infine, se un genio della lampada mi concedesse la soddisfazione di un desiderio da parte di Tiziano, domanderei solo («solo»!) che scrivesse un altro libro come quello. O in subordine che almeno accettasse di fare un cruciverba assieme a me.

 

Covi stanziali (anagramma di «Tiziano Sclavi»).

 

Da allora è successo ancora, di tanto in tanto: una telefonata, un appuntamento, case o locali molto riparati, chiacchiere svagate e divertenti, aneddoti che si accavallano casualmente, fra poche persone scelte. Ogni volta ho pensato di essere di fronte a un autore. L'autore, per etimologia, è uno che fa crescere: Tiziano ha fatto crescere le paure, ha fatto mettere nero su bianco gli incubi, ha fatto parlare i fantasmi della memoria e dell'immaginazione con una lingua esatta e tagliente. Una lingua e un mondo, i suoi, che un pubblico d'istinto ha riconosciuto subito come propri. 

Ho solo dei giochi, per omaggiarlo: minimi enigmi subito risolti. Mite e durissimo, trasgressivo e pudico com'è, spero che riconosca nello svolazzio casuale delle lettere un piccolo vortice allegro che vorrebbe festeggiarlo, e ringraziarlo.

 

Il testo è tratto dal recente libro Tiziano Sclavi, il narratore dell'incubo, di F. Busatta e F. Maggioni, casa editrice Bonelli.

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