Carrie Mae Weems: la forma del racconto

7 Maggio 2025

“Anni di furore si alzano come un muro” scriveva Audre Lorde (1932-1990), poetessa statunitense di origine caraibica, in “Poesia per donne arrabbiate”, apparsa nella raccolta Chosen Poems: Old and New del 1982 (trad. it. D’amore e di lotta. Poesie scelte, a cura di WiT (Women in Translation) edito da Le Lettere nel 2018). Ho cercato subito nei suoi versi una prima chiave di accesso per guardare il lavoro della fotografa e artista Carrie Mae Weems (Portland, 1953), ora esposto in un'ampia mostra antologica, “The Heart of the Matter”, a cura di Sarah Meister, alle Gallerie d’Italia di Torino. Mae Weems, nota al grande pubblico fin dal 1990 grazie al lavoro “Kitchen Table Stories”, che vedremo meglio in seguito, ha focalizzato fin da subito il proprio impegno artistico verso l’espressione e il recupero della propria identità: singola, familiare e culturale. In qualità di donna, in qualità di donna afrodiscendente, in qualità di figlia, nipote, amante: nessuna definizione è valida in sé stessa e Carrie Mae Weems sembra portare a galla la consapevolezza secolare che ogni membro del suo popolo porta inscritta nei geni, e che tramanda.

Il retaggio emotivo – se così può definirsi – del popolo africano in generale e della comunità afroamericana in particolare è qualcosa a cui una donna bianca occidentale non può accostarsi sperando di spiegare, o raccontare solamente, qualcosa di davvero esaustivo. Quando si vede Carrie Mae Weems farsi edificio, oltre che persona che singolarmente si incarica di un dialogo impari con l’architettura dell’imperialismo occidentale (nelle serie “Roaming” e “Museums”, entrambi iniziati nel 2006) non si può davvero ambire a un’immedesimazione totale, ed è giusto così. Di fronte al Louvre, o alle colonne dell’antica potenza imperiale di Roma, vestita di nero, Carrie Mae Weems diventa la rappresentante immobile di un unico sentimento comune alle generazioni che l’hanno preceduta finora e a cui pure appartiene; Mae Weems, incarnandosi nella sua stessa musa (come lei stessa descrive il suo “sé-alter ego”) si alza come un muro di fronte ai simboli edificati e monumentali di un potere incarnato nelle generazioni e nell’ideologia che hanno diviso il mondo a metà.

j
Carrie Mae Weems, Untitled (Great Expectations), 2016; from the series Scenes and Takes. Credit: © Carrie Mae Weems and reproduced courtesy of the artist and Gladstone Gallery, New York, Fraenkel Gallery, San Francisco, and Galerie Barbara Thumm, Berlin

Naturalmente questa non vuole essere una sterile ammissione di colpa, semmai l’evidente e naturale consapevolezza dell’insufficienza di strumenti per commentare l’opera così ben incardinata sulla biografia stessa di un’artista che reclama quanto la sua genia sta reclamando da più – molto più – di sei secoli a questa parte.

Noi spettatori siamo quei musei, quelle colonne: guardando le grandi stampe diventiamo edifici a nostra volta che circondano alle spalle l’artista, un accerchiamento involontario quanto significativo operato da noi discendenti, in fin dei conti, di chi eresse quelle architetture, di chi appartiene all’altra metà del mondo. 
Ѐ giusto non poter capire fino in fondo: sarebbe una bugia grossolana uscire dai due piani di mostra e le sue oltre cento opere esposte e pensare di aver avuto modo di mettersi nei panni di Mae Weems, di Audre Lorde, della loro intera stirpe secolare.

j
Carrie Mae Weems, Welcome Home, 1978–84; from the series Family Pictures and Stories. Credit: © Carrie Mae Weems and reproduced courtesy of the artist and Gladstone Gallery, New York, Fraenkel Gallery, San Francisco, and Galerie Barbara Thumm, Berlin.

La forma-racconto appartiene decisamente a Carrie Mae Weems, esplorata nei video, nelle sceneggiature inventate, nella raccolta di immagini dei suoi familiari e nelle didascalie che ne raccontano alcuni tratti biografici o caratteriali (“Family Pictures and Stories”, 1981-82). Un dettaglio che si nota anche in tanta poesia afroamericana: Lucille Clifton, la stessa Audre Lorde, trovano molto spesso nella forma lunga, prosastica e narrata il modo per toccare il lettore, inglobato ora in certi anfratti di vita, senza sentire la necessità di mistificare nei simboli ciò che di per sé contiene già tutto il significato che si intende trasmettere.

Un esempio: “Il poliziotto sparò a un ragazzino di dieci anni nel Queens / era ritto su di lui con le scarpe da sbirro nel suo sangue di bambino / e una voce disse “Crepa piccolo figlio di puttana” e / ci sono registrazioni a provarlo. Al processo / il poliziotto sostenne in sua difesa / Non avevo notato né la statura né altro / solo il colore. E / ci sono registrazioni a provare anche questo.” (Audre Lorde, “Potere”, tratta da The Black Unicorn del 1978).

j
Carrie Mae Weems, Untitled; from the series Preach. Credit: © Carrie Mae Weems and reproduced courtesy of the artist and Gladstone Gallery, New York, Fraenkel Gallery, San Francisco, and Galerie Barbara Thumm, Berlin

Per Carrie Mae Weems prendere confidenza con la propria storia genealogica significa accettare i propri familiari come protagonisti attivi di una tragedia di cui non si scorge più l’inizio, una tradizione che parla molto spesso nell’unico verso di una concreta e materiale difficoltà a esistere. La sconfitta reiterata come ovvia condizione esistenziale è ben presente nel recupero della memoria familiare di Mae Weems come nel lavoro “Scenes and takes” del 2016, fotografie in grande formato dedicate al mondo del cinema, in cui l’artista si autoritrae in scene di complessi set ingombri di attrezzatura e affiancando alle immagini finte sceneggiature in cui si sottolinea l’atteggiamento discriminante con cui si affidano i ruoli delle persone afrodiscendenti nel cinema.

Carrie Mae Weems racconta bene del filtro obbligato con cui lei e il suo popolo guardano ogni dettaglio del mondo che li circonda: tutto parla, direttamente o per riflesso, della divisione manichea del mondo in cui il popolo nero ha sempre occupato il posto in piedi degli oppressi. I muri vengono verniciati dai commercianti per coprire i messaggi di protesta contro la morte di George Floyd del 2020, visioni astratte che nascondono l’oppressione di un lecito furore (“Painting the Town, 2021); e anche il cielo parla a Carrie Mae Weems e ai suoi fratelli secondo il codice della sopravvivenza delle loro innumerevoli fughe da condizioni di schiavitù. La stella polare diventa l’unico vero messaggio che possa condurre in salvo (North Star, 2021), come accadde a Frank Weems, nonno di Carrie (omaggiato nel video “Leave now!” del 2022) che negli anni Trenta venne malmenato quasi mortalmente da assalitori bianchi, evento da cui sopravvisse per miracolo dovendo però fuggire in un altro Stato, abbandonando la propria famiglia.

j
Carrie Mae Weems, Untitled, 1988; from the series Four Women. Credit: © Carrie Mae Weems and reproduced courtesy of the artist and Gladstone Gallery, New York, Fraenkel Gallery, San Francisco, and Galerie Barbara Thumm, Berlin.

Ѐ quantomeno significativo notare come uno dei primi grandi temi storici affrontati dai primi fotografi nella storia sia stata proprio la Guerra di Secessione Americana (1861-65), una ventina d’anni appena dopo il brevetto ufficiale del dagherrotipo, primo passo della fotografia così come la concepiamo ancora oggi. Nel secondo video esposto nella mostra curata da Sarah Meister alle Gallerie d’Italia, “A Place Called South”, Carrie Mae Weems recupera materiale d’archivio della Guerra che vide in conflitto schiavisti del sud e abolizionisti del nord. Nell’identità di una donna afrodiscendente esiste una lucida consapevolezza storica, strettamente collegata a ogni ambito della propria vita privata. Ogni gesto, come reciterà un intervento testuale del ciclo più famoso dell’artista, “Kitchen Table Stories”, è politico, frutto di un preciso trascorso intergenerazionale. Nella nota serie, Mae Weems si autoritrae in una sempre identica situazione domestica, composta dal tavolo della cucina, una lampada accesa calata dal soffitto, e qualche immagine a parete. In questo microcosmo, Mae Weems si evolve, si innamora, ha una figlia, soffre: la messa in posa degli scatti è il congelamento delle tappe di un percorso di formazione, la traccia narrativa che collega Mae Weems al mondo universale dell’esistenza, e quindi del dolore, dell’innamoramento, delle relazioni.

Come nel lavoro commissionato da Intesa San Paolo appositamente per questa mostra, “Preach”, in cui i luoghi di culto vengono visti attraverso lo sguardo concitato di Mae Weems come spazi di una comunità unita: sono le persone in movimento, agitate dalla preghiera e dall’entusiasmo del sentimento di fede, che fanno vivere i luoghi di culto della popolazione afroamericana ritratti dall’artista. Mentre sono le ombre gettate dalle fessure delle porte e delle pareti nella “Rothko Chapel” a trasmettere un messaggio che va oltre l’aura dei dipinti singoli monocromatici, neri, del pittore astratto. Come a dire che nero è il soggetto e nera la sua ombra, e nera è l’ombra che creano tutti i soggetti che hanno un corpo (anche le bianchissime pareti della Cappella), e lì davvero non esiste differenza tra le ombre nere delle cose.

Il cuore della questione, il nocciolo, come riporta il titolo inglese, è forse proprio questo: guardare il disegno delle ombre e vedere nell’oscurità che formano un’unica figura in cui ognuno possa ritrovarsi. Anche questo fa parte degli insegnamenti della fotografia, d’altronde, guardare in faccia il mondo, e capirlo, attraverso la sua ombra ribaltata.

j
Carrie Mae Weems, Wilfredo, Laura and Me, I, 2002; from the series Dreaming in Cuba. Credit: © Carrie Mae Weems and reproduced courtesy of the artist and Gladstone Gallery, New York, Fraenkel Gallery, San Francisco, and Galerie Barbara Thumm, Berlin.

“Preach” significa predicare, un’attività che nella ritualità afroamericana si palesa attraverso la parola e il canto, corpo e ombra della poesia stessa, in una verbalità potenziata e riverberante, come anche mostrano, seppure sulla superficie muta dell’immagine, le fotografie di Mae Weems. Quasi un’urgenza che la parola possa farsi ascoltare da chi vive fuori dalle pareti della chiesa in cui viene pronunciata, da noi. Ancora Audre Lorde scriveva:

“[...] e quando parliamo abbiamo paura / che le nostre parole non verranno udite / o ben accolte / ma quando stiamo zitte / anche allora abbiamo paura. / Perciò è meglio parlare / ricordando / che non era previsto che sopravvivessimo.” (“Litania per la sopravvivenza” da The Black Unicorn, 1978).

CARRIE MAE WEEMS: THE HEART OF THE MATTER
Gallerie d'Italia – Torino, museo di Intesa Sanpaolo
Dal 17 aprile al 7 settembre 2025

Le citazioni di Audre Lorde sono tratte dal libro D’amore e di lotta. Poesie scelte, a cura di WiT (Women in Translation) edito da Le Lettere nel 2018.

In copertina, Carrie Mae Weems, Untitled (Man and mirror), 1990; from the series Kitchen Table.
Credit: © Carrie Mae Weems and reproduced courtesy of the artist and Gladstone Gallery, New York, Fraenkel Gallery, San Francisco, and Galerie Barbara Thumm, Berlin.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO