I corpi politici di Shirin Neshat
L’arte ha sorpreso Shirin Neshat come un improvviso e inaspettato linguaggio capace di dare voce alle sue emozioni, all’universo profondo del mondo persiano che agiva e si agitava contraddittorio dentro di lei. E oggi lei ci sorprende con la grande mostra Body of Evidence (PAC, Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, a cura di Diego Sileo e Beatrice Benedetti, fino all’8.6.2025, catalogo in preparazione, pubblicato da Silvana Editoriale) che offre un percorso ragionato della sua vasta produzione, dai primi anni Novanta fino a oggi, tra video e fotografie. Vincitrice del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1999, oltre che di altri premi importanti, viene considerata una delle artiste contemporanee più significative. Neshat, nata a Qazvin nel 1957, già a diciassette anni si reca negli Stati Uniti per proseguire gli studi artistici, poi vi rimane perché impossibilitata a rientrare in patria a causa della Rivoluzione iraniana del 1979. Riesce a tornare in Iran solo nei primi anni Novanta, subito dopo la fine della sanguinosa guerra tra Iraq e Iran, quando è già trentenne. Lì trova un Paese radicalmente mutato rispetto ai suoi ricordi, segnato da un clima plumbeo e repressivo dove, sui giornali e nei manifesti, vede molte fotografie di donne “martiri” con fucili in mano ma avvolte nei chador. Immagini forti, scioccanti, ipnotiche, che la turbano tanto da spingerla a creare, una volta tornata a New York, il suo primo ciclo di opere, Donne di Allah (1993-1997), che s’impone immediatamente all’attenzione internazionale.

In tali immagini intense, la donna (a volte l’autrice stessa che si autoritrae) è raffigurata spesso armata, ma avvolta nel velo nero imposto da Khomeini; le poche parti scoperte del corpo (mani, volto, piante dei piedi) appaiono ricoperte di scritte, che l’artista ha aggiunto in seguito sulla carta fotografica: sono citazioni di poesie libertarie e intime della femminista Forough Farrokhzad o della poetessa Tahereh Saffarzadeh, che si concentra invece sulla fede mistica e il martirio. In un’immagine vediamo una donna con la canna di una pistola accostata al viso, quasi fosse uno strano e inquietante orecchino che “decora” un volto dallo sguardo malinconico; in un’altra emerge un fucile stretto tra la pianta dei piedi nudi, in aperta violazione alla legge coranica che ne vieta l’esposizione. Oppure vediamo un’altra figura femminile con una lunga canna di carabina che si erge al centro del suo volto, mentre lei ci osserva con uno sguardo diretto, al contempo penetrante e inespressivo, capace di sfidare ogni idea di sottomissione. Questo famoso ciclo dedicato alle Donne di Allah affronta innanzitutto il tema del dualismo di genere, l’obbligo del velo e l’oppressione subita dalle donne dopo la rivoluzione khomeneista, ma al contempo sottolinea la loro paradossale chiamata alle armi e la loro individuale intensità.

Così in alcuni lavori di tale serie, come ad esempio le opere Guardians of Revolutions o Faceless, ci invita a riflettere sull’idea di martirio, valore centrale della cultura sciita, spesso frainteso in Occidente. Come mi spiega infatti l’artista e attivista Delshad Marsous, con cui visito la mostra, «nella cultura iraniana il martirio va oltre il semplice sacrificio per una causa; rappresenta l’apice della dedizione, l’amore per la verità e il raggiungimento della massima vicinanza a Dio». L’opposizione tra santità/martirio e sessualità viene però radicalmente messa in discussione da un’altra immagine in cui la mano dell’artista stessa, poggiata leggermente alle labbra, suggerisce il silenzio ma al contempo qualcosa di erotico come un bacio sulle dita. Il divieto fondamentalista sciita nell’offrire una vera voce alle donne si coniuga qui, ambiguamente, con una sottile seduttività. Una sensualità sottolineata anche dalle scritte in farsi che decorano la sua mano, dove sono dipinti alcuni versi della poetessa Forough Farrokhzad (1935-1967): «Nessuno pensa ai fiori / nessuno pensa ai pesci. / Nessuno vuole credere /che il giardino sta morendo, /che il cuore del giardino / si è gonfiato sotto il sole, / che la mente del giardino /si svuota piano piano / dei suoi ricordi verdi» – mi traduce Delshad osservando le scritte che nell’immagine scorrono sulle dita della mano. Malinconica e metaforica, tale poesia intreccia il dolore del giardino morente sotto il sole con quello delle donne schiacciate dalla repressione e con l’infelicità della scrittrice. Ma al contempo simili versi restituiscono paradossalmente a queste donne una voce sommessa, sofferente e potente. «Perché dovrei fermarmi? (…) È solo la voce che resta», scrive ancora Forough, forse la più grande poetessa iraniana del Novecento. Senza l’aiuto di Delshad non potrei intendere tali versi, eppure è come se essi riuscissero a farmi giungere oscuramente la voce di queste donne, ed è come se tali parole fossero incarnate nei loro volti, svelate nelle loro mani, offerte nelle parti scoperte dei loro corpi. Un’osservazione, quest’ultima, che vale pure per tutti gli altri testi in lingua farsi che Shirin Neshat scrive quasi ossessivamente su molte fotografie, non solo quelle di Women of Allah, ma anche in quelle della serie Shahnameh (2012), o ancora in quelle che accompagnano il video The Fury (2022). Anche se non si capiscono i testi, questi ci “parlano” ugualmente, in modo penetrante, ineffabile, misterioso.

Simili a splendidi disegni aniconici, oppure a ricami che s’ingrandiscono o si rendono minuscoli quasi fossero una densa tessitura protettiva (come nelle immagini di The Fury), tali scritti si presentano con una calligrafia elegante, sinuosa e morbida, ritmica e un po’ magica, che pare distendersi dapprima calma come una pianura, per poi però incresparsi vibrante, carica di energia. Una simile pratica calligrafica si rivela così una sorta di rituale meditativo, un cammino spirituale fatto di pazienza, amore e tenacia. Con il suo pennello o il suo pennino intriso d’inchiostro l’autrice pare voler accarezzare i corpi, le mani e i volti di coloro che ritrae, donando a queste presenze femminili una parola fatta di poesia. Perché solo la poesia, nella cultura persiana, è davvero, fino in fondo, parola piena: è un modo d’esistere, di relazionarsi, di concepire il mondo, di sentire, ma anche di ribellarsi. Viene anche da immaginare che simili parole dipinte in origine emanassero pure un aroma soave, dato che un tempo all’inchiostro si aggiungeva un po’ d’acqua di rose, tanto amata in Iran. Quello di Shirin Neshat si rivela quindi un gesto di prossimità e di cura, un modo di esprimere se stessa attraverso la sua mano di calligrafa che scorre lieve sulla carta fotografica e al contempo di donare un linguaggio alle donne, alle loro passioni e sofferenze intime.
Questa pratica di scrittura calligrafica, tuttavia, non è sempre uguale a se stessa, cambia infatti sulla base delle opere e del periodo in cui esse sono state realizzate. La serie fotografica Shahnameh (“Il Libro dei Re”), del 2012, ad esempio, si presenta arricchita anche con le riproduzioni di antichi disegni e pagine miniate che raccontano e illustrano il più importante, immenso, poema epico persiano. Scritto in distici intorno al 1000 d. C. da Abu’l Ghassém, detto Ferdowsi, ovvero “il Paradisiaco”, lo Shahnameh racconta in versi la storia dell’Iran antico: dai miti originari, a un paese segnato dalla religione zoroastriana fino alla morte in guerra dell’ultimo sovrano sassanide, per concludersi con la conquista musulmana del Paese, la costituzione del Califfato e con gli arabi descritti quali “mangiatori di serpenti”; il tutto tra vicende epiche e amori, battaglie sanguinose, lotte del bene contro il male, figure storiche o leggendarie. In questa ampia serie di immagini – dove nel centro della sala espositiva campeggia simbolicamente un antico volume miniato dello Shahnameh – Neshat ritrae volti di iraniani contemporanei, dividendoli in tre gruppi: i giovani; i patrioti con la mano sul cuore come se devotamente stessero ascoltando l’inno nazionale; e i malvagi, sui cui corpi emergono antiche pagine dello Shanameh, tra teste mozzate grondanti sangue e combattimenti cruenti. Anche in questo caso i volti sono spesso ricoperti di scritte, ora tratte dall’antico poema, ora ricavate da testi contemporanei di oppositori al regime: del resto i due tipi di citazioni si tengono insieme più di quanto non possa sembrare a prima vista, se si tiene conto che lo Shamaneh venne scritto anche come una dichiarazione politica contro la conquista araba e islamica della Persia. In altre parole, Shirin Neshat è voluta partire sia dalla millenaria storia della Persia sia dal coraggio dei giovani oppositori di oggi, per esprimere, con il linguaggio dell’arte, il suo sostegno alle vaste proteste del Movimento Verde iraniano (2009) contro le frodi elettorali che riportarono al potere, quale presidente dell’Iran, il conservatore Ahmadinejad. Ma c’è di più. Come sempre la pratica creativa di Neshat gioca su aspetti antitetici, simbolici, evocativi, dove la storia dell’Iran si rivela portatrice di un messaggio non solo locale ma anche universale, non solo personale, intimo profondo, ma anche carico di valenza politica. Mettendo in scena l’oscillazione continua tra fede cieca e desiderio di emancipazione, tra una realtà oppressiva e spinta all’immaginazione, fra tradizioni imposte e un passato antico ma radicato nel sentire di un popolo, tra un islam coercitivo e uno vissuto liberamente, e riportando in scena, come se fosse ancora attuale, il passato epico e glorioso di una Persia antica, dove s’intrecciavano religioni e culture diverse, Shirin Neshat finisce per immergerci in un mondo potente e contradittorio, lontano dagli stereotipi con cui abitualmente si pensa all’“Oriente”.

Artista multidisciplinare, Shirin Neshat, oltre a essersi confrontata con la fotografia, il cinema e il teatro, ha realizzato pure molte celebri opere video. Ed è soprattutto su queste opere immersive, giocate su due schermi, dove le narrazioni scorrono spesso ambiguamente duplici, che si concentra una parte consistente dell’esposizione del PAC. Sono video che partono dalla sua più famosa trilogia, Fervor, Turbolent e Rapture (1998-2000), fino ad arrivare al suo più recente The Fury (2023), e ripercorrono il percorso intimo e artistico dell’autrice. Una vicenda umana, la sua, che l’ha portata a percepire per anni se stessa come se fosse sempre immersa nel mondo del suo Paese natale e a riflettere sulle trasformazioni che hanno segnato intimamente chi, a differenza di lei, era rimasto in Iran. Vivere dunque la madrepatria come un universo di cui è intrisa certamente la sua vita, anche se tale vita è diventata ormai, irrimediabilmente, quella di un’esule priva di una vera appartenenza. Un’esiliata che non dimentica le proprie radici e il mondo da cui è stata privata, ma che si sente per ciò stesso in bilico instabile tra due mondi, tra ricordi e presente, tra accettazione e rifiuto. Ad esempio, nel commovente video Roja, la protagonista iraniana – sua alter ego – mentre assiste a uno spettacolo, nell’indifferenza generale viene improvvisamente insultata e minacciata da un anziano attore bianco a torso nudo, che, sempre più bianco come la cera, le urla aggressivo di essere una manipolatrice, un’impostora, una falsa, un’intrusa. Lei fugge spaventata da questo teatro avveniristico verso una sorta di cava acquitrinosa e deserta che potrebbe ricordare alcuni paesaggi dell’Iran. Tra sogno e visioni deformanti che sembrano emergere inquiete dal passato, cerca allora di avvicinarsi a una donna anziana avvolta in un velo nero, simbolo archetipico della Madre Terra ormai lontana, il cui ricordo è divenuto annebbiato e instabile, a volte mostruoso. Ma, una volta raggiunta, tale donna archetipica la respinge con forza, a indicare la condizione di ogni esule, donna o uomo che sia, rigettato da entrambe le realtà culturali e sociali in cui si trova sospeso, come se egli o ella fosse ormai una sorta di abbandonato nel mondo, privo di ancoraggi profondi.

I tre video che compongono la Trilogy of Duality (Turbolent, Rapture, Fervor, 1998-2000), dove è ancora molto forte il ricordo dell’opprimente mondo in bianco e nero vissuto nel suo ritorno in Iran nel 1990, sono costituiti da proiezioni a loro volta in bianco e nero su due schermi distinti, ma disposti l’uno accanto all’altro: qui il mondo femminile sembra fronteggiare quello maschile come se rappresentassero due storie separate e simmetriche, ma in reciproco, costante confronto. Una dualità, quella tra uomini e donne, ulteriormente sottolineata anche dal bianco delle camicie maschili e il nero dei chador femminili, come a indicare una divisione incolmabile segnata da un senso di sotterranea e pervasiva imposizione che si diffonde ovunque e segna entrambi i mondi nella loro solitudine, nella loro impossibilità di comunicare tra loro. In Fervor (2000), ad esempio, vediamo una donna solitaria che cammina in un luogo deserto, fino a incontrare un uomo altrettanto solo. Entrambi si sogguardano con timore e pudore, tra loro sembra nascere una scintilla di passione nascosta, ma ognuno prosegue in silenzio per la propria strada. Poi però i due si ritrovano in una sorta di teatro, tra folle di uomini e donne divisi da un lungo tendaggio nero che scorre lungo tutta una sala. Qui, dal palco, un oratore barbuto narra con vigore terrificante episodi coranici secondo i quali l’attrazione erotica tra un uomo e una donna è qualcosa da rifuggire come un peccato e una tentazione mostruosa. Nel frattempo, seppur separati, i due protagonisti sentono ognuno la presenza attrattiva dell’altro, si guardano e si cercano attraverso il velo divisorio semitrasparente, con riprese di grande fascino e intensità. Quindi l’oratore urla slogan veementi che i fedeli devono ripetere, e che ripetono con uguale fervore. Lei allora si alza, abbandona la platea in un gesto forse di rifiuto, forse di vergogna per il suo stesso desiderio. Alla fine del video, nessun lieto fine: lungo una strada cittadina, ancora una volta deserta, sempre i due s’incrociano, ma è come se il senso di solitudine e di colpa fosse penetrato anche dentro di loro, lasciandoli spaventosamente soli e distanti, ma forse – chissà? – ancora capaci di ritrovare speranza nell’immaginazione. Andando di là dalle schematizzazioni e dei ricorrenti stereotipi che vedono gli uomini esclusivamente come oppressori, Shirin Neshat, nei video di questa serie, evidenza sottotraccia, in modo anti dogmatico, come la repressione e il controllo sulle donne imposto dal regime iraniano (e da quasi tutto il mondo islamico) finisca per imprigionare anche gli uomini in ruoli altrettanto imposti e opprimenti: ruoli che li obbligano a comportamenti spesso non scelti, separandoli inesorabilmente dal mondo femminile. Non a caso l’amica attivista iraniana Rayhane Mianji Tabrizi mi ha più volte sottolineato che al movimento di protesta “Donne, vita, libertà”, nato dopo l’uccisione della giovane curdo-iraniana Mahsa Amini (2022), partecipano anche moltissimi uomini che si oppongono a loro volta alla dittatura degli ayatollah in nome della libertà. Questo video mi ha così fatto tornare in mente un episodio accadutomi molto tempo fa nell’oasi tunisina di Douz, lambita dalle dune del Sahara. Un po’ di nascosto, mentre osservavo di notte una magica festa per un matrimonio, il giovane che mi accompagnava mi sussurrò in tono confidenziale, triste e sommesso: “E io come farò a sposarmi? Qui le donne, per non essere considerate svergognate, devono stare chiuse in casa e se escono sono obbligate a far finta di non vedermi. Ma io come posso sperare in un matrimonio d’amore con una donna a cui non ho mai parlato, e che magari non ho neppure visto prima?”.

Con The Fury (2023), Shirin Neshat, ormai stabilmente residente negli USA, riflette nuovamente sulla condizione femminile, ma con un taglio più universale e politico. Nella prima parte del video vediamo una donna che si trucca con cura e poi danza sinuosamente, seminuda e vulnerabile al suono di una malinconica canzone persiana; intanto, alcuni militari seduti la osservano con aria tra il voglioso e l’inquisitorio, come in uno strano processo sospeso nel tempo. Poi lei si avvicina a un bel giovane soldato, e al quale sembrava aver dedicato la sua danza seducente; ma lui la umilia, e sprezzante le getta in faccia il fumo della sua sigaretta. All’improvviso tutto cambia: da “donna del desiderio”, la protagonista si trasforma in donna violata, livida e segnata da grossi ematomi, piegata, quasi incapace di muoversi, di alzarsi in piedi, nonostante la musica d’amore prosegua come prima. Così come prima non cambia l’atteggiamento e la postura degli uomini che la scrutano con sguardo sprezzante e gelido, tanto più crudele, voyeuristico e inquisitorio, perché segnato da un’indifferenza implacabile. Certo, osservando questo video, il collegamento più immediato che sorge spontaneo è quello con le molte donne processate, torturate e uccise negli ultimi tempi dalla famigerate “guardie rivoluzionarie” iraniane. Ma l’opera di Shirin Neshat rimanda anche alla drammatica realtà di moltissime donne di tutto il mondo: donne che, dapprima sognano magari la libertà o vengono illuse da un possibile amore, pe poi però si ritrovano sedotte con disprezzo, o massacrate, o ancora violentate ed esposte a sguardi carichi di ludibrio da parte di uomini che godono della loro debolezza e del loro dolore. In mente mi ritornano così, insistentemente, le molte immagini scattate con gioia e soddisfazione dai fotografi nazisti, mentre nel pogrom di Leopoli molte giovani donne ebree terrorizzate venivano picchiate, stuprate e spogliate lungo le strade della città. Per fortuna, nel video The Fury, la protagonista riesce a fuggire e, in un inatteso cambio di mondi e di tempi, raggiungere una strada di Brooklyn. E lì una donna – non a caso nera o mulatta – accoglie il suo dolore e lo trasforma in un urlo potente, in un grido di rivolta. La violenza vissuta dalla protagonista del video si trasfigura in un’altra forma di violenza ribelle: una danza collettiva ritmica e minacciosa, accompagnata dalle percussioni forti, arcaiche, quasi tribali del sonoro. Infine sopravanza una distruzione dove tutti – donne e giovani uomini – spaccano finestrini delle auto, rovesciano cassonetti della spazzatura, rompono con rabbia ogni cosa attorno. Come allora non ricordare le recenti rivolte negli USA dopo le uccisioni di neri da parte della polizia? Come non capire – sembra volerci dire questo video intenso – che dall’oppressione, dalle ingiustizie e dalle atrocità contro le donne, ma anche contro chi è “altro” o “diverso”, non possano nascere se non rivolte rabbiose e ulteriori violenze?
Politici, ma non didascalici, i lavori di questa grande autrice, minuta, gentile e tenace, non sono mai dogmatici, non vogliono illustrare tesi precostituite, ma giocano su registri profondi, che emozionano e danno da pensare mettendo in discussione le opposizioni binarie tra Oriente e Occidente, femminile e maschile, bene e male. Le sue opere abitano ambigue zone di confine, spazi intermedi sospesi tra sogno e realtà, memorie ancestrali e desideri di libertà che sfidano le culture dominanti, momenti dove il passato guarda al futuro e il futuro ricorda il passato. I corpi negati e velati si “svelano”, come se lei riuscisse, con un’operazione alchemica, a far emergere il nascosto dietro il manifesto; a rendere possibile ciò che rimaneva solo latente; a farci udire o almeno a intraudire ciò che giaceva celato nel silenzio più profondo; a sovvertire il profano fino a rivelarne la potente dimensione sacra. Nel video Rapture (1999), gli uomini, rinserrati nell’alto di una fortezza, cercano invano di fare le abluzioni purificatrici che gli permetteranno di pregare. Le donne invece, raggruppate nel deserto, levano i palmi delle mani su cui sono scritti i versi sensuali e intimi della poetessa Farrokhazad, poi si prostrano in preghiera, come se quei versi le avessero liberate da ogni impurità, mentre ovunque echeggia il maestoso canto di un brano del Corano. Ecco che qui, appunto, il profano si trasforma in sacro, la fortezza impenetrabile degli uomini si rivela un’opprimente prigione, mentre il deserto sassoso, da desolato che era, manifesta un’imprevista dimensione di libertà e di possibilità di fuga delle donne. Ma verso dove? Verso il mare, l’infinito, il possibile, l’immaginazione.
In copertina: Shirin Neshat, Rapture, 1999, Stampa ai sali d’argento, Copyright Shirin Neshat, Courtesy l’artista, Gladstone Gallery e Noirmontartproductions.
