Speciale
Occhio rotondo 54. Tattile
Nel 1943 il ventenne Ernst Scheidegger di stanza a Maloja per assolvere il suo servizio militare conosce Alberto Giacometti. Il pittore svizzero ha vent’anni più di lui, e questo incontro svolgerà un ruolo importante nella vita di Ernst. L’anno seguente Scheidegger comincia a dipingere, attività che non abbandonerà mai, intanto studia fotografia a Zurigo ed è allievo di Hans Finsler alla Kunstgewerbeschule. Vi incontra Max Bill, di cui diventa assistente. Werner Bishop, il grande fotografo svizzero, lo prende con sé come collaboratore. La loro sarà un’amicizia che durerà tutta la vita. Nel 2023 la Svizzera ha celebrato il centenario della nascita di questo artista e fotografo che ha fatto parte della Magnum, ma che è ancora sconosciuto a molti. Una mostra prima a Zurigo, poi a Lugano al MASI nel 2024, accompagnata da un bel catalogo (Ernst Scheidegger, Fotografo, ed. Casagrande) che ci fa riscoprire e in alcuni casi scoprire l’opera di questo magnifico autore. La storia fotografica di Scheidegger è stata curiosa. Come documenta il libro, il suo lavoro corre parallelo a quello dei fotografi della sua generazione: un’attenzione al mondo intorno a lui, in Svizzera, in Italia e in Francia. Sono ritratti di bambini, di uomini e di donne in quel lungo dopoguerra, scatti che risentono del naturale neorealismo che la generazione nata nei primi due decenni del Novecento si trova davanti a guerra mondiale terminata. Il suo occhio è lucido e empatico, ma mai compiaciuto. Come scrive nel saggio in catalogo Tobia Bezzola, Scheidegger conserva un rispetto per le persone che fotografa, che siano suonatori di un’orchestra svizzera in divisa o ragazzini di un carcere giovanile in Italia, mantiene un riguardo per loro, non li espone a uno sguardo pietoso o compassionevole, ne segnala invece i tratti umani in modo asciutto.
Non fa fotografia sociale anche se fotografa la società intorno a lui. Inoltre, possiede un tratto che gli proviene dal suo mestiere di pittore: attenzione alla composizione. Bezzola parla di “tatto”, indicando con questo termine il rispetto per i suoi soggetti, ma che forse si può allargare al senso stesso. Esiste infatti una pittura tattile. Bernard Berenson, il grande critico americano, aveva coniato la locuzione “valori tattili” per i pittori di cui s’era occupato al fine di indicare la sensazione di peso, rilievo e struttura delle loro composizioni pittoriche, sottolineando che sono proprio la linea e il chiaroscuro a svolgere questo ruolo nei loro quadri. Possiamo estendere al fotografo svizzero questa espressione? Le fotografie che ha scattato ad Alberto Giacometti lo giustificano. Quando a guerra finita rincontra a Parigi l’artista svizzero, scatta delle fotografie che sono non solo tra le più belle che ritraggono Giacometti, ma soprattutto quelle che mostrano la tattilità con cui l’artista lavora. In quel periodo Scheidegger è entrato alla agenzia Magnum grazie al suo mentore e amico Werner Bischof. Viaggia nel Mediterraneo, in Medio Oriente, nel Sud-Est Asiatico. È un fotogiornalista, alla pari di Robert Capa, Henri Cartier-Bresson: un periodo frenetico di lavori. Poi nel 1954 accadono in rapida serie due eventi che decidono della sua vita.
Bischof muore in un incidente d’auto sulle Ande peruviane il 16 maggio; nove giorni dopo Capa salta su una bomba antiuomo mentre accompagna un reparto di sminatori in Vietnam. Il servizio doveva essere di Ernst, ma lui aveva dovuto rinunciarci all’ultimo per un altro lavoro in Egitto: lui doveva essere al posto del collega in Indocina che si era detto stufo di fare il fotoreporter di guerra. Sono due eventi che colpiscono profondamente lo svizzero. Abbandona la Magnum e accetta un incarico di insegnamento alla Hochschule für Gestaltung di Ulma. Tuttavia non smetterà di fotografare, ma non si dedicherà più come prima al mestiere di reporter. Sarà il fotografo degli artisti, come documenta l’ultima parte del libro di Casagrande. Siamo alla metà degli anni Cinquanta. E Giacometti assume un rilievo particolare.
Alberto non è un artista come gli altri. Ha qualcosa che Ernst riesce a cogliere in modo unico, forse per via del suo riuscire a entrare nel vivo del lavoro dell’artista con distanza, proprio per la sua attenzione alla capacità tattile, che nel caso dello scultore e pittore della Val Bregaglia è assolutamente fondamentale. Non è forse Giacometti l’artista delle dita, che usa per scolpire e per dipingere, le dita che immerge nella materia per ottenere quelle figure filiformi che connotano le sue opere? E il modo con cui impugna e muove il pennello mentre dipinge, usando altrettanta materia pastosa immessa sulla tela, non è forse tattile? Ecco qui una delle fotografie più belle in assoluto dedicate a Giacometti: lì c’è tutto il modo di guardare di Scheidegger, scevro di ogni compiacimento estetico, e senza insistere sul suggestivo viso che Alberto possiede, oggetto prediletto di tanti scatti fotografici di grandi autori.
La fotografia di Ernst Scheidegger s’intitola: Lavorando a “Homme qui marche I”, ed è del 1959. Per ritrarlo Ernst è salito in alto, nel soppalco che c’è nello studio di Giacometti. Una intuizione perfetta. Così tutto è sotto, e insieme davanti. In primo piano, perché più vicina fisicamente all’obiettivo, è la grande testa in gesso poggiata sullo sgabello, sulla sinistra. Alberto sta ritoccando l’altra statua, ed è discosto, più in là, non al centro dell’immagine; il suo viso è nell’ombra. Appare simile all’uomo in marcia: i calzoni ricoperti di gesso, mentre il medesimo materiale è dappertutto nella stanza, a partire dal pavimento: a strati; lui stesso sembra una statua di gesso. Per via del punto di vista la statua sembra muoversi verso il suo autore. Il braccio di Giacometti si protende verso il suo collo: la statua è alta come lui.
Quello compiuto da Alberto pare un gesto paterno. A destra tutto è scuro, in ombra – due ombre ci sono pure sul pavimento. L’inquadratura ci permette di vedere le statuine per terra e quella sul tavolo a sinistra: inquadratura ampia, ricca di dettagli, focalizzata su due centri visivi: la testa da un lato, l’artista e la statua dall’altro. L’elemento tattile è dominante per via del gesso, dei gesti, degli oggetti che sono stati toccati dalle sue dita tutti intorno. Una fotografia che ci mostra come lavorava Alberto meglio di un film. Foto ferma, eppure in movimento, grazie a quell’inquadratura, così inusuale e così perfetta ed elegante: l’informe dell’arte di Giacometti ha preso una forma prima che sia portata a termine – se un termine mai esistesse, come sosteneva lo scultore e pittore. Questa è la bravura sottile e tattile di Ernst Scheidegger.
Ernst Scheidegger, Lavorando a “Homme qui marche I”, 1959, © Edizioni Casagrande e Stiftung Ernst Scheidegger-Archiv, Zurich.
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