Mike Kelley ad Amsterdam

11 Marzo 2013

L’opera si chiama Day is done. È una video installazione complessa, con molti punti focali, costituita perlopiù da fotografie tratte da annuari scolastici e giornali locali. Catalogate da Kelley, queste immagini vengono rielaborate, diventano racconto di vita americana ma anche teatrino dell’umiliazione a cui possiamo essere sottoposti tutte le volte che ci esponiamo al rischio di svolgere delle attività socialmente accettate. All’entrata, un video ci mostra un bambino biondo che durante la recita di Natale dimentica la sua parte; rischia di piangere, però non piange. Alle sue spalle un video mostra un ragazzo brutalizzato da alcuni coetanei; un uomo vestito da diavolo urla; dall’altra parte della stanza fa mostra di sé un palcoscenico messo su alla buona, e proprio al centro di questa galleria dell’oscurità, su un ripiano, c’è una culla, e dentro la culla c’è un bambinello nero carbonizzato, e sul legno della culla è inciso il nome: Kelley.

 

 

Ho scoperto per caso, arrivando in una Amsterdam coperta dalla neve, che lo Stedelijk Museum, da poco ristrutturato, ospita fino al 1 marzo la più ampia retrospettiva mai realizzata delle opere di Mike Kelley, nato a Detroit, vissuto a Los Angeles, morto in circostanze tragiche nel 2012. Duecento opere che documentano 35 anni di carriera spesa ad esplorare ogni possibile mezzo espressivo – dai disegni alla scultura alla performance alla musica al video alla fotografia alla pittura – toccando questioni come la natura del nostro desiderio, le strutture dell’autorità, il ruolo della cultura popolare, la repressione della memoria (la RMS, Repressed Memory Syndrome, la memoria nascosta del trauma, di cui Day is done è uno dei momenti fondanti).

 

Nella stanza accanto tre schermi mostrano, a intervalli regolari scanditi da un allegro ticchettio, bambini che si fanno male, che cadono, che si picchiano, che vengono picchiati (ritratto dell’artista come piccolo abusato): i bambini presenti non battono ciglio, i genitori sì, e li trascinano via. Giovani studentesse di arte scelgono come spunto per i loro schizzi la nota vena scatologica di Kelley, le ragazze si accalcano a guardare da vicino gli imponenti tableaux di Memory Ware, con riferimento a un genere d’arte popolare canadese in cui oggetti quotidiani vengono decorati con piccoli oggetti trovati. Qui, ad essere raccolti in questi luccicanti mosaici di residui del nostro desiderio sono piccoli esemplari di bigiotteria, spille, bottoni, scarti di magazzino o di negozi dell’usato, fino a formare un compiuto inventario dei nostri gusti del passato, e quindi dei suoi consumi.

 

Memory Ware

 

Quello che colpisce sia in Memory Ware che nel patchwork infantile di More love hours than can ever be repaid, è proprio questo meccanismo che spinge l’artista a cercare senso negli oggetti abbandonati e negli scarti dei giochi consumistici. Il titolo si riferisce proprio a questo: alla fatica che ci è voluta per fabbricare questi giocattoli, alle ore passate a metterli insieme. Forse proprio per questo, More love hours ha l’imponenza delle tele rinascimentali nel raccontare non solo la fatica del lavoro non industriale, ma anche l’innocenza che abbiamo perso, e i ricordi che abbiamo lasciato per strada, in momenti non ricordabili e per ragioni non dicibili, e di cui questi teatrini della crudeltà infantile sono la terribile messa in scena.

 

More love hours than can ever be repaid

 

La violenza di reenactment degli incubi è tutta all’opera in Educational Complex, un modellino architettonico che contiene piccole versioni delle istituzioni scolastiche frequentate da Kelley durante la sua vita, e crea un’aura da fiaba nera in Kandor 2B, parte del progetto Kandor, opera-mondo sull’immaginaria città di Superman, e, quindi, sui nostri altrove. La crudeltà del passato, nel passare in rassegna le opere di Kelley, e persino se le si guarda con sguardo distratto, appare comunque intollerabile, urlante, non medicabile. Si vedano i ritratti di Ah…Youth!, in cui il volto dell’artista da giovane diventa pupazzo tra i pupazzi. E i pupazzi, si sa, non sono mai artefici del loro destino.

 

Ah…Youth!

 

Al centro di Black Out, installazione che celebrava i 300 anni della città di Detroit, c’è la statua dell’eroe del luogo, l’astronauta John Glenn, e la scultura è totalmente ricoperta da pezzi di ceramica, vetro e altri resti colorati rinvenuti nel fiume Detroit, seguendo lo stesso procedimento di valorizzazione dei débris già sperimentato in Memory Ware. Nella stessa stanza, le 26 fotografie di Photo Show Portrays the Familiar aprono uno squarcio di felice estraniazione rispetto al luogo d’origine, ma quello che – forse – ci vogliono dire le geometrie sovrapposte di Infinite Expansion è che il caos può essere guardato in due direzioni, e al suo centro, se ignoriamo le linee circostanti che rischiano di distrarci, c’è sempre una casa. Nell’altra direzione, invece, c’è un movimento infinito che porta molto, molto lontano.

 

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