Speciale

Convivere con Covid-19 / Volti, sguardi e mascherine

5 Luglio 2020

L'uso obbligatorio e normato delle mascherine, chirurgiche o autoprodotte, regalate o acquistate, “di comunità” è uno dei tratti che più colpiscono la percezione e rimarranno nell'immaginario di questi strani giorni, segnati da vissuti e situazioni tragiche o comunque sconfortevoli, perturbanti, anomale.

Sono molte le questioni che questo nuovo abito chiama in causa, anche in relazione al fatto che il suo utilizzo sembra essere destinato a durare nel tempo: la discussione sull'effettiva efficacia nella protezione e sugli effetti dell'uso prolungato sul respiro; l'essere un dispositivo di sicurezza sul lavoro e nella vita pubblica, in diverse variabili e oggetto di un nuovo expertise diffuso che riguarda i diversi modelli, il modo in cui vengono portate, applicate o abbassate nell'interazione quotidiana; gli effetti psicologici in relazione alla fiducia nella relazione e il senso di reciproco controllo nella relazione; la personalizzazione e i diversi stili delle mascherine, che possono diventare occasione di creatività personale o persino donare aura di mistero alle figure. Vorrei proporre in queste pagine un intreccio di ragionamenti sull'uso della mascherina a partire da quello che nasconde: l'effetto, consapevole o inconscio, che ha sulle persone di ogni età è quello di far emergere per contrasto la mancanza di visibilità del volto di chi la indossa.

 

Incontrare qualcuno

 

Emmanuel Lévinas – lituano, di religione ebraica, rifugiato in Francia, sopravvissuto alla persecuzione nazista – è stato un erede della tradizione fenomenologica, capace di sviluppare alcuni aspetti del pensiero heideggeriano portandolo nella dimensione etica e insistendo sull'immanenza del Dasein. In lavori come Totalità e infinito (1961) o nel saggio Il significato e il senso (1964) affronta il tema dell’alterità, di ciò che rende l’altro tale rispetto all’Io e delle modalità della relazione Io/Altro. Scrive Lévinas: «L’Altro che si manifesta nel viso sfonda, per così dire, la sua plastica essenza, come uno che aprisse la finestra sulla quale tuttavia già si disegnava la sua figura». «La sua manifestazione è un sovrappiù rispetto alla paralisi inevitabile della manifestazione. È ciò che descriviamo mediante la formula: il viso parla. […] Il viso entra nel nostro mondo avanzando da una sfera assolutamente estranea, ossia, precisamente, da un assoluto, che è poi il nome stesso dell’estraneità più profonda».

In altri termini l'io del soggetto è come sorpreso dalla presenza dell'altro, che è sempre una scoperta: Lévinas mette in relazione la «manifestazione di Altri» (Autrui in francese, come fosse nome proprio) con la sua visibilità, un «prendere luce» all’interno di un mondo. In un orizzonte storico-culturale, come un testo Altri diventa leggibile e acquista intelligibilità in virtù del contesto; d’altra parte, la manifestazione del suo viso è una «epifania», ulteriore ed eccedente rispetto alla scena da cui emerge. Altri si mostra infatti con la sua faccia: il francese visage contiene un richiamo agli occhi che rimane anche nell'italiano “viso” (e Lévinas lo connette al latino visito, viso video). Il viso, termine specifico per la specie umana, è un fenomeno diverso da altri fenomeni che si presentificano alla coscienza, «disfa» la forma in cui si presenta, la «sfonda» e se ne «sveste». Si manifesta oltre la forma che lo descrive – occhi, bocca, naso, ciglia, tratti, zigomi, fronte, orecchie – in un insieme di senso che esorbita dalla dimensione anatomica, si rende presenza «vivente» e «parla». In questo senso la felice immagine della «finestra», disegnata attraverso la quale il viso appare, evoca l'idea di un'apertura nell'apertura con un effetto di intensificazione. Il volto d’Altri sporge, rompe l'ovvietà sottintesa delle cose, scompagina l'ordine percepito come omogeneo nella totalità di ciò che appare: interrompe il quotidiano e chiede che si instauri una relazione. 

 

Da qui la significatività dello sguardo e l'intensità ad esso assegnata nei rapporti intimi, profondi o comunque importanti, che richiedono un'interazione 'faccia-a-faccia'. L’identità dell'altro si apre dunque per me attraverso il suo volto che interpella, avvicina senza annullare la distanza e consente una sospensione, temporanea, dei limiti dell'individuazione. Per Lévinas, Altri è alla fine l'«assolutamente altro» e farne esperienza è fare esperienza della trascendenza. Radicalmente diverso dal mio, il viso di Altri chiede che si assuma la responsabilità del mio rapporto con lui e nello stesso tempo introduce un dubbio nella soggettività: l’Io «perde la sua sovrana coincidenza con se stesso», «sovverte» il riferimento strutturale all'io che riporta ogni esperienza alla coscienza. 


Nudo, esposto e vulnerabile, il viso – scoperto per eccellenza e la cui copertura è dunque un'anomalia – coinvolge in una relazione etica: nella sua intimità e fragilità fonda dunque ogni postura etica. La moralità significa riconoscere la mortalità e all'interno di essa rendere chiara la dipendenza degli altri dalla cura che l'io è in grado di avere. Il viso ricorda l'imperativo “non mi uccidere” e rinvia al “peso della creazione” sulle spalle di ognuno. L’esperienza di Altri può essere anche negativa e capace di mettere in discussione l'individuo, ma è in ogni caso la condizione di una «responsabilità». Non è un caso dunque che il culmine delle forme di violenza di massa rivolta ai civili nel corso del Novecento – Auschwitz e Hiroshima – come evidenziato dalla filosofia del secondo Novecento sia stato tendenzialmente agevolato e reso possibile da un “raffreddamento” della violenza estrema e ravvicinata, dalla sua delega a sistemi di disumanizzazione e messa a distanza, posta intenzionalmente e programmaticamente tra il carnefice e la vittima con la riduzione al minimo del contatto visivo. 

 

Ph Dario Marzi.


Mettere la faccia

 

Nel 1996 in Mezzi senza fine, con una sintesi eclettica che richiama il pensiero di Lévinas, Benjamin e Arendt, il filosofo italiano Giorgio Agamben ha dedicato al tema di Il volto una riflessione politica. «L’esposizione – scrive – è il luogo della politica. Se non vi è, forse, una politica animale, ciò è soltanto perché gli animali, che sono già sempre nell’aperto, non cercano di appropriarsi della loro esposizione, dimorano semplicemente in essa senza curarsene». L'essere umano «volendo riconoscersi – cioè appropriarsi della sua stessa apparenza – [...] trasforma l’aperto in un mondo» e lo pone nella dimensione storica. Fedele all'ontologia del presente di matrice foucaultiana che ha sviluppato nella biopolitica (per le sue posizioni più recenti vedi qui), Agamben coglieva poi – siamo a metà degli anni Novanta – l'occasione per mettere il volto e la sua esposizione al centro di una riflessione sui media: «Politici, mediocrati e pubblicitari hanno compreso il carattere insostanziale del volto e della comunità che esso apre e lo trasformano in un segreto miserabile di cui si tratta di assicurarsi a ogni costo il controllo». Concludendo che molto del potere statuale nel contemporaneo sia fondato «sul controllo dell’apparenza (della doxa)». Per Agamben «il mio volto è il mio fuori», «e solo dove trovo un volto, un fuori mi avviene, incontro un’esteriorità»; è in qualche modo la superficie di scambio e di esposizione – la duplice soglia – da un lato verso il soggetto e dall'altro verso la sfera pubblica.

 

Insieme allo spostamento verso il politico e in rapporto con spinte post-strutturaliste e post-umane, in quel saggio Agamben distingueva viso da volto: un volto può essere assunto anche da «un oggetto inanimato», «una natura morta», perfino la Terra, «trasformata in deserto dalla cieca volontà degli uomini», assume un volto. Da un punto di vista neuroscientifico riconoscere volti sembra essere un tratto cognitivo fondato sull'evoluzione umana, fondamentale fin dalla più tenera età: la pareidolia è il fenomeno che permette di “riconoscere” forme note in figure grafiche casuali e in particolare vedere 'facce in cose', senza correlazioni con l'oggetto e il contesto.

Carl Sagan in The Demon-Haunted World (1995) teorizzava che questa visionarietà sia un vantaggio evolutivo, una capacità di riconoscere altri, attraverso loro i volti (noti o ignoti), anche in condizioni di povertà visiva. «Non appena il bambino può vedere, riconosce i volti e ora sappiamo che questa abilità è cablata nei nostri cervelli. Quei bambini che un milione di anni fa non erano in grado di riconoscere un volto sorridendo di meno, avevano meno probabilità di conquistare il cuore dei loro genitori e meno probabilità di prosperare».

Tale fenomeno coinvolge anche i processi di coevoluzione e di adattamento reciproco interspecifico, considerato che fenomeni di evoluzione legati all'espressività e alla comunicazione sembrano riguardare anche i cani.

Da qui anche il trasferimento e l'attribuzione di tratti personali e intenzionalità a oggetti che presentino tratti simili a occhi, naso e bocca, con un fenomeno noto in psicologia. Gli stessi figmenti prodotti dell'immaginazione che consentivano a Plutarco di vedere un volto umano nella Luna, dandogli uno straordinario pretesto per un periplo metafisico-scientifico, permettono ancora oggi di riconoscere facce negli oggetti della vita quotidiane, attribuire caratteri alle macchine o di riconoscere 'fantasmi' e apparizioni sacre nelle macchie di umidità che affiorano da un muro.

 

Il segreto e l'orrore

 

La scomparsa del viso dietro la mascherina dà vita a un volto diverso che coincide con la maschera stessa. La mascheratura e la velatura, e quindi lo smascheramento e lo svelamento, sono fortemente intrecciate con la metaforica della verità. In una lunga tradizione greco-tedesca la figura femminile velata è il simbolo di un segreto che si cela dietro una mascheratura, la quale spinge qualcuno a cercare di “scoprirne” la verità, per poi spesso dover riconoscere che il vero si manifesta in una rivelazione, ovvero una nuova velatura.

Jan Assmann, in La morte come tema culturale, parla di un fraintendimento sorto da un problema di traduzione che ha avuto significativi esiti nella storia degli effetti: il velo di Iside a Sais, su cui si è costruita la metaforica dello svelamento della verità, andrebbe riportato a un diverso significato; all'origine di tante letture e risignificazioni sta infatti l'iscrizione sulla statua di Iside a Sais che Plutarco rende in greco nel modo seguente: «Io sono tutto ciò che era, è e sarà/e nessun mortale ha mai scostato la mia veste (peplo)». Il senso letterale della parte conclusiva della frase, nel contesto egizio, sarebbe invece da rendere come segue: «le cui fasce da mummia non vengono sciolte». La mummificazione era infatti la garanzia dell'immortalità (secondo il modello mitico rappresentato da Osiride) e la divinità di Sais era Neith, nel cui tempio si tessevano le bende per la fasciatura. Plutarco la reinterpreta come una manifestazione di Iside e la associa ad Atena, per via del rapporto con la tessitura e del rito associato che prevede la donazione di una veste femminile. La verità dunque sarebbe diventata una donna velata in virtù di un referente storico, il rito della mummificazione con le annesse credenze, frainteso già all'epoca e perduto nei passaggi successivi. Le bende diventano un peplo, il portare il velo l'avere un segreto: un telo, da desiderare di sollevare e su cui proiettare qualsivoglia verità, altrimenti inaccessibile.

 

La copertura di un volto può cancellare dunque i tratti e fare emergere l'enigma, ma permette anche che possano emergere nuovi tratti mostruosi e non umani: in Germania segreta (1967) Furio Jesi, che si rifaceva alla teoria della reversione mitica di Propp, ha messo in luce la persistenza di immagini nel tempo, risemantizzate dal contesto, come quelle che l'espressionismo tedesco usava consapevolmente, in particolare come «emblemi della mitologia viziata, propria dei reduci» della Grande guerra. Il pittore Max Beckmann «ha il volto deformato dagli occhiali della maschera antigas che egli porta sempre, non possedendone più altri», scrive Jesi, così come ne Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus «compaiono, infatti, personaggi denominati soltanto “Una maschera antigas maschile” o “Una maschera antigas femminile”, i quali dicono: “Non abbiamo diritto a viso e sesso. La vita scorre fra cadaveri e larve...”». 

Ancora in Spartakus, testo dello stesso periodo, il tema ritorna: nella pubblicistica post-bellica la maschera antigas si conferma una immagine dominante che si sovrappone al teschio e diventa tratto diffuso. Un segno più presentabile, per una manifestazione estetica, delle gueules cassées, meno osceno ma collegabile alle immagini di devastazione dei corpi censurate nella rappresentazione ufficiale e che si ritrovano molto raramente, come mostra Krieg dem Kriege (1924), il libro antimilitarista di denuncia visuale pubblicato da Ernst Friedrich, spartachista e anarco-sincalista militante.

 

Scrive dunque Jesi che «da Kraus a Borchert – dunque fino al secondo do­poguerra – è sintomatico l’orrore degli uomini “senza volto”, delle maschere antigas ambulanti»: «le circostanze della guerra di trincea che imponeva ai sol­dati lunghe permanenze in un quadro particolarmente orrido e disu­mano, il tipo di armi impiegato [...], il fuoco che giunge da ogni direzio­ne, compreso il cielo, i gas che aggrediscono come mai era avvenuto e impongono la “perdita del volto” a chi è costretto a difendersene con le maschere, inducevano tutti a vedersi collocati in una guerra contro i “mostri”, diversa dalle pur raccapriccianti guerre del passato: diversa, insomma, dalle “guerre fra uomini”».

Jesi connette la scomparsa del volto nel Novecento con la guerra e la violenza, nelle diverse accezioni del termine Gewalt: nel Novecento mascherare il volto, fino al presente, potrà significare l'assunzione programmatica di identità diverse, anche plurime e anonime, anche per motivi di sicurezza e per sottrarsi alle identificazioni durante le manifestazioni di protesta e le aspirazioni al riscatto e alla rivoluzione. I manifestanti che si difendono dai lacrimogeni durante i riots si contrappongono al volto anonimo della “forza legittima” che si manifesta con i caschi di protezione delle forze di sicurezza, sempre più simili agli Stoormtrooper di Star wars (senza volto) o ai vari cloni di Robocop visti nella repressione delle rivolte di questi anni.

 

Abbassare lo sguardo e nascondersi allo sguardo

 

In numerosi scritti tra il 1901 e il 1908 (Il significato estetico del volto, Sulla psicologia del pudore, Le metropoli e la vita dello spirito, Excursus sulla sociologia dei sensi, Sociologia) Georg Simmel, uno dei pensatori sociali più lucidi del Novecento, ha chiaramente espresso come il volto nella storia culturale europea esprima l'individualità, a sua volta identificabile con gli occhi. La vista offre nella distanza la «prestazione sociologica» che connette gli individui e presiede all'azione reciproca del «guardarsi l’un l’altro». Lo sguardo instaura una relazione di reciprocità: percepire l'altro è al tempo stesso esprimere sé; il proprio manifestarsi coincide con la possibilità della ricezione: «non si può prendere con l'occhio senza dare contemporaneamente». La città, in modo specifico la metropoli moderna, è il luogo sociale della visibilità caratterizzata da un caleidoscopico trionfo delle immagini. Nei luoghi pubblici della sociabilità di massa – caffè, viali, mezzi pubblici, negozi, gallerie – e sotto il segno di una «intensificazione della vita nervosa», lo sguardo è cruciale: «il rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori» e l’«accumularsi veloce delle immagini cangianti» aumentano il «contrasto brusco che si avverte entro ciò che si abbraccia in uno sguardo».

Erving Goffman, che non a caso ha elaborato una significativa riflessione sui concetti di Face e di Frame, nel 1963 ha dedicato il saggio su Il comportamento in pubblico al linguaggio comunicativo e rituale dell'interazione sociale nei luoghi di riunione. Il geniale sociologo canadese riprendeva il tema simmeliano della disattenzione civile, esaminando la tendenza a ignorarsi per strada e non incrociare gli sguardi o distoglierli: atti sociali che sono un prodotto specifico del contesto urbano moderno e delle aree ad alta densità di persone. A spiegare il motivo dello sguardo che si arrende vi è da un lato il senso del pudore e l’imbarazzo dell'interazione – con variabili a seconda dello status e del ruolo dei soggetti che coinvolge –, tanto nello scambio quanto nella potenziale relazione che potrebbe seguire dal contatto visivo: «l’abbassarsi del mio sguardo toglie all’altro qualcosa della possibilità di osservarmi» (Simmel) e può evitare che qualcuno veda qualcosa di me in eccesso rispetto alla mia disponibilità di offrirmi al suo sguardo.

 

In giorni di esibizione e di messa in scena di sé nelle cornici digitali dell'onlife e di nascondimenti dietro le mascherine negli spazi soggetti a distanziamento fisico, lo sguardo è più che mai un reciproco accesso all'interiorità, che può farsi violazione e invasione da parte dello sguardo altrui: l'economia dello sguardo e dell'attenzione diventerà sempre più cruciale e si diversificherà nei vari contesti. Negarsi alla vista e negare il proprio sguardo è un messaggio chiaro di distanziamento, può essere una reazione a un percepito eccesso di visibilità e vulnerabilità, una sovraesposizione per chi ha vissuto con maggior intensità il proprio rifugio domestico. Nulla di strano se in tempi difficili e di emergenza come questi qualcuno possa sentirsi protetto e confortato dalle mascherine, aumentando la difesa del sé sociale con una copertura aggiuntiva del volto. La mascherina è infatti addizionale rispetto alle varie 'maschere sociali' che sempre portiamo o che ci siamo lasciati imporre nei diversi ruoli che interpretiamo nelle nostre vite. Il punto è, per riprendere Simmel, che, per chi sappia leggere queste dinamiche vale comunque l'assunto per cui «al primo sguardo che rivolgiamo a qualcuno, noi sappiamo con chi abbiamo a che fare». O riformulato, What you see it's what you get.

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