Global Sumud Flotilla 7. Poi?
1 ottobre, notte: dentro la zona arancio
Siamo 45 imbarcazioni. Scesa la notte, salita la luna, meno buio di altre notti, ci vediamo in faccia, seduti nel pozzetto con i giubbotti di salvataggio e la determinazione del momento in cui cosa deve succedere succederà. Dodici imbarcazioni della marina israeliana si avvicinano, ma il radar ne conta venti. Quelle che ci hanno accompagnato, le fregate italiana spagnola e turca si sono fermate a 150nm da Gaza. Siamo in live streaming su youtube dalla telecamera di sicurezza, internet viene e va, quando viene si accende la spia e Sil vi dà il benvenuto su Radio Wahoo! Da tutto il mondo ci guardate e da tutto il mondo ci arrivano richieste di canzoni e noi ve le mettiamo. Così soli, così connessi.

Una dopo l’altra vengono intercettate le nostre navi ammiraglie ma un’altra prende subito il posto. Alla Wahoo viene chiesto di essere la prossima. Dobbiamo accettare, anche se vorrà dire che saremo i prossimi a venire fermati, non arrivare a Gaza. Accettiamo, ma l’ammiraglia presente non si fa bloccare. Le barche militari israeliane compaiono dal nulla, sagome nere, puntano il faro sugli equipaggi con le nostre mani alzate, poi fanno rapidi cerchi attorno alle nostre barche, il mare diventa bianco di schiuma e schiuma di onde. Iniziano a usare i cannoni ad acqua. Non a idrante teso, ma con una parabola, tanta acqua di mare sparata addosso se i boccaportelli fossero rimasti aperti potrebbero affondarci. Bagnati fradici per tutta la notte. I numeri degli avvocati palestinesi scritti sulle braccia, unico potenziale contatto col mondo una volta arrestati, sono già lavati via.
Nuova strategia, stringono la decina di barche all’avanguardia della flotilla, ci spingono gli uni contro gli altri: quante volte i capitani avevano ripetuto che è impossibile navigare in flotilla a pochi metri gli uni dagli altri. Navighiamo per un miglio in formazione perfetta a pochi metri gli uni dagli altri. Una fitta nel corpo per questa bellezza. Di gratitudine per i nostri capitani che gestiscono la navigazione a voce, lontani dal timone, per non farsi riconoscere come capitani e subire ripercussioni peggiori. C’è Frances al timone, è impeccabile, ma è come se Hamish parlasse alla Wahoo e la Wahoo rispondesse. Hamish parla alla Wahoo e la Wahoo risponde. È il momento in cui le promesse vengono mantenute. Cercano di farci sbattere gli uni contro gli altri, ma la formazione resiste a lungo, e cercano di spingerci verso acque egiziane, siamo così a sud. Poi non reggiamo più, la Wahoo schizza in avanti. È separata dagli altri dalla nave madre della marina israeliana, gigante, velocissima, e senza un essere umano in vista sul lunghissimo ponte e le sue strutture di ferro.

Poi un essere umano, sulla sua torre di ferro. Lo vediamo perché emette una luce verde, quella che passa dal mio cuore alla mia fronte. Ogni tanto attraversa l’occhio. I compagni mi diranno che hanno pregato per me in quel momento. È il mirino del cecchino. Cercano di farci andare a sbattere contro il metallo della nave madre. Come l’ululato del lupo, paralizza e sussurra una resa. Ma a 2-3 metri dall’impatto sgusciamo via. Verso nord, verso nord. Siamo soli. I pochi contatti con ground control ci intimano di tornare in formazione, noi cerchiamo di aggirare il blocco navale da cui siamo sfuggiti calando da nord verso Gaza. So che il mio amico Qasem guarda queste stelle dallo stesso angolo. So che si preoccupa per me, mondo alla rovescia, so che nemmeno lui credeva alla nostra promessa come so che in questo momento ci crediamo entrambi.
2 ottobre, prime luci dell’alba: intercettazione
Torniamo verso Gaza veloci e bui. Torniamo a crederci. Il momento della promessa. A est, verso Gaza, verso Qasem, striature di luce sul buio del mare. Poi di nuovo la nave madre, con tutte le sue luci cimiteriali, dal niente è accanto a noi. Questa volta usa il cannone a acqua. Dieci, venti minuti di inondazione, come sa di sale l’acqua altrui. Fradici, ripartiamo. La chiamata, la risposta. Poi una delle navi nere fantasma. Col megafono ci intimano di non reagire e nessuno si sarebbe fatto male. Ed ecco il segno che tutto finisce qui, si avvicina il gommone Zodiac con a bordo i soldati. Aspetto fino all’ultimo per lanciare in acqua il mio telefono, l’ultimo che ci era rimasto. Arrivano alla Wahoo. Il mio capitano sorride con i suoi occhi di mare dolce, “Vanni, it’s your time to shine”. Tratto coi soldati: non c’è nessun capitano a bordo, sono io il responsabile della barca. Consegno le radio di bordo e il garmin satellitare ma mento sulla telecamera chissà che riesca ancora a trasmettere. Ci ammanettano, mettono sottocoperta e conducono la Wahoo verso il porto di Ashdod. Dovrebbe essere il corpo d’élite Shayetet 13 ma sono giovani, non sanno navigare. Hamish è inquieto, non per noi, per la barca, devo andare a chiedere ai militari di trattare meglio il motore. Dialogo surreale, il messaggio non passa. La differenza per la Wahoo è dall’amore allo stupro. Ma è solo una barca, solo una barca.

Al porto di Ashdod cambia la musica. Addio Radio Wahoo. Trascinati con violenza, le braccia alzate di peso dietro la schiena, fino a un cortile, messi in ginocchio. Non possiamo alzare la testa, lo sguardo, sarà che si vergognano di qualcosa? Alcuni di noi costretti a stare faccia a terra per ore. Ogni volta che qualcuno vuole darci uno schiaffo o spingerci la testa verso il basso, lo fa. Niente acqua, per andare in bagno insulti e aspettare almeno mezz’ora. Ore in quel cortile, il sole del deserto. Quando sono venuti a filmare ci hanno detto che faceva caldo e dovevamo bere acqua — hanno distribuito bottiglie solo quella volta. Greta Thunberg e David Adler, ebreo americano, sono stati messi da parte con la bandiera israeliana che gli sbatteva in faccia. Dopo un paio d’ore ci hanno spostati in un altro cortile, davanti agli edifici del porto. Stessa storia, altre due ore. Faccia a terra, in ginocchio o seduto per un po’ se eri fortunato. Insulti, percosse. La violenza vera e propria solo se reagivi. Ben Gvir ha fatto la sua sceneggiata a questo punto.

Dopo quelle due ore, ci hanno portati all’interno. Ognuno con una guardia IOF accanto. Prima tappa: perquisizione. Ci hanno tolto tutto, medicine comprese — anche quelle per malattie croniche e letali. Poi uno scanner. Poi hanno provato a farci firmare dei documenti in ebraico. Un’altra fila, siamo potuti andare in bagno. E la fila per gli avvocati di Adalah, abbiamo avuto un paio di minuti con un avvocato, cosa firmare cosa non firmare, tanto in realtà non ha fatto differenza. Ammanettati di nuovo, un altro controllo, non so nemmeno per cosa, e poi su un autobus militare di metallo per una trentina di persone, con una piccola gabbia in fondo, lì ci siamo rimasti a sudare per due ore, un racconto di Ghassan Kanafani parla di questa cosa ma lì ci muoiono, le nostre sofferenze sono sempre insulse rispetto a quelle dei palestinesi. Anche quel libro requisito dall’IOF, insieme a tutte le nostre cose. Quando il bus finalmente si è mosso hanno messo l’aria condizionata al massimo e via. Prigione di massima sicurezza, per terroristi, edifici prefabbricati di cemento, lunghi un paio di centinaia di metri e larghi dieci. Ci sono celle esterne di metallo, lì ci hanno messi all’inizio, chiamandoci uno per uno per spogliarci completamente, portarci via i vestiti, farci una foto, insultarci, nessuna medicina né acqua. Poi ci hanno rinchiusi nelle celle.
3 ottobre: in prigione nel deserto del Negev
Celle di circa quattro metri per tre, letti a castello, materasso e coperta. A volte bastavano per il numero di prigionieri, a volte no, materassi condivisi, senza logica apparente nella distribuzione dei prigionieri. L’assenza di senso crea un altro tipo di preoccupazione. Niente cibo per tutto il primo giorno, tanto facevamo lo sciopero della fame. Chiedendo acqua abbiamo capito che ogni cosa che chiedi verrà usata contro di te: “arriva presto”, dicevano, 40 ore senza acqua per poi dirci di bere dal rubinetto del bagno. Siamo nel deserto, serbatoi con acqua stagnante. La diarrea subito o l’epatite A dopo. Il peggio sono le emergenze mediche, obbligati a battere contro le inferriate per ore prima che le persone con diabete, asma, pressione alta o altro ricevessero il minimo aiuto.
Urla continue, spostamenti continui da una cella all’altra, momenti di aggressione improvvisa, la porta che si apre nel mezzo della notte, cecchini con laser puntati su di noi, cani, fucili di vario calibro, solo per farci alzare e poi tornare a sdraiarci. Ti chiamano, ti spostano, ti rinchiudono, ma non sanno chi è in quale cella. Sai di essere in mano a gente che non sa quello che fa, di un’ignoranza palpabile, educati alla violenza e alla bestialità. Naturalmente, neanche l’ombra di una telefonata a un avvocato, tutto alla faccia della Convenzione di Vienna, quel minimo che i nostri governi ci avevano “promesso” (il diritto internazionale non è una questione di promesse ma di doveri). Io questa fase l’ho vissuta dormendo: per la prima volta ho fatto un passo indietro, a malincuore perché era forte complottare cantare e gridare in prigione, ma il mio corpo si è imposto, dopo le settimane anchilosato nella barca, dopo le molte ore in ginocchio, che ha accettato senza rimostranze a parte qualche bagno nel mare, ora si è imposto. Dormi. Dormo. Cosa salvifica per lasciare la Turchia in seguito. E fenomeno speciale anche sul momento, a ripensarci, eravamo come un ecosistema, un wahoo-wide-web, in barca e in prigione, ognuno i suoi momenti per luccicare e per spegnersi.

4 ottobre: aeroporti
Ci hanno attaccati in mare per Yom Kippur (giorno più sacro, dell’autocritica e del pentimento) e di Shabbat ci hanno tirati fuori dal carcere. Una parte della delegazione svizzera, gente dal Regno Unito, dall’Italia. Stessi autobus, stavolta senza tortura termica. Tre giorni senza mangiare bevendo solo quell’acqua dei serbatoi. Un paio d’ore di viaggio, un paio di eternità, sempre più a sud, nel deserto del Negev. Siamo arrivati nello strano aeroporto di Ramon, nuovo e visibilmente abbandonato da tempo. Niente passaporti, ovviamente, niente di niente. Tuta da prigione israeliana. Ci hanno caricati sull’aereo della Turkish Airlines. Servizio business class. I passaporti sono stati restituiti a metà volo. Arrivati a Istambul ci hanno dato dei vestiti, e la più calorosa delle accoglienze. Sul tarmac ho chiesto una sigaretta: il turco mi dice che lì non si può fumare, mi porta nel bus e mi caccia la sigaretta. In un attimo siamo dentro in cento a fumare. Alla cerimonia di benvenuto ho parlato con una parlamentare turca a cui ho chiesto di pagarci hotel e voli, per 10 svizzeri, e l’ha fatto, console e viceconsole svizzeri non hanno neanche capito cosa succedeva. Quando gli ho chiesto almeno i soldi per le spese vive, ci hanno dato 40 Franchi a testa, ne dovremo restituire 60 per via di una tassa.
5 ottobre: Svizzera
Fino all’arrivo in Svizzera non sappiamo chi è ancora in prigione. Non sappiamo se le nostre famiglie sanno che noi siamo fuori. Continuo gioco di supposizioni. Ovviamente è un gioco diverso da quello di prima. Labirinto. Gatto col topo. Il giudice e il suo boia. Siamo arrivati a Ginevra, cittadina delle convenzioni. E poi vi abbiamo incontrato. Pensare ai compagni in prigione è un dolore che non conoscevo. E, per dirla tutta, è pensare a voi della Wahoo. Famiglia. Veterani. Di più, un arto tagliato, arto fantasma lontano in carcere. Mi spezza la voce mi spezza il petto appena penso a voi. Ci vorrà ancora un giorno, due giorni perché siate tutti liberi. Poi il 7 ottobre. Poi?
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