America: artisti nel deserto
Il territorio noto come Far West, ovvero il lontano ovest degli Stati Uniti d’America, non è più così lontano, almeno da quando sono stati impiantati i primi binari delle ferrovie a metà dell’Ottocento, il periodo da cui si apre American Frontier: Experiments in the Desert (plug_in, 2025), l’esplorazione di Emanuele Piccardo e Luca Guido sugli “esperimenti” di architetti e artisti nel deserto, racchiusa a forza in un volume che, con le sue 388 pagine a colori, il formato di 22 x22 cm. e la gabbia grafica minimalista di pieni e vuoti evoca il senso di spaesamento nei confronti della vastità di una natura ancora in parte incontaminata, con cui l’uomo tenta di stabilire un dialogo, evidentemente impari. Come i pionieri in cerca di conquista che si avventuravano nella American Frontier, anche nota come Old West o Wild West, Piccardo e Guido restituiscono un’idea del West come terra di confine e stato mentale, attraverso centinaia di immagini, principalmente documentazioni di progetti architettonici e di operazioni di Land Art del Novecento, ma anche dipinti e fotografie provenienti da prestigiose istituzioni museali statunitensi.
Il libro, in inglese, si apre con una sezione introduttiva che comprende due saggi per ognuno degli autori e un apparato iconografico di documenti ottocenteschi come vedute topografiche, i dipinti di Frederic Remington e George Catlin, tra gli altri, che raffigurano indiani e cowboy, assalti di carrozze e cacce ai bufali, e fotografie dell’epoca delle spedizioni, come quelle di William Henry Jackson, mentre in altre zone del paese nordisti e sudisti si scannavano nella guerra civile. Seguono la sezione “Dialogues” con interviste agli artisti Charles Ross, Clark Richert e Kim Stringfellow, e al critico cinematografico Alberto Morsiani, e una sezione “Archive” che ripropone tre articoli degli anni Settanta, uno di Reyner P. Banham su Paolo Soleri apparso su New Society nel 1976 e due di Germano Celant, su Michael Heizer e Christo, da Casabella del 1972. Si apre poi una carrellata, che occupa quasi due terzi del libro, di 41 casi studio in ordine cronologico, dagli anni Venti a oggi, senza testi di accompagnamento, di cui però sono riprodotte preziose immagini.
L’eterogeneità del materiale consente al lettore di trovare un proprio canale di lettura delle e tra le immagini, collegando tagli e dettagli, osservando analogie e convergenze, in altre parole respirando lo spirito di frontiera che emerge dai progetti selezionati. Uno spirito, questo, che risente della mediatizzazione di questi territori e del mito del Far West nell’immaginario collettivo globale, come emerge dall’inclusione, tra i casi studio, di alcuni film fondativi del cinema Western: The Big Trail (1930) di Raoul Walsh, nonché Stagecoach (1939) e Fort Apache (1948) di John Ford. Tra carovane, saloon, territori impervi e rappresentazioni denigratorie dei Nativi americani come selvaggi, si erge uno degli eroi americani per eccellenza: John Wayne, prototipo del cowboy impavido e avventuriero. Sequenze di frame da questi film ci ricordano quanti cliché hanno sedimentato nella cultura occidentale, bianca, patriarcale e di origine industriale, con il motore a vapore a strumento simbolico di dominio sull’altro e sulla natura.

Gran parte degli interventi di architetti e artisti riportati nel libro sembrano contrapporsi a questa prospettiva ingiusta, guardando al West come territorio di riconsiderazione della cultura che ha contribuito, suo malgrado, a plasmare. Si pensi ai progetti architettonici di Frank Lloyd Wright (Ocotillo Desert Camp, 1928 e Taliesin West, 1938, entrambi in Arizona), Richard Neutra (Kaufmann House, 1946-47), John Lautner (Desert Hot Springs Motel, 1949), e ancora le dimore di Donald Wexler e Richard A. Harrison, Albert Frey, Kendrick Bangs Kellogg, Bart Prince e Jones Studio. Ognuno a suo modo, sono tentativi di stabilire un contatto con la natura, senza modificarla, utilizzando materie prime presenti sul territorio, nonché forme e strutture fondate su un vocabolario geometrico primario, come nel tentativo di inserirsi in un disegno cosmico più ampio che in quei deserti, vallate e canyon sembra trovare un punto di snodo, una terra dove tutto ha un inizio e una fine, come ben incarna il codice dello stato dell’Arizona: AZ.
Questa idea della American Frontier come metafora del ciclo vitale emerge ancor più chiaramente dai casi studio riconducibili alla Controcultura. Si tratta degli insediamenti di Paolo Soleri ispirati alle visionarie tecnologie di Buckminster Fuller, ovvero la Dome House (1949), Cosanti (1955) e Arcosanti (1970), enclave utopiche che coniugano il terrore per l’energia atomica con il desiderio di conquistare lo spazio, due fenomeni – assenti nel libro – che negli anni Cinquanta trovano qui un luogo di eccezione se si considerano i test nucleari nel Nevada e i presunti avvistamenti di UFO, rivisitati in chiave retrofuturisica nel recente film Asteroid City (2023) diretto da Wes Anderson. E poi la Drop City (1965), utilizzo esemplare delle cupole geodetiche fulleriane in prospettiva hippie, come strutture sostenibili (se non in termini ambientali, almeno economici), che consentivano a chiunque di costruire la propria abitazione e fondare nuova comunità, lasciando (dropping out) le città, chiudendo un capitolo e un’epoca, dalla A alla Z, appunto, per ricominciare da capo.
Dalla Yosemite Valley al Grand Canyon, dal Deserto del Gran Bacino al Grande Lago Salato, dalla Monument Valley alla Valle del Colorado, i territori della American Frontier sembrano luoghi dove il tempo si è fermato, spazi eterei eppure così vividi nelle immagini pubblicate nel libro. Si tratta di luoghi che sarebbe impossibile attraversare a piedi ed è per questo che la loro storia e la nostra percezione si intrecciano con l’evoluzione delle vie di collegamento, ovvero le ferrovie, le strade – alcune di queste leggendarie come la Route 66 e la Scenic Byway 128 – e le vie aree, e così i mezzi di trasporto, dalla locomotiva all’automobile, dal cavallo alla motocicletta, dalla mongolfiera all’aereo. Che è anche una storia di compagnie commerciali quintessenziali della cultura americana, che a questi luoghi hanno associato la loro identità: le auto Ford, Cadillac e Dodge, le moto Harley Davidson, le sigarette Marlboro – delle cui campagne pubblicitarie incentrate sul mito del cowboy si approprierà Richard Prince –, la birra Budweiser e molti altri.
Sebbene facciano leva su un lifestyle ribelle che a tratti allude all’illegalità, questi brand mercificano il mito del Far West nell’epoca del boom economico, ma la Controcultura lo rilegge in funzione anticonsumistica. Il deserto diventa un luogo maledetto e misterioso come quello di “Riders on the Storm”, brano dei Doors del 1971. Qui Jim Morrison evoca un “killer on the road”, forse Charles Manson, la cui interpretazione apocalittica del brano “Helter Skelter” (1968) dei Beatles lo aveva portato a orchestrare una serie di carneficine: la fine dell’idillio del peace-and-love. Manson, che viveva in un ranch a Los Angeles usato come set cinematografico, profetizzava l’avvento di una guerra tra bianchi e neri, durante la quale lui e le concubine della sua Family sarebbero fuggiti a bordo di dune buggy nella Valle della Morte, salvandosi. Una visione distopica è anche quella offerta dal collettivo Ant Farm, il cui Cadillac Ranch (1974) in Texas, 10 automobili piantate a terra come precipitate dal cielo, è il perfetto anti-monumento al Far West mediatizzato e brandizzato.

Dominano, tra i casi studio, i principali interventi di Land Art della fine degli anni Sessanta e dei Settanta. Si tratta di manipolazioni del territorio piuttosto massive a volte, come Double Negative (1969-70) di Michael Heizer nel Nevada e la Spiral Jetty (1970) di Robert Smithson nello Utah, rispettivamente due canyon di 15 metri il primo e una spirale di 460 metri sul Grande Lago Salato il secondo, entrambi realizzati con l’intervento di ruspe sulla base di una progettualità che ha visto un artista orchestrare un team di geologi, ingegneri e tecnici. Scettici nei confronti delle istituzioni artistiche e dello statuto dell’opera d’arte come oggetto, oltre che mossi dal desiderio di confrontarsi con l’immensità della natura, questi artisti fanno parte di una generazione che enfatizza il processo e l’esperienza rispetto al prodotto finale. È il caso di coloro che prediligono l’impermanenza, come Walter De Maria che in Mile Long Drawing (1968) traccia a gesso due linee parallele di un miglio, o Dennis Oppenheim che con Whirpool (1973) rilascia in cielo anelli di vapore concentrici.
Nel tentativo di individuare una via italiana alla American Frontier, forse per identificarvisi, Piccardo e Guido hanno inserito anche tre progetti di artisti italiani (senza contare Soleri naturalizzato americano dagli anni Cinquanta). Si tratta di un regista, un architetto e un fotografo, di tre generazioni diverse: Michelangelo Antonioni, Gianni Pettena e Francesco Jodice. Di Antonioni sono riprodotte alcune rare foto scattate nelle fasi di scouting dei luoghi dove avrebbe girato Zabriskie Point (1970), il suo film sulla Controcultura americana, dal nome dall’area paesaggistica più emozionante della Valle della Morte. Di Pettena, figura di primo piano dell’architettura radicale italiana come progettista-teorico, figurano Tumbleweed Catcher (1972), un proto-bosco verticale in miniatura a Salt Lake City, e About Non Conscious Architecture (1973), fotografie dal finestrino durante un viaggio in auto dallo Utah alla Monument Valley. Su simili vedute ritorna l’obiettivo cinico di Jodice in West (2000-2022), che vi ritrova cliché da cartolina e rifiuti post-industriali.
Sebbene quello di Jodice sia l’ultimo caso studio, tra il colophon e la terza di copertina compare un’altra fotografia, anche questa di un italiano, Gianfranco Gorgoni, dal Getty Museum. L’immagine in bianco e nero, del 1970, mostra Heizer di schiena, il corpo schiacciato contro un enorme macigno, le braccia spalancate come a volerlo abbracciare. Come si evince dal titolo, Heizer cerca, in realtà, di misurare il masso, utilizzando il proprio corpo come unità di misura, ma nel farlo sembra che lo stia, in effetti, abbracciando, un gesto funzionale alla progettazione di un qualche suo intervento di Land Art, ma dal valore profondamente simbolico. Insieme all’immagine di copertina, una veduta zenitale su un minuscolo De Maria lungo le sue linee parallele, anche lui a braccia aperte, da qui traspira lo spirito della American Frontier che gli autori di questo volume hanno saputo cogliere, il vano tentativo dell’uomo di mappare una natura sconfinata, non necessariamente per addomesticarla, ma per comprendere il senso della propria esistenza.
In copertina, Paolo Soleri, Dome House, ph. Julius Shulman, J. Paul Getty Trust, GRI.
