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Afro, Burri e Capogrossi a Perugia

2 Giugno 2025

Nel 1955 il MoMA di New York organizza una mostra dedicata alla pittura europea contemporanea, The New Decade: 22 European Painters and Sculptors [link], a cura di Andrew Carnduff Ritchie, con l’obiettivo è di tracciare un bilancio di quanto accaduto nel mondo dell’arte del Vecchio Mondo dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ritchie osserva come le più forti tensioni politiche del dopoguerra abbiano avuto dirette ripercussioni anche sul piano artistico, in particolare, nei paesi dell’Europa occidentale, soprattutto in Francia, Italia e Germania Ovest, dove molti artisti hanno scelto la via dell’astrazione, anche come reazione alla retorica di una cultura figurativa di matrice fascista o nazista. I pittori italiani scelti a rappresentare tali prese di posizione radicali nei confronti del figurativo sono Afro Basaldella, Alberto Burri e Giuseppe Capogrossi. Ritchie ammirava particolarmente Afro da quando lo aveva scoperto in Italia nel 1948, ma certamente in quel torno di anni, i tre pittori sono riconosciuti tra le voci italiane più autorevoli – forse più all’estero che in patria – perché tra i pochi ad aver elaborato un linguaggio personale dotato di respiro internazionale, portavoce di tre modalità complementari di affrontare l’astrattismo (gesto, segno e materia), per questo identificati tra i protagonisti del fin troppo vasto universo che prende il nome di “informale”.

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Afro, Giardini d’infanzia, 1951. Tecnica mista su tela, 175x200 cm. Courtesy Galleria dello Scudo, Verona.

La presenza di Afro, Burri e Capogrossi alla rassegna newyorkese rappresenta un punto di arrivo di quella necessità di riposizionamento internazionale ricercato dall’arte italiana (come dalla critica) e avviato con la svolta stilistica compiuta dai tre, in modo pressoché simultaneo, alla fine degli anni Quaranta. Un cambio di rotta di certo profondamente legato tanto alle vicende storiche personali e nazionali, quanto al desiderio di instaurare un dialogo consapevole con i linguaggi delle avanguardie europee (storiche e contemporanee) mettendo finalmente da parte “autarchici” riferimenti alla tradizione nostrana nel tentativo di superare pratiche artistiche percepite come troppo ancorate al “prima”; un’esigenza che anima anche molta critica postbellica, orientata a rimuovere dall’orizzonte della storicizzazione ogni tendenza che si richiami alla pittura borghese ottocentesca, frivola e vezzosa, riscoperta proprio negli anni dell’entre-deux-guerres, così come al ritorno al mestiere o alla figura e al naturalismo fine a se stessi – istanze avvertite, se non altro, come troppo legate a un passato che si desidera lasciarsi alle spalle.

Partendo da tali presupposti, la mostra Afro, Burri, Capogrossi: alfabeto senza parole [link], in corso a Perugia, a Palazzo della Penna – Centro per le arti contemporanee fino al 6 luglio 2025, curata da Luca Pietro Nicoletti e Moira Chiavarini, si pone il compito di raccontare queste tre storie in parallelo, concentrandosi proprio sul momento di svolta stilistica dei tre artisti. Diversi per età, temperie e orientamenti, quello che accomuna quelle tre esperienze è il fatto di aver partecipato allo stesso clima culturale scandito da fascismo, guerra e ricostruzione vissuti da ognuno in maniera differente ma determinante rispetto alle proprie scelte stilistiche; terreno comune è la Roma del secondo dopoguerra dove essi lavorarono, crocevia di fermenti artistici e intellettuali, così come di relazioni internazionali; comune è il rivolgersi agli stessi maestri delle avanguardie storiche (in particolare Picasso, Matisse, Klee, Mirò) per esercitarsi nella ricerca di un nuovo stile; soprattutto comune è il fatto di aver operato un cambiamento radicale senza ritorno, costruendo nuovi linguaggi partendo dalle premesse figurative ed evolvendo da quelle, con un approccio empirico concentrato sul fare senza per forza sapere a cosa arrivare, ascoltando solo le ragioni del quadro. Le opere di questi tre artisti mostrano come la trasformazione dei linguaggi visivi sia scaturita da una profonda urgenza di rispondere al trauma del presente, dall’esigenza di «ricercare nuove parole» (come dichiarò Burri, nel 1956, a Toti Scialoja). Questo significa, per i tre – come per molti altri che operavano negli stessi anni, a cominciare da Lucio Fontana – ripensare l’arte con occhi nuovi e rimettere in questione il suo rapporto con il mondo esterno concependo l’opera come una entità autonoma, in cui spazio e forme si organizzano secondo logiche tutte interne ai confini del quadro. In un tale contesto, la progressiva sparizione della figura umana non appare secondaria e assume un significato anche esistenziale.

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Afro, Burri, Capogrossi: alfabeto senza parole. Installation view con opere di Afro. Ph. Alessandro Sarteanesi.

In questo senso, il più radicale appare Capogrossi, il più anziano dei tre, pittore già affermato e molto apprezzato negli anni Trenta nell’ambito della Scuola romana per le sue opere al confine tra tonalismo e realismo magico, che passa – out of the blue e ormai vicino ai cinquant’anni – a inventare un alfabeto visivo del tutto nuovo. Afro, dal canto suo, compie un percorso più pausato, transitando dall’impianto figurativo appreso da Corrado Cagli e da Scipione – ulteriormente alimentato dalla pittura veneta e spagnola – a un’attenzione per Van Gogh e Matisse, approdando infine a un linguaggio postcubista che informa anche la sua fase “astratto-concreta” nel Gruppo degli Otto (composto da Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova raccolti attorno a Lionello Venturi). Burri, che tra i tre è il più giovane e anche colui che avvia più tardi la propria carriera artistica – comincia infatti a dipingere da medico mentre è prigioniero a Hereford, in Texas, tra il 1943 e il 1946 – è però il più repentino nell’abbandonare il figurativo: dopo una breve fase di sperimentazione che guarda a figure biomorfiche di Miró e Klee, si orienta rapidamente verso l’uso di materiali eterodossi (catrame, sacchi, legno) per costruire i propri dipinti.

La sensazione che ho provato percorrendo le sale della mostra perugina, soprattutto nelle prime, è quella di assistere a una vera e propria gestazione. Gli anni immediatamente successivi alla guerra – che vedono la nascita della Repubblica e della Costituzione – sono, per i tre protagonisti, gli anni della ricostruzione anche culturale e, nello specifico, della costruzione di nuovi linguaggi espressivi. Ogni opera sembra raccontare un capitolo di questa rinascita: emerge la determinazione di rimettersi al mondo, esplorando strade diverse e confrontandosi con molteplici modelli. Questo carattere di sperimentazione laboratoriale è ben visibile nella terza sala, dove il confronto tra le opere di Afro e di Burri – ancora lontane dalla definizione dei loro linguaggi più riconoscibili – restituisce il senso di momento di passaggio. Ognuno di loro assimila elementi dai rispettivi modelli culturali, rielaborandoli e riadattandoli in funzione delle proprie esigenze espressive. Di fronte, Capogrossi sembra muoversi come su una partitura musicale, mentre gioca con i segni nella ricerca di quello che diventerà il suo marchio distintivo.

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Giuseppe Capogrossi: Superficie G. 87, 1949. Tempera su carta su tela (marouflage), 168 x 88 cm. Collezione privata; Superficie 019, 1949. Olio su carta intelata (marouflage), 145 x 84 cm. Roma, Fondazione Archivio Capogrossi; Superficie 018, 1948. Olio su carta intelata (marouflage), 41 x 33 cm. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.

L’intento dei curatori è, dunque, quello di mettere in luce come le metamorfosi stilistiche di questi artisti non siano state brusche o repentine – neppure quando lo sembrano – ma piuttosto frutto di progressivi momenti di riflessione personale e pittorica. Afro, Burri e Capogrossi sono seguiti passo dopo passo nella loro evoluzione, permettendo di rintracciare, da un lato, elementi già presenti in nuce nelle opere figurative, e dall’altro, tracce latenti che sopravvivono nelle successive opere astratte.

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Giuseppe Capogrossi: Ritratto muliebre, 1932. Olio su tavola, 76 x 54 cm. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea; Superficie 257, 1957. Olio su tela, 97 x 145 cm. Verona, Galleria dello Scudo.

Prendiamo l’esempio di Capogrossi. La sua svolta astratta è sempre stata vista, anche agli occhi dei contemporanei, come un cambiamento improvviso e imprevisto. Del resto, se ci soffermassimo solo sulla prima sala di Palazzo della Penna, dove sono accostati il Ritratto muliebre del 1932 (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna) e la Superficie 257 (1957, Verona, Galleria dello Scudo), si farebbe fatica a pensare che siano opere dello stesso autore. Lo scarto è incredibile, ma invece è bello soffermarsi a osservare da vicino alcuni dettagli di entrambe le tele e cogliere sorprendentemente elementi di continuità.

Il pattern decorativo dell’abito della ragazza riemerge quasi come un sedimento nel celeberrimo “segno”, una sorta di alfabeto inventato modulabile in infinite combinazioni e modalità di “scrittura”. Tuttavia, ciò che più mi attrae non è tanto la vaga assonanza tra gli elementi formali – l’ornamento carta da zucchero del tessuto e la forma dentata del segno – quanto il trattamento dello spazio di risulta blu scuro tra gli elementi ornamentali dell’abito (che sarebbe poi il colore di fondo, ma che nel dipinto si giustappone, anzi spesso è campito sopra la parte chiara) e i tratti neri (a volte anche rossi), accostati in verticale e in orizzontale, che formano una sorta di catena che congiunge i due “pettini” contrapposti e che insieme formano una “ghirlanda” che scende dall’alto verso il basso.

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Giuseppe Capogrossi: Ritratto muliebre, 1932, dettaglio (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna); Superficie 257, 1957, dettaglio (Verona, Galleria dello Scudo).

La mostra è, si potrebbe dire, tanto il racconto di come Capogrossi sia passato dalla maniera del Ritratto muliebre alle Superfici, quanto la dimostrazione di come, in filigrana, qualcosa del Ritratto muliebre rimanga ancora rintracciabile nelle Superfici. Lo stesso discorso vale per Burri: l’organizzazione spaziale della Festa dei morti (1945, Città di Castello, Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri) ritorna, con analoghi accorgimenti compositivi, nel Sacco (1953, Città di Castello, Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri). Qui, l’alternanza di materiali eterogenei, l’impiego di diversi tipi di juta, cuciture, campiture nere e innesti rossi costruiscono la superficie come un campo di tensioni formali, secondo logiche già adottate nei dipinti figurativi. È osservando questa accoppiata che lo spettatore si può accorgere di come Burri operi uno spostamento dal paradigma della rappresentazione a quello della presentazione: sostituisce il colore con la materia – usata in senso pittorico – e ne fa il veicolo di una nuova forma di astrazione. Si tratta di quella «irriducibile presenza», di cui parla il pittore, che non si può dire o raccontare, ma solo vedere e vivere.

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Alberto Burri: Festa dei morti, 1945. Olio su tela, 48,5 x 55,5 cm. Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Città di Castello; Sacco, 1953. Sacco, olio, stoffa, vinavil su tela, 88 x 102 cm. Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Città di Castello. Ph. Alessandro Sarteanesi.

Quanto ad Afro, le pennellate fluide e gestuali del suo Foro romano (1935, collezione privata, courtesy Archivio Afro, Roma) conservano una libertà espressiva che rimane intatta anche in Cronaca nera III (1953, courtesy Galleria dello Scudo, Verona). Una libertà che, nel frattempo, si è nutrita di molteplici suggestioni: dal neocubismo – lingua franca della pittura antifascista europea e italiana nel secondo dopoguerra – fino all’incontro con l’arte americana, in particolare con Arshile Gorky, che Afro ebbe modo di conoscere già nel 1950 durante il suo soggiorno newyorkese. In questa fase, così come sarà nelle opere a cavallo del decennio, è il gesto a guidare la costruzione del quadro, mentre il colore, dato per velature e reso atmosferico, denuncia il legame profondo con la tradizione pittorica italiana. Si tratta di una idea di pittura che muove dall’equilibrio tra «la leggerezza, il respiro di una evocazione, l’improvviso soprassalto della memoria» e il rigore della forma, così come dichiarato da Afro stesso.

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Afro, Via dell’anima, 1962, particolare. Tecnica mista su tela, 100 x 110 cm. Collezione privata, courtesy Archivio Afro, Roma.

Se i dipinti segnano il risultato delle meditazioni pittoriche dei tre artisti nel passaggio dal figurativo all’astrazione, per capire a fondo come tali trasformazioni siano avvenute è alle opere su carta che bisogna far riferimento. Da questo punto di vista, le sezioni più intriganti della mostra sono proprio quelle dedicate ai disegni in quanto permettono di entrare davvero nell’officina dei singoli artisti. Le opere grafiche consentono di cogliere tra le righe le fasi di passaggio da un momento all’altro, fanno scoprire gli esperimenti, rivelano gli errori, ma svelano anche le intuizioni e, soprattutto, i riferimenti culturali, anche inaspettati. È così, ad esempio, che si viene colpiti da alcune sperimentazioni di Burri di sapore surrealista, così come da alcuni disegni che sembrano riecheggiare Klee ma che appaiono come l’esito di una sorta di scrittura automatica (per esempio i disegni del 1947-48 del Fondo Annibale Bucchi).

A certo surrealismo e a Klee sembra avvicinarsi anche Afro che però rimane più attento, nella sua evoluzione stilistica, alle nature morte di Braque e Severini, così come a Picasso in coerenza con il suo percorso che lo vede passare per le file del neocubismo del Fronte Nuovo delle Arti e poi del Gruppo degli Otto. Capogrossi è invece, pur interessato al cubismo, legatissimo a Matisse, sentito come guida ideale mentre, messa da parte la pittura in una fase di cocente crisi creativa, comincia a dedicarsi al disegno come esercizio di variazione sul tema, quasi a voler sondare le infinite possibilità astrattizzanti del tratto e della linea. Muovendosi tra rigore e invenzione, l’artista romano inizia a combinare elementi prelevati dal reale che lo porteranno, asciugando e ricomponendo, a distillare il suo celeberrimo segno.

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Giuseppe Capogrossi: Studio di finestra (verso: Frammento di composizione neocubista), 1948-49. Tempera su carta, 48,2 x 22,7 cm. Roma, Fondazione Archivio Capogrossi; Studio di finestra (verso: Studio neocubista), 1948-49. Tempera su carta, 48 x 32,5 cm, Roma, Fondazione Archivio Capogrossi; Studio di finestra (verso: Frammento di studio neocubista), 1948 ca. Tempera su carta, 30,5 x 22,5 cm. Roma, Fondazione Archivio Capogrossi.

Questa attenzione al disegno consente anche di restituire ai tre artisti una dimensione più quotidiana, meno epica e più aderente alla pratica costante del fare arte. Emerge, tra i fogli, la necessità condivisa di mettersi in discussione costantemente, alla ricerca di un linguaggio che necessita di essere ricostruito dalle basi. Visto da questa prospettiva, l’ABC evocato dal titolo della mostra può essere inteso come una ripartenza dai fondamentali costituiti dagli elementi primari della pratica artistica che ho richiamato all’inizio di queste mie riflessioni: gesto, segno e materia.

All’uscita dalla mostra la mia impressione è che i curatori siano riusciti nel loro scopo e che questa partita a tre funzioni. Afro, Burri e Capogrossi si rivelano una triade paradigmatica delle direzioni imboccate dall’arte italiana più avanzata a partire dal 1946, come più volte del resto evocato dalla critica; tre declinazioni del nuovo alfabeto pittorico, ma anche tre risposte personali e complesse alle lacerazioni del proprio tempo, oltre che ai tormenti e alle insicurezze che attanagliano la mente di ogni artista, di ieri come di oggi. Il loro passaggio all’astrazione è una reazione profonda alla condizione presente, frutto di riflessioni, ripensamenti, crisi. È per certo un gesto di responsabilità artistica, ma indubbiamente anche politica.

Completa la mostra il bel catalogo edito da Magonza, a cura di Luca Nicoletti e Alessandro Sarteanesi, con testi di Andrea Cortellessa, Francesco Donola, Mattia Farinola, Francesca Romana Morelli e Gaia Simonetto, e una conversazione tra Moira Chiavarini, Tommaso Mozzati e Marcello Barison. I contributi critici offrono chiavi di lettura seri e stimolanti che integrano e approfondiscono l’evoluzione storico-artistica dei tre artisti, restituendo un quadro ricco e sfaccettato di una delle stagioni aurorali dell’arte contemporanea italiana.

AFRO BURRI CAPOGROSSI. ALFABETO SENZA PAROLE
A cura di Luca Pietro Nicoletti e Moira Chiavarini
Perugia, Palazzo della Penna – Centro per le arti contemporanee
18 aprile – 6 luglio 2025

In copertina: Giuseppe Capogrossi, Superficie 14, 1953. Olio e tempera su tela, 65,5 x 50 cm. Courtesy Repetto Gallery

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