Pecunia (non) olet?

12 Febbraio 2014

Perché un’organizzazione non profit dovrebbe preoccuparsi dell’origine delle sue risorse? E in particolare, perché dovrebbe preoccuparsi di chi sono e cosa fanno le aziende che la sostengono?
In un passato non ancora remoto si sosteneva che le imprese, svolgendo una determinata attività, producessero un certo tipo di “danni” sociali o ambientali (la definizione “esternalità negative” non era ancora stata coniata) e avevano dunque il dovere morale di “fare delle buone azioni”.

 

In passato la logica del doppio binario (fuor di metafora, una cosa è come i soldi li guadagno e una come li spendo) andava per la maggiore, sia sul lato aziende che sul lato organizzazioni non profit (ONP); in tempi recenti la Bill & Melinda Gates Foundation è stata al centro di una bufera mediatica perché separava le logiche di selezione delle attività di beneficenza da quelle per le iniziative per far fruttare il patrimonio: semplificando, è stata accusata di essere incoerente perché erogava fondi per migliorare il mondo, ma investiva in imprese che lo danneggiavano.

 

Il rovescio della medaglia di questa logica era da un lato che un’organizzazione non profit non doveva preoccuparsi dell’origine dei contributi che riceveva e dall’altro (e forse più importante) che si dava per scontato che un’organizzazione non profit avesse un ruolo tutto sommato marginale nella partnership con l’impresa: il suo compito era, e doveva rimanere, quello di ridurre (parzialmente) il danno.

 

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e oggi le organizzazioni non profit (ONP) oltreché rappresentare, ora come allora, un prezioso sostegno a chi è in difficoltà sono in molti casi veri e propri propulsori di cambiamento sociale. L’attività di advocacy, le campagne di denuncia e sensibilizzazione, la gestione delle emergenze, l’educazione ai diritti, il sostegno ad un’imprenditoria più equa nel sud del mondo; o ancora l’attività di ricerca in campo medico per combattere le malattie rare sono solo alcune delle attività che molte ONP hanno sviluppato nell’ultimo mezzo secolo, ottenendo risultati prima impensabili.

 

Molte ONP hanno quindi di fatto rivalutato il proprio ruolo nella società e aggiornato la propria missione: da associazioni benefiche (comunque sempre prezioso supporto agli ultimi) a protagoniste del cambiamento in un mondo globalizzato in cui le reti (di comunicazione e di relazione) hanno rappresentato per molte di loro la possibilità di arrivare nei luoghi più remoti della terra e di ottenere casse di risonanza formidabili (basti pensare per esempio a come le associazioni ambientaliste o quelle a difesa dei diritti umani abbiano saputo mobilitare milioni di persone attraverso la rete).  

 

Per tutti questi motivi le organizzazioni non profit, oggi più che mai, vogliono, e devono, essere forti, indipendenti e coerenti (oltreché contare fra le proprie fila personale, attivisti e volontari appassionati e competenti).

 

Ecco perché oggi per queste organizzazioni si pone il tema dell’origine delle proprie risorse: non preoccuparsene le espone al rischio di incoerenza con la propria stessa missione e al rischio di danneggiare la propria (preziosissima) reputazione.

 

Ma come fare? E fino a che punto si può davvero verificare l’operato di un’azienda? O ancora, come uscire da una logica di contrapposizione senza strumentalizzazioni reciproche? Queste alcune delle domande più frequenti che le ONP si pongono quando si avvicinano al tema dell’etica e del rischio reputazionale applicati al corporate fundraising. Dalla personalizzazione più estrema (“valuterà il Presidente caso per caso”) alla pretesa della più assoluta oggettività (“ci vogliono criteri uguali e obbligatori per tutti”) si incontrano le posizioni e le soluzioni più diverse. Fra queste, una delle strategie che ha avuto la maggior diffusione a livello internazionale è quella di definire una serie di principi e criteri in gran parte dipendenti dalla missione e dai valori di riferimento propri di quell’organizzazione che, opportunamente pesati, conducono alla formulazione di una valutazione complessiva a supporto della decisione finale (cd. rating dei donatori).

 

Ecco allora che la missione e i valori dell’organizzazione assurgono a vera e propria carta d’identità della stessa, contribuendo a orientare da un punto di vista strategico e operativo non solo le attività svolte dall’ONP sul campo ma anche quelle di fundraising. A seconda della missione e dei valori dell’organizzazione di cui si tratta, l’azienda potenziale donatrice o partner viene messa sotto la lente dal punto di vista del settore di appartenenza e del suo comportamento: e così, estremizzando un po’, la produzione di tabacco può fermare un’ONP che si occupa di ricerca biomedica, ma magari non ne ferma una che si occupa invece di attività culturali; o ancora un’impresa che inquina molto non potrà sostenere un’associazione ambientalista, ma magari potrà sostenerne una che si occupa di tutt’altro.

 

Ultima frontiera di questo complesso intreccio di valori, criteri, pesi, rischi e opportunità è rappresentato dal coinvolgimento (tecnicamente engagement): un’ONP con grande capacità di influenza, in alcuni casi decide di accettare il sostegno di un un’impresa che mostri comportamenti contrari alla sua missione, ma condiziona la sua collaborazione alla sottoscrizione da parte dell’impresa stessa di un impegno nell’intraprendere un percorso concreto, sostanziale e formalizzato in appositi accordi, per il potenziamento della propria etica e responsabilità. Celebre a questo proposito il caso WWF International e Coca Cola Company. L’azienda, che con i suoi imbottigliatori utilizza circa 300 miliardi di litri d’acqua all’anno per la produzione di più di cento marchi di bevande, da anni era sotto accusa per l’inquinamento prodotto dagli scarichi a danno delle popolazioni rurali, soprattutto in India. Grazie ad un accordo e al know how in materia di WWF, Coca Cola si è impegnata a ridurre la quantità d’acqua utilizzata nei propri processi produttivi e far sì che tutta l’acqua comunque utilizzata venga scaricata a livelli di qualità tali da consentirne l’utilizzo in agricoltura e nell’acquacoltura. Avviata alcuni anni fa la partnership è stata recentemente rinnovata grazie ai buoni risultati ottenuti.

 

Un tema chiave, ricco e articolato dunque quello della selezione etica dei donatori (e partner) delle ONP; un tema che sempre più spesso entra anche nell’agenda delle ONP e dei fundraiser italiani.  E per questo rilancio qui un’osservazione e uno spunto di lavoro emerso recentemente in un seminario che ho avuto la fortuna di coordinare su questo argomento: e se, in ultima analisi, il risultato di un percorso di selezione etica dei sostenitori portasse paradossalmente le imprese a dare i loro fondi a chi “fa meno il difficile”? Perché allora non provare a superare questa (potenziale) criticità coinvolgendo le ONP italiane nella definizione di una piattaforma minima di requisiti che ogni ONP può richiedere alle aziende con cui interloquisce (cui poi eventualmente si sommerebbero criteri specifici in grado di riflettere le peculiarità di ciascuna ONP)?

 

Questo articolo è comparso per la prima volta sul sito di Avanzi. Quella pubblicata ne è la versione aggiornata inviataci dall'autrice.

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