5 per mille

Speciale

Occhio rotondo 55. Teschio

1 Giugno 2025

Dopo aver guardato le immagini della mostra di Robert Mapplethorpe, dopo aver sostato davanti ai ritratti, ai nudi, ai fiori e mille altre figure della mostra Le forme del classico, curata da Denis Curti a Venezia (“Le Stanze della Fotografia”, catalogo Marsilio Arte), sono arrivato al suo autoritratto del 1988, quello con il bastone in pugno sormontato da un piccolo teschio. Credo che sia una delle foto più belle dell’artista e fotografo americano. Il suo viso esce dal buio alla pari della mano, ma mentre la seconda è perfettamente a fuoco, il viso non lo è totalmente. Ci guarda dritto negli occhi Robert, ma qualcosa in lui sembra mancare: è appannato, distante, quasi attonito. È come se la baldanza del ritratto di soli cinque anni prima, quello altrettanto celebre con il mitra in mano – le mani guantate di nero, il ciuffo da ragazzino –, dove sembra un attore di un film di gangster, un rapinoso rapinatore, fosse scomparsa. Che lui sia stato un ladro di immagini e anche di corpi è sicuramente vero. Aveva così tanta voglia di vivere e di vivere in eterno – per sempre, sarebbe più esatto dire –, che ha divorato visivamente, e non solo così, i corpi che sono passati davanti al suo obiettivo nel set del suo studio: fotografava sempre al chiuso, sempre sotto controllo, con eleganza e raffinatezza. Il vero soggetto del suo Autoritratto del 1988 è ovviamente il teschio che sorge al di sopra del suo pugno sopra il bastone nodoso. Mapplethorpe è già malato di Aids, per cui l’autoritratto è come una premonizione, una manifestazione che non è rara tra gli artisti, tra i pittori in particolare. Lo dice bene la sua frase che Alberto Salvadori cita nel suo scritto in catalogo, Forma e intensità: “Nel mirino della macchina fotografica vedo cose che non ho mai visto prima. Ne ho inserite alcune nelle mie fotografie”. Una formula che mostra come Robert sia stato prima di tutto un pittore: vedere è la prima cosa che fa ogni artista, e dipingere corrisponde alla formula: “inserirne alcune”, nel quadro ovviamente, perché i suoi sono quadri, e a volte persino sculture. C’è un’opera poco nota di Munch, una litografia del 1895, dove il pittore norvegese s’è raffigurato in un modo molto simile: è a mezzobusto, il suo viso esce dal buio e ci guarda; sotto c’è lo scheletro d’un braccio, mano compresa.

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Edvard Munch, Autoritratto con braccio di scheletro, 1895.

La forma in Mapplethorpe è però più decisa, e probabilmente più efficace: lui sta morendo davvero. Scomparirà solo un anno dopo, mentre Munch morirà a distanza di cinquant’anni da quell’autoritratto. Guardando le fotografie non ho potuto fare a meno di pensare che Robert sia stato in modo evidente, e deciso, il padrone della vita, di quella vita che gli passava davanti e che ha voluto fissare nei suoi quadri, da quello giovanile, appassionato e ingenuo della sua amica Patti Smith alla fine degli anni Sessanta, a quelli dei suoi amici e amanti degli anni Settanta e Ottanta; e poi la vita dei fiori, carnosi e fallici, puri e impuri al medesimo tempo, corpi vegetali. Quella impurità c’è anche in questa fotografia, così elegante e insieme così recitata come tutte le altre che ha scattato prima. Qui però Robert non è più il Signore della Vita, piuttosto è il Signore della Morte. Così ha voluto essere: evocarla per controllarla, per tenerla a bada. Compie un rito apotropaico. Identico a sé stesso, affamato di tutto, divoratore di tutto, ora divora sé stesso. Immerso nel buio della notte brandisce ancora il bastone del potere con la sua scheletrica insegna. Un monito? Una invocazione? Una resa? Aspettami, arrivo.

In copertina, Mapplethorpe, Autoritratto.

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