Taiwan e la Terza guerra mondiale

22 Settembre 2025

“L’IA sta cambiando i calcoli della Cina riguardo a un’invasione di Taiwan?  Se la rivoluzione dell’IA accelera, l’esercito cinese rimarrà indietro? Da un punto di vista ottimistico, ciò potrebbe dissuadere la Cina, poiché avrebbe perso la partita. Da un punto di vista pessimistico, potrebbe spingerla ad agire più rapidamente, poiché saprebbe che è ora o mai più: se non conquista Taiwan adesso, rimarrà indietro. In ogni caso, si tratta di un argomento molto importante che non è stato approfondito a sufficienza. Non riflettiamo sull’impatto dell’IA sulla geopolitica. Non riflettiamo sul suo impatto sulla macroeconomia.” 
Chi parla è Peter Thiel, mente della Silicon Valley, finanziatore dell’IA, fondatore di Palantir, l’impresa-chiave del sistema di controllo militare americano mediante l’analisi dei big data. La sua frase serve a capire l’importanza per l’America e per tutti noi della questione Taiwan. E per capirlo davvero, occorre leggere il denso libretto di Kerry Brown, Perché Taiwan conta (Einaudi 2025). Specialista della Cina e di Taiwan, studioso e diplomatico britannico a Pechino, Brown ne scrive una breve storia che arriva alla domanda essenziale: la Cina invaderà la piccola isola? Farà come ha fatto la Russia in Ucraina? E con quali conseguenze?

Il parallelo non sembri azzardato. La Cina di Xi rivendica Taiwan come propria e non ne ammette l’indipendenza, come la Russia di Putin pretende che l’Ucraina sia russa, o almeno un suo stato vassallo. Il problema sarà, se l’America e i suoi alleati reggeranno all’invasione minacciata e risponderanno: ma come? Nel caso dell’Ucraina, l’America trumpiana ha cambiato idea e la base MAGA con lui: quella è una terra che spetta alla Russia nello scacchiere dei grandi spazi imperiali. Sarà lo stesso con Taiwan e la Cina?

Geopolitica e tecnologia, a Taiwan stanno insieme in modo ancora più diretto che in Ucraina. Taiwan, infatti, è il principale produttore mondiale di microchip, la materia prima intelligente di ogni prodotto industriale moderno. Come è avvenuto che una piccola isola potesse tanto? Facciamoci guidare da Brown: “Lo Hsinchu Science Park… Un complesso di massicci e severi edifici… un cartello invita i pedoni a seguire la green route tra il Morris Chang Building e la grande fabbrica accanto… questo particolare parco ha qualcosa in più, qualcosa che ha acquisito nel tempo dopo essere stato creato nel 1980… una delle aziende più quotate al mondo, responsabile dell’8% della produzione economica totale di Taiwan e del 12% delle sue esportazioni. Soprattutto, si trova al centro dell’economia globale…forse non lo sapete, ma è probabile che in questo momento abbiate in tasca uno di questi microchip anche voi”.

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Basta questo per spiegare il braccio di ferro su Taiwan tra Cina e resto del mondo? Non proprio, ma certo alza la posta in gioco, e di molto. Che accadrebbe se la TSMC, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, cessasse di funzionare? il mondo si fermerebbe, non solo Taiwan che pure è 14° per PIL a livello globale. Questo gioco geopolitico e geoeconomico si somma alle questioni identitarie e politiche dell’isola. Nata da una popolazione autoctona, dal 1300 coloni provenienti dal continente cinese vi si insediano. Poi vengono gli olandesi e gli spagnoli. Poi la dinastia Qing la trasforma in prefettura cinese e in seguito in provincia, pur con parziale autonomia. C’è poi l’occupazione giapponese e infine, alla vittoria di Mao nella guerra civile del 1949, la fuga di Chiang Kai-shek che qui si insedia. Quando entra in campo l’America? Con la guerra di Corea, per evitare una nuova offensiva comunista gli Stati Uniti iniziano a proteggere militarmente e politicamente Taiwan. Sono quindi settant’anni di sostegno, e ciò rende la posizione statunitense su Taiwan oggettivamente differente da quella sull’Ucraina. Anche se Taiwan perderà il seggio all’ONU a favore della Cina nel 1971, e tuttora non è riconosciuta da molti Paesi. Ma nel frattempo avanza la democrazia, finita l’epoca del governo nazionalista di Chiang, e Taiwan diventa un emblema della democrazia nei confronti del comunismo cinese. A Taiwan si fronteggiano due partiti e due posizioni: quella più conciliante con la Cina che pure continua a rivendicarne il possesso, e quella intransigente che vuole l’autonomia dalla Cina costi quel che costi. Al momento è questa la posizione che prevale (a partire dal 2014 con il movimento dei girasoli di protesta contro i piani di investimenti comuni con la Cina) in un quadro di forte polarizzazione. I risultati della democrazia e dell’economia sono buoni: mai come oggi i taiwanesi sono stati tanto agiati, liberi e ben governati, osserva Brown.

Sovranità e identità taiwanese: per questo si lotta e ci si prepara anche alla guerra, secondo una logica che vede nella difesa della propria indipendenza un motivo per resistere e per morire, qui davvero come in Ucraina. Ma sovranità e indipendenza di Taiwan sono negati dalla Cina. Tra i due Paesi i rapporti politici ufficiali sono interrotti dal 2016, quando la Cina reagì alla elezione di un governo progressista democratico a Taiwan. L’ipotesi di una catastrofe a seguito di un intervento militare cinese è nell’aria. Un bel film-documentario recente mostra i preparativi difensivi di Taiwan da un’eventuale aggressione cinese, che coinvolgono l’intera popolazione.

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Per evitare la catastrofe, Brown invita alla moderazione tutti e tre gli attori-chiave. Stati Uniti (e Occidente) devono evit–are di considerare Taiwan l’occasione per regolare i conti con la Cina, e collocare Taiwan e la sua autodeterminazione al di fuori della partita tra superpotenze: riducendo la questione a un disaccordo tra due parti direttamente coinvolte. Invito che suona debole, quasi retorico. La Cina da parte sua dovrebbe elaborare una risposta più creativa al tema della sovranità e indipendenza di Taiwan, inventarsi un compromesso: ma ciò sembra estraneo alla cultura politica di Xi – ricordiamo come ha regolato la questione, pochi anni fa, a Hong Kong! Infine, Taiwan dovrebbe riaprire il dialogo con la Cina e non affidarsi tutta e solo al sostegno statunitense, la cui certezza è oggi assai meno solida che in passato. In definitiva, Brown propone una strenua difesa dell’attuale situazione di stallo, come la migliore risposta possibile. Sarà seguito il suo consiglio, nell’epoca inaugurata da Trump, e non solo con i dazi, della geopolitica disruptive?

Ritorniamo così ai dilemmi calcolati da Peter Thiel, da cui abbiamo preso le mosse. Converrà riflettere su quanto Carl Schmitt, autore caro a Thiel, scriveva nel 1932: “Se i diversi popoli, religioni, classi e altri gruppi umani della terra fossero così uniti da rendere impossibile e impensabile una guerra tra di loro… allora esisterebbe soltanto una concezione del mondo, una cultura, una civiltà, un’economia, una morale, un diritto, un’arte, uno svago ecc. non contaminate dalla politica ma non vi sarebbe più né politica né Stato. Se e quando tale “stato” del mondo e dell’umanità sorgerà, non so. Per ora esso non esiste”.

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