Modernità malintesa

19 Giugno 2023

L’Era Primaria dell’Industria è finita qualche decennio fa, dopo una cavalcata centenaria, turbinosa, creativa e guerreggiante – molto guerreggiante. Come dice Giuseppe Lupo nell’introduzione al suo ultimo libro, restano del Novecento industriale e dei suoi conflitti, eco, riflessi, tic e ideologismi. Una buona ragione per cercare di capire come e perché da noi una parte delle classi dirigenti abbiano giudicato con diffidenza l’industria, cioè uno degli strumenti che cercavano di migliorare l’esistenza delle persone, le condizioni materiali e la partecipazione alla vita della comunità. 

L’oggetto dello studio è circoscritto a uno specifico pezzo di queste classi dirigenti: intellettuali letterati, scrittori e poeti. Da Primo Levi a Giovanni Testori, Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Pier Paolo Pasolini, Tommaso Di Ciaula, protagonisti di una relazione tra industria e cultura che titolo e sottotitolo riassumono così: Modernità malintesa, una controstoria dell’industria italiana. In 350 pagine che riflettono su alcune caratteristiche e attitudini delle nostre élite intellettuali, convivono intrecciate molte questioni. In questo articolo si prova a isolarne tre.   

La prima riguarda l’atteggiamento di una parte della classe dirigente letteraria rispetto alla cultura industriale e al suo significato. Alla fine degli anni dieci, si era irrobustita una diffidenza diffusa e radicale nei confronti del sistema capitalistico industriale: la dottrina marxista, le conseguenze della prima guerra mondiale e un crescente sospetto per il gigante americano che cominciava a profilarsi a Occidente. Tutti elementi oppositivi, a cui se ne aggiungeva uno più specificatamente italiano. Una specie di nostalgia contadina, naturista, russeauiana che influenzò gli scrittori, quelli che hanno scritto di industria, e più in generale una porzione del ceto intellettuale. Nonostante l’anticomunismo militante e la vicinanza con esponenti dell’establishment politico americano, l’unico industriale che non subirà il pregiudizio anticapitalista è Adriano Olivetti, cioè l’unico che avvolge la sua funzione di magnate che produce utili, posti di lavoro e reddito personale in un intelligente e peraltro sincero packaging di intenzioni socialiste e umanistiche: il senso della comunità, il ruolo paternalistico della leadership, l’importanza identitaria degli investimenti sociali che fu particolarmente suggestivo per esempio nel rapporto con i grandi architetti e nella valorizzazione dei luoghi in cui agisce l’impresa. Lupo cita un aneddoto indicativo. Quando Olivetti con un gioco d’azzardo acquisisce la concorrente americana Underwood in una delle iniziative più avvincenti – e spericolate, come si scoprirà poi – del capitalismo italiano (per un simile brivido bisognerà aspettare trent’anni con De Benedetti e la scalata fallita a Société Générale du Belgique), Italo Calvino esprime un giudizio molto ruvido su una frase pronunciata da Antonio Segni a quel tempo Presidente del Consiglio, frase apparentemente anti-olivettiana. 

In generale – spiega benissimo Lupo – sul modo degli scrittori di industria di guardare l’oggetto del loro racconto insistette un radicato antimodernismo. È la malinconia del viale dove sorgono le fabbriche dipinto da Mario Sironi in Periferia. La cosa interessante, dice ancora Lupo, è che questa diffidenza permane nel racconto letterario successivo, si attualizza ai nuovi tempi, e ancora negli anni 2000 una generazione di giovani autori (per esempio Argentina, Avallone, Falco, Murgia, Valenti, Zagaria) continua a muoversi a ridosso dell’ideologismo. Per la verità, lo spaesamento rispetto al moderno sarebbe una suggestione da analizzare come carattere generale delle nostre élite. Non sono solo i romanzieri a essere poco interessati alle questioni poste dal progresso tecnologico e scientifico. Ma questo è un altro discorso.    

Tornando ai letterati novecenteschi protagonisti del libro, in contrapposizione al regime di sospetto anti-industrialista, c’è un altro tipo di atteggiamento – propositivo – che sviluppa un secondo filone, quello del rapporto operativo tra la cultura letteraria italiana e il mondo delle imprese. È un pezzo interessante della storia italiana. Per Lupo l’esperienza chiave per definire questo fenomeno è la fondazione di Civiltà delle Macchine, house organ di Finmeccanica, promossa dal genio manageriale di Giuseppe Luraghi – il quale pur con meno pubblici riconoscimenti e consenso fu influente almeno quanto Olivetti nella costruzione di una moderna cultura nazionale dell’industrialismo – e diretta da Leonardo Sinisgalli, una delle figure più scoppiettanti ed eclettiche del dopoguerra italiano: poeta, ingegnere, appassionato di matematica, scrittore – non romanziere – e fondatore dell’apparato pubblicitario del nostro asset industriale: è suo lo slogan “Camminate Pirelli”, è lui a scegliere il nome del Duetto per l’Alfa spider, è lui a suggerire dei divertenti pay-off letterari (“Tenera e la notte”, “Le stelle vi guardano”) per le campagne di lenzuola e altra biancheria da letto della ditta Bassetti. Lupo, lo studioso italiano che meglio conosce Sinisgalli, cita molte delle cose più simboliche dello scrittore lucano, dal frammento “Queste stupide macchine”, alla poesia Narni-Amelia scalo, fino alle lettere editoriali che aprono i numeri della rivista trimestrale, la prima firmata da Ungaretti. Civiltà delle Macchine umanizza la disputa sull’industrialismo, la smonta, la spinge in una direzione nuova, non conflittuale. Macchine e uomini devono convivere, nessuna paura, nessuna forma di millenarismo. Le macchine sono utili e sono nostre, domestiche, affidabili, trasformative.

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La rivista ha uno spirito di propaganda dolce, di militanza, di culturalizzazione. Scrive Emilio Tadini nel numero di settembre-ottobre 1956: “una macchina ferma è una specie di bestia tanto sconosciuta da sembrare ottusa. Ma appena una macchina comincia a lavorare essa perde quella greve, innaturale, e inconcepibile autonomia. Ridiventa quello che è, un prolungamento, una proiezione centuplicata del dito, del tendine, della leva del braccio”. A parte l’enfasi che oggi non ci stupiremmo di trovare pari pari in qualche entusiastico resoconto delle funzioni di un robot-pizzaiolo o delle meraviglie di un visore immersivo in un esperimento metaversico, ecco un’attitudine positivista, ottimista e generosa. Sinisgalli ne sarà l’inventore. E questa sensibilità troverà molte imitazioni e propaggini. Le riviste d’impresa italiane diventano un luogo di dibattito in uno schema preso di peso dal sinisgallismo. L’Eni affida al poeta Attilio Bertolucci il Gatto Selvatico, Italsider – erede dell’Ilva del grande Oscar Sinigaglia – affida Rivista Italsider a un altro poeta e artista Eugenio Carmi. Poeti, architetti, sociologi, semiologi, pittori, artisti, un nucleo di intellettuali di diversa estrazione culturale milita dalla parte dell’industria, spinge per il progresso delle condizioni di vita che la fabbrica garantisce a chi lavora. 

Sì, forse si perde il rapporto primordiale con la natura contadina, si scoprono gli spazi ibridi e dunque tristi delle periferie, si entra nell’isolamento metropolitano ma migliorano gli standard materiali: età media, scolarità, benessere alimentare, progresso sanitario, dimensione welfaristica, prospettive per le generazioni future. È una relazione nuova questa tra capitale e cultura, non sconosciuta nella storia della committenza, ma adattata alle condizioni del secolo breve e accelerato. Ancora oggi i sempre meno numerosi protagonisti superstiti di quella stagione – l’intervallo tra gli anni ‘50 e i ‘70 – rimpiangono quel modello di partecipazione. Delle riviste di quel tempo nessuna è sopravvissuta, solo una è stata rifondata, Civiltà delle Macchine (qui lo scrivente dichiara un piccolo conflitto d’interessi). Esiste ancora un ruolo delle imprese nella vita culturale del paese? E in che modo si è evoluto? Domande che questo libro aiuta a mettere a fuoco. 

Il terzo spunto riguarda un classico del nostro dibattito letterario, il romanzo borghese e la sua assenza. Tesi del libro: non solo la nostra letteratura industriale è scettica sull’oggetto del suo racconto, ma non ha neppure contribuito a formulare il canone di una letteratura borghese. È verissimo; talmente vero da chiedersi: del resto, perché avrebbe dovuto? Lupo individua nella fragilità della borghesia post-unitaria la principale ragione di questa assenza. Non c’è romanzo perché non esiste la materia. Probabile. C’è un’altra ipotesi. La letteratura italiana non è classicamente romanzesca. I grandi scrittori italiani non sono romanzieri nel senso fondativo del genere. Sono ibridi, soggettivi, saggisti, biografi, memorialisti, a volte precocemente autofictionisti. La materia borghese dunque, salve rare eccezioni, non è stata affrontata con lo strumento del romanzo. La grande borghesia industriale compare in una produzione che si potrebbe definire varia, se nell’editoria non significasse qualcosa come “senza genere”. Lupo cita il caso della Fiat. La sua storia così imponente rispetto all’immaginario del paese non ha contribuito alla formazione di un corpus letterario borghese. Controllando un vecchio catalogo della produzione libraria sul gruppo (che l’ex capo delle relazioni esterne del Lingotto Cesare Annibaldi su suggerimento di Beppe Berta titolò Bibliografiat) si nota una circostanza statisticamente interessante. Nel 1998, su oltre 1000 volumi censiti, vengono conteggiati un paio di titoli di Oddone Camerana, un cugino del lato Nasi che avrebbe poi scritto molti libri di intensità poetica sulla natura intima degli azionisti di una società di capitale e un libro – molto bello e implicitamente letterario – di una signora francese, Marie-France Pochna. In Bibliografiat non viene citato il più letterario dei libri sulla Fiat, Vestivamo alla marinara, scritto da Susanna Agnelli con l’aiuto discreto di Cesare Garboli. Non è un romanzo, ma è più bello di tanti romanzi e svela un punto decisivo. Non c’era bisogno di un romanzo per spiegare – romanzescamente – la dimensione romanzesca di Virginia, Gianni, Susanna, del Senatore. Personaggi riusciti meglio di qualunque invenzione, una trama con molti colpi di scena, viaggi in treno interrotti dalla polizia, mamme coinvolte nei progetti della Resistenza, incidenti automobilistici, e straordinarie figure secondarie, come Giorgio – il settimo fratello Agnelli che era stato rimosso dal racconto famigliare. Del resto non sarebbe necessario neppure un romanzo sui Kennedy. Basta la loro storia. In Italia, lo stesso destino è toccato ad altre famiglie del capitalismo. Non c’è un romanzo sui Gualino, solo un’autobiografia e un paio di lavori giornalistici. C’è una letteratura feltrinelliana, solo perché nell’ultima generazione l’affine parte famigliare Barzini – Ludina e Andrea – ha raccontato le formidabili avventure di Giannalisa, che è una donna da serie Netflix. Ma resta il fatto che nessuna storia è più forte del romanzo soggettivo e carnale di Giangiacomo Feltrinelli. E che il libro di memorie e ricordi di suo figlio Carlo, Senior Service, è totalmente autosufficiente nel genere che si è scelto. Lupo si chiede giustamente perché – come nel caso di Giovanni Pirelli – non siano state le stesse famiglie a produrre una soluzione buddenbrokkiana. Può darsi che fosse una probabilità statisticamente debole. 

Nella passione coltivata per tanti anni sull’argomento, c’è un punto ulteriore che andrebbe segnalato. Il denaro è un oggetto letterario tra i più eminenti. Ed è estremamente poetico. Ha delle caratteristiche sue proprie, misteriose, indefinibili e fiduciarie. Negli anni trenta un pugno di scrittori americani fonda una poetica della ricchezza, Fitzgerald, Dos Passos, Ogden Stewart (The Philapelphia Story), lo stesso Hemingway. The Big Money è un titolo quasi programmatico scelto da Dos Passos. Per noi, invece, non c’è poesia nel denaro e – evidentemente – non abbastanza mistero. Questo aiuta a spiegare forse, entrambe le questioni, perché la nostra borghesia è fragile e perché non abbia prodotto il romanzo di sé. 

Il libro di Lupo è una riflessione piena di sfumature, servirà non solo a guardarci indietro, ma anche a ragionare su come scrittori e intellettuali potrebbero affrontare le prossime trasformazioni, rivoluzioni secondarie e terziarie, le reazioni all’intelligenza artificiale per esempio. ChatGPT è già qui a provocare. 

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TAGGED: Giuseppe Lupo