Morire in carcere

18 Settembre 2023

Continua a cadenze inesorabili, come se fosse un fatto naturale, una legge statistica da accogliere nella sua nuda oggettività, l’ondata di suicidi nelle nostre prigioni.  Tra il 1992 e il 2022 si sono tolte la vita 1655 persone e quest’anno sono già 51 i casi registrati, gli ultimi tre proprio in questi giorni. L’anno scorso è stato il più nero della nostra recente storia carceraria: 85 persone si sono uccise negli stabilimenti penitenziari. Mai negli ultimi trent’anni si era raggiunta una soglia così alta di perdite di persone che lo Stato aveva in custodia. Il fenomeno dei suicidi, al ritmo inquietante di uno ogni pochi giorni, tocca trasversalmente tutte le categorie di detenuti: i condannati, gli appena arrestati, gli imputati che attendono una sentenza, le donne e gli uomini, i giovani e i vecchi. Le donne e i giovani, nell’ultimo anno e mezzo, sono stati particolarmente rappresentati nel macabro inventario e gli ultimi due mesi ne hanno dato drammatica riprova, con le due detenute morte quasi contemporaneamente nel carcere di Torino e i detenuti appena scomparsi a Milano, Roma e Busto Arsizio. Il ripudio costituzionale della pena capitale e delle violenze fisiche e morali sulle persone private della libertà non riesce a impedire supplizi autoinflitti da detenuti e detenute per cui la reclusione varca il limite della tollerabilità. Vi si pone allora fine con gesti deliberati, ora impulsivi, ora meditati, ora perseguiti con disperata convinzione: impiccandosi alle grate delle finestre, al blindo, soffocandosi con il gas, lasciandosi morire di fame, inascoltati. C’è poi un numero incalcolabile di persone che compie quotidianamente atti di autolesionismo (più di 13.000 nel solo 2021 secondo i dati del Garante nazionale), tagliandosi, cucendosi le labbra, ingoiando pile, detergenti, quel che c’è sottomano, e una quantità enorme di casi in cui i propositi suicidari vengono sventati dall’intervento della polizia penitenziaria.

Il carcere, per la nostra Costituzione, dovrebbe essere luogo di umanità, di diritti tutelati, di trattamenti rispettosi della dignità e quello della detenzione dovrebbe essere tempo di recupero sociale, di riabilitazione, di preparazione al ritorno in società. L’ambizione delle pene, compresa quella detentiva che da due secoli è il castigo per antonomasia, è infatti quella di restituire al mondo libero persone rinnovate, che non ricadano in comportamenti criminali. Che la reclusione porti alla morte, invece che alla chance di una nuova vita rispettosa delle regole, è allora uno scandalo nei cui abissi bisogna guardare. Il carcere, immancabilmente presentato come risposta ai molti mali del mondo, dovrebbe invece diventare una grande domanda. Ciascuno di noi dovrebbe interrogarlo, questionare l’istituzione penitenziaria, che ci è di continuo offerta come soluzione ai problemi (vecchi e nuovi) che attanagliano le società organizzate: la devianza, la marginalità, il disagio psichico, quello giovanile, l’immigrazione, le dipendenze, le piccole e grandi meschinità quotidiane. 

Che i luoghi di detenzione siano i meno adatti ad assolvere compiti di riabilitazione sociale è stato chiaro sin dalla loro nascita e durante tutto il loro esuberante sviluppo. Il carcere fiorisce come strumento di punizione tra la fine del settecento e i primi decenni dell’ottocento, proprio per superare i supplizi corporali che per secoli erano stati lo strumento principale per sanzionare i comportamenti criminali. Da luogo di attesa e puro contenimento divenne tempo da sfruttare per ottenere un’educazione al lavoro e favorire ripensamenti sulle proprie scelte di vita. Ma – da subito – il penitenziario ha rivelato le sue falle, dimostrando che segregazione, separazione, incapacitazione, non sortiscono quasi mai gli esiti sperati. Già a metà ottocento erano chiari i frutti avvelenati dell’istituzione carceraria: suicidi, impazzimenti, incrementi dei tassi di recidiva. Eppure, nonostante l’evidenza di questi smacchi, che sono andati ripetendosi e cronicizzandosi, si tende ancora a riporre nelle prigioni un’enorme fiducia. Il successo del carcere si deve alla sua apparente capacità di soddisfare tutti gli scopi che le pene perseguono: retribuire, ossia ripagare chi ha violato le regole della nostra convivenza civile; dissuadere gli altri dal trasgredirle a loro volta, per il timore di patire la detenzione; rieducare i condannati, grazie a trattamenti individualizzati che preparino al rientro in società. Tutti e tre gli obiettivi fanno leva sul dolore, sulla pena appunto, che è patimento e afflizione legittima. La sofferenza dei colpevoli ci appaga, perché placa il nostro senso di giustizia, la sofferenza disincentiva i comportamenti criminali, la sofferenza cura, purifica, guarisce il deviante che grazie alle privazioni comprenderà il male commesso e cambierà strada. Più intenso sarà l’affanno, più la risposta penale darà i suoi risultati di rivalsa, deterrenza, rieducazione. Eppure, che pene esemplari disincentivino i consociati dalla commissione di reati non è mai stato dimostrato. Gli studi sui tassi di criminalità negli Stati dove è prevista la pena di morte provano anzi il contrario e non è difficile verificare che anche nel nostro paese gli aumenti di pena per questo o quel reato non ne abbiano provocato evidenti flessioni. D’altro canto, che il soffrire riabiliti il reo è una convinzione a sua volta fallace. In carcere cova una sofferenza esasperata e rabbiosa, non quella salutare che ci figuriamo nelle nostre fantasie sulla detenzione. Qualche detenuto molto predisposto forse ogni tanto sperimenta la forza purificatrice del dolore. Ma di regola ci si tormenta sulle piccole e grandi difficoltà quotidiane e non sul male commesso. Telefonare a casa, avere i soldi per le sigarette, rivedere un figlio, togliere un dente che duole tremendamente dopo un’attesa di anni.

Per comprendere la serietà della questione, bisognerebbe aver visto, ascoltato, annusato la vita in carcere. Non solo per gli ambienti angusti, scuri, sovente sovraffollati, non di rado degradati, non solo per il freddo glaciale in inverno, il caldo impossibile d’estate, le grate alle finestre che dopo pochi anni rovinano la vista, le docce condivise con decine di persone, spesso senz’acqua calda, i forti limiti a quello che si può mangiare, cucinare, acquistare e non solo per le angherie quotidiane, praticate e subite, le convivenze moleste, quelle pericolose, quelle deleterie. Ma anche per la separazione, lo stigma, la solitudine, oggi molto più bruciante rispetto a qualche decennio fa, quando non eravamo immersi in un groviglio di comunicazioni ininterrotte e connessioni sempre attive. E ancora la sessualità negata, la genitorialità impedita, lo sfilacciarsi delle relazioni con i familiari, la perdita di autonomia, la mancanza di orizzonte, il deteriorarsi della salute, fisica e mentale, che naturalmente ne consegue.

Tutto questo accade nonostante gli innegabili sforzi, l’encomiabile impegno, la maestria nell’ottenere qualcosa avendo quasi nulla tra le mani che dimostrano quotidianamente direttori, educatori, personale di polizia. E capita sebbene gli sforzi, l’impegno e persino la creatività vengano profusi nell’istituzione penitenziaria da secoli, con risultati ben lontani dall’essere appaganti. Sono gli operatori del carcere, quelli in trincea a cui si chiede l’impossibile con scarsissimi mezzi, ad essere i più feriti da una situazione così tragica. Chiunque lavori in un istituto penale si trova a dover fare i conti con l’ombra incombente della disperazione che può tracimare da un momento all’altro in un gesto estremo. È un’angoscia quotidiana con cui si deve imparare a convivere, sebbene sia quanto di più lontano dal senso costituzionale della pena. È capitato anche a me, più volte, quando pochi anni fa mi sono trovata a svolgere il difficile compito di Garante dei diritti delle persone detenute. A pochi mesi dalla nomina un giovane, straniero, arrestato da poche ore, si è suicidato nel carcere della mia città. Quando sono arrivata il corpo era ancora nella cella, dove non sono riuscita ad entrare. Qualche tempo dopo ho incrociato lo sguardo scosso di un poliziotto, che aveva appena impedito ad una persona d’impiccarsi, tirandola giù all’ultimo momento. Diceva di star bene, di non aver bisogno di sostegno, mentre i suoi occhi scombinati dicevano l’opposto. Dopo qualche mese ancora, lo sguardo stanco e afflitto della direttrice del carcere fissava insieme al mio la stanza della terapia intensiva dove attaccato alle macchine stava un detenuto quasi riuscito nel suo intento.

Chi avesse dubbi sulla certezza della pena, intesa come sicura sofferenza dei carcerati, può star tranquillo: nei nostri istituti detentivi si pena molto. Ma maneggiare la sofferenza altrui, dosare il dolore legittimo affinché nuoccia, sì, ma senza esagerare, è operazione difficilissima se non impossibile. I suicidi e gli atti di autolesionismo ne sono la tragica dimostrazione. Chi studia il sistema penale e le sue evoluzioni sa che l’umanità delle pene, il rispetto dei diritti degli imputati e dei condannati sono tra i portati più preziosi del progresso dei nostri ordinamenti, mentre la benevolenza nel punire, la mitezza dei castighi, l’incentivo ai buoni comportamenti (ben più che l’accanimento su quelli cattivi) hanno effetti benefici sulla sicurezza collettiva. È controintuitivo, forse disturbante, ma la storia delle sanzioni penali, l’osservazione empirica, le raccolte di dati, le sperimentazioni condotte in tanti paesi lo hanno dimostrato. Le «pene» (al plurale, per la nostra Costituzione) non si esauriscono nel carcere, che non è soluzione ottimale ma un male (forse) necessario per un numero limitatissimo di casi, quelli più gravi. Per tutti gli altri, ci sono diversi modi per punire, altre vie per segnare una discontinuità dal passato criminale, per restringere la libertà, per controllare gli autori di reato o gli imputati ritenuti pericolosi: misure alternative, pene sostitutive, vincoli diversi dalla custodia in carcere. Sono strumenti punitivi o cautelari che hanno meno controindicazioni, meno costi sociali, umani, economici e tuttavia vengono guardati con costante diffidenza, perché l’amara medicina del carcere esercita la sua malia. Bisognerebbe invece diffidare quando, come in questi giorni, quella soluzione viene offerta, ancora una volta, come rimedio elettivo e universale. Occorrerebbe chiedersi con quali effetti, con quali costi, con quali controindicazioni, con quali comprovati benefici.

In copertina, fotografia di Emiliano Bar.

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