Ucraina: la pace improbabile, la guerra reale
C’è qualcosa di rivelatore – quasi antropologico – nel modo in cui, a quasi quattro anni dall’invasione su larga scala dell’Ucraina, si continua a parlare della guerra: il conflitto ha cessato da tempo di essere un evento eccezionale, una crisi circoscritta, un incidente nel corso “normale” della politica europea, e si è tramutato in un elemento strutturale, permanente dell’ordine continentale, un dispositivo che sempre più prova a ridefinire e trasformare identità, istituzioni, immaginari. E tuttavia una parte consistente del discorso mediatico sembra restia a rilevare questo fatto nuovo, perso nel chiacchiericcio soprattutto in Italia, dove la guerra è solo uno dei possibili e infiniti argomenti per polemiche da talk-show e social di cui nessuno più si ricorda qualche giorno dopo. Si continua a cercare il momento della svolta, l’accordo risolutivo, l’incontro decisivo, il comunicato o la dichiarazione in grado, se non di chiudere la guerra, di annunciare la tregua, come se tre anni, nove mesi e una settimana di conflitto fossero ancora solo una breve emergenza, risolvibile in ventiquattr’ore, secondo la fin troppo celebre definizione di Donald Trump.
Questo scarto tra la realtà del conflitto e le narrazioni che lo accompagnano non si spiega soltanto con la propaganda o con la frammentazione dell’informazione, nell’epoca dello streaming 24/7, dei reels pubblicati dai luoghi della guerra, delle ultime ore diventate ultimi minuti se non secondi. Forse l’invasione dell’Ucraina ci ha posto di fronte a come stia mutando il nostro rapporto con il tempo storico, dovuto a come son state la maggior parte delle guerre operate dalle potenze occidentali negli ultimi decenni: presentate come interventi limitati, operazioni “chirurgiche” se non (addirittura!) “umanitarie”, campagne aeree calibrate nel tempo. Il linguaggio stesso – “no-fly zone”, “intervento umanitario”, “operazione di polizia internazionale” – ha contribuito a rappresentare la guerra come qualcosa che può e deve essere contenuto, regolato, scandito, poi non importa se in realtà in Iraq, in Libia, in Afghanistan i combattimenti non sono finiti dopo il ritorno a casa dei militari americani o dell’Alleanza Atlantica, quel che conta è come son state presentate nell’immaginario collettivo. Attenzione, perché questo tipo di linguaggio era stato adottato dallo stesso Cremlino nel raccontare l’invasione, presentata – ancora oggi – come “operazione speciale militare”, con tanto di condanne penali per chi ha osato svelare la verità evidente, usando la parola tanto evitata da Putin: guerra. Perché la guerra lunga, la guerra cronica, la guerra che muta forma ma non scompare, appare come qualcosa di estraneo al nostro orizzonte mentale, ancor di più in Europa, va esorcizzata ma al tempo stesso evocata, in un gioco di specchi assai particolare.
Per questo, quando un conflitto rifiuta di adattarsi al modello dell’“operazione” e si presenta, invece, come una trasformazione strutturale, il rumore bianco del chiasso mediatico diventa più intenso, perché vi è un'incapacità di lettura di quello che avviene, e non sapendo comprendere il perché di una durata più lunga di un prime show del giovedì sera o di una paginata di giornale, ci si rifugia in scorciatoie interpretative. Da qui la proliferazione di immagini di resa imminente, di collasso sistemico, di piani di pace “chiavi in mano”, pronti a essere tirati fuori dal cassetto al momento opportuno, con la sparizione immediata al primo segnale di difficoltà. Vero, si tratta di risposte psicologicamente comprensibili a una realtà che sfugge, per sua natura, ai desideri di chi osserva da lontano, ben più ostica per la pigrizia mentale che non favorisce alcun approfondimento o riflessione.
È precisamente in questo spazio – fatto di ansia, di impazienza e di difficoltà a pensare il lungo periodo – che si inserisce il cosiddetto “piano Trump”, in realtà frutto degli incontri – telefonici e dal vivo – tra Kirill Dmitriev, inviato speciale del Cremlino, e Steve Witkoff, rappresentante del presidente americano. Un documento che non è definitivo, soggetto a modifiche continue, come avvenuto durante l’incontro delle delegazioni europea, statunitense e ucraina a Ginevra, nel quale dai 28 punti previsti è uscita una versione ridotta, che dovrà essere poi discussa con Mosca. Il piano, in questo senso, appare come una proiezione, da declinare a seconda dei vertici e degli interlocutori, perché la sua esistenza è il riconoscimento della necessità di una trattativa: il problema è che ognuno ha una propria idea su cosa e come debba essere. Una via d’uscita? Il suggello all’ennesimo conflitto congelato? Una resa? Una vittoria? E di chi?

Le indiscrezioni sui ventotto punti, la conversazione Witkoff–Ušakov pubblicata da Bloomberg, le frasi fatte filtrare ad arte da ambienti diplomatici, le smentite parziali: l’intero ciclo informativo che circonda il piano Trump è un esempio di produzione controllata di ambiguità, una nebbia densa di confusione chissà quanto casuale. Per la Casa Bianca questa nebbia consente di testare reazioni, di misurare il margine di manovra interno e internazionale, di mantenere in vita l’idea che Washington abbia ancora in mano le chiavi dell’ordine globale, di riaffermare il proprio primato sullo scenario mondiale in modo brutale: prima Gaza, poi l’Ucraina, nel frattempo il Venezuela, un costante intervento a dimostrazione di come ogni previsione della nuova età isolazionista che avrebbe dovuto promuovere Trump si sia rivelata fallace e ingannevole. Per l’Europa, esausta da un conflitto che mette a nudo le debolezze – strategiche, tattiche – di una leadership mediocre e avvezza più ai proclami e ai provvedimenti “esemplari” che a scelte coraggiose, i tentativi d’Oltreoceano rappresentano una continua umiliazione per il dover continuamente rincorrere l’agenda stabilita da Trump, provando a difendere le proprie scelte non solo nei confronti dell’amministrazione statunitense, ma anche con quei governi favorevoli a Putin (Ungheria e Slovacchia) e in grado di creare crepe nel fragile equilibrio di poteri della Commissione europea. Dall’Ucraina, dove lo scandalo corruzione che ha portato alla rimozione di Andriy Ermak dall’ufficio di presidenza, la pressione statunitense viene vista con grande inquietudine, e l’ulteriore intensificarsi dei bombardamenti russi in questi giorni segna una sinistra sottolineatura della difficile condizione del paese dopo quasi quattro anni di resistenza. La paura che la sovranità possa essere barattata in un tavolo dove gli interlocutori principali sono altri è palpabile in Ucraina, anche perché non sarebbe il primo caso di un accordo concluso, negli ultimi duecento anni, “alle spalle” dei soggetti direttamente coinvolti; non stupisce, dunque, che a Kyiv ogni indiscrezione di contatti tra Mosca e Washington susciti preoccupazione e indignazione. Per la Russia, infine, già la sola presenza di una volontà di discutere da parte degli Stati Uniti ha rappresentato, nel corso di questo anno 2025 che volge al termine, un successo di non poco conto, culminato nell’incontro Putin-Trump in Alaska; eppure il Cremlino non è riuscito ad ottenere quel che vorrebbe, né tantomeno vi è stato un cedimento totale su tutta la linea dell’imprevedibile tycoon newyorkese diventato per la seconda volta presidente, anzi, il documento – sia nella versione di 28 punti che in quella successivamente emendata – non sembrerebbe aver cambiato le posizioni del leader russo.
Il lungo discorso di Vladimir Putin alla stampa ai margini del vertice dell’Organizzazione del Patto di Sicurezza Collettivo in Kirghizistan va letto esattamente in questa prospettiva. Le sue parole non erano rivolte tanto agli interlocutori presenti in sala, quanto al campo semantico nel quale il piano Trump verrà discusso, anche perché ormai da tempo la politica russa ha fatto del linguaggio un elemento costitutivo del potere: le parole presidenziali non descrivono la realtà, ma la prescrivono, non spiegano, bensì delimitano, e persino allusioni e attacchi servono a codificare una certa visione del mondo da imporre. Quando Putin afferma che il piano va “tradotto nel linguaggio diplomatico”, non sta chiedendo un lavoro di rifinitura tecnica: stabilisce un principio di sovranità interpretativa. Il piano sarà accettabile solo se riscritto nei termini voluti dal Cremlino; e la diplomazia, in questo schema, non è lo spazio del compromesso, ma il luogo in cui vi è un conflitto del lessico, e non si tratta di un elemento di secondo piano, né di una novità nell’atteggiamento del presidente, influenzato anche dalla sua formazione da giurista, interpretata in chiave di definizione su carta dei rapporti di forza. La stessa funzione svolge la proposta – formulata nello stesso contesto – di mettere “per iscritto” l’impegno russo a non attaccare l’Europa. Formalmente, dovrebbe apparire come un’offerta rassicurante; in realtà, è un’operazione narrativa. Presentando la Russia come soggetto pronto a fornire garanzie, Putin tenta di ridisegnare l’invasione dell’Ucraina come un’eccezione, come una deviazione giustificata dalle “circostanze storiche” e dalla presunta responsabilità di altri attori; in più la questione ucraina – e più volte il presidente russo lo ha ribadito – è un problema “interno”, una nazione “artificiale” derivata da una serie di circostanze e di complotti che hanno minato l’unità originaria del popolo “russo”, una visione perennialista e al tempo stesso presentista delle identità e del passato. L’obiettivo è di fare apparire l’Europa come vittima di un panico infondato, mentre la Russia si inscena come soggetto responsabile, che chiede soltanto che venga riconosciuta la propria supremazia sul campo, assieme ai diritti “storici” sui vicini. Su questo sfondo, l’evocazione sistematica di cifre sulle perdite ucraine – impossibili da verificare, e accompagnate dal silenzio sui corrispettivi numeri russi – non mira minimamente alla trasparenza, bensì si tratta di accumulare ulteriore materiale narrativo: utile in una costruzione discorsiva atta a presentare l’Ucraina come un paese allo stremo, prossimo alla rottura, a differenza della Russia, vincente e pronta, semmai, a concedere una pace “generosa”. Il messaggio interno è chiaro: la guerra sta andando secondo i piani, la vittoria è solo questione di tempo. Quello esterno è più sfumato, ma non meno importante: se e quando Mosca accetterà di negoziare, lo farà da vincitrice, non da parte costretta al compromesso. A completare il quadro della narrazione del Cremlino è la delegittimazione sistematica delle autorità ucraine. L’argomento secondo cui Kyiv non sarebbe legittimata a firmare alcun accordo perché non si son svolte le elezioni presidenziali e parlamentari è ormai ben noto, e appare anche superfluo ricordare l’impossibilità di svolgere un doppio appuntamento elettorale in un paese dove vi sono regioni occupate, milioni di sfollati fuori e dentro dai confini, ma non è agli ucraini che si rivolge Putin, bensì al mondo, inserendo nel discorso pubblico l’idea che l’assenza di negoziati non sia il prodotto di una scelta politica del Cremlino, bensì di una carenza strutturale dell’Ucraina, priva di una leadership eletta democraticamente. Ancora una volta, la realtà viene passata attraverso lo specchio distorto delle posizioni putiniane: la sospensione delle elezioni – misura prevista dalla legislazione ucraina e in linea con prassi osservabili in altri contesti di guerra – viene trasformata in argomento per negare all’Ucraina lo status di interlocutore.

A far riflettere è come a regnare, nella discussione sulle prove tecniche di negoziati, vi siano due termini diventati simbolo della ricerca di scorciatoie dell’immaginario contemporaneo: la resa e il collasso. Entrambe le parole rispondono a una stessa esigenza: trovare una conclusione netta, riconoscibile, teatralizzabile, definitiva in un contesto in cui nulla lascia presagire un esito rapido. La resa totale occupa un posto privilegiato nell’immaginario sulla guerra, anche se si tratta più di un’eccezione che di una regola nella storia. Le immagini della capitolazione tedesca e giapponese, nel 1945, hanno sedimentato una rappresentazione della fine della guerra come atto solenne, definitivo, quasi rituale: la firma degli sconfitti, le bandiere ammainate degli sconfitti e i vessilli innalzati dai vincitori, catene di comando che si dissolvono, un “prima” e un “dopo” chiaramente distinguibili. Ma quella configurazione è un’eccezione, figlia di una combinazione specifica di fattori: guerre totali, mobilitazione industriale senza precedenti, ideologie radicali sconfitte dopo anni di catastrofi, assenza di deterrenza nucleare. La presa del Reichstag, le atomiche su Hiroshima e Nagasaki, le immagini di capitali distrutte, di folle festanti per l’annuncio della vittoria, sono istantanee vivissime, eppure parte di un determinato contesto storico. Da allora sono ben pochi i conflitti conclusisi in quel modo: anche in quei casi dove vi sono stati fotogrammi assai forti – l’entrata degli americani a Baghdad, ancor prima il ritiro dei sovietici dall’Afghanistan, avvenimenti immortalati in scatti famosi – è il “dopo” a esser fuori dall’obiettivo, il continuum di crisi e guerre che non hanno abbandonato quei luoghi. La resa totale è uscita dalla pratica storica, ma non dall’immaginario. Nella guerra in Ucraina la resa compare come immagine speculare, il che dovrebbe interrogarci su come il 1945 sia ancora un evento portentoso nella nostra rappresentazione dei conflitti. In una parte del discorso occidentale, viene proiettata sulla Russia: si immagina un collasso militare o economico che costringa Mosca a ritirarsi completamente dai territori occupati, e magari anche a subire ulteriori punizioni oltre alle sanzioni e al congelamento dei beni; vi era chi prefigurava uno smembramento dell’attuale Federazione Russa in vari stati, presentati in modo assai utopistico come sicuri portatori di pace e sicurezza nel continente europeo. Nella propaganda russa, al contrario, la resa è ucraina: Kyiv viene presentata come un paese destinato al fallimento, in alcuni casi già dal 2014 si utilizza il termine di “failed State”, costretto ad accettare come proprio destino manifesto l’assoggettamento a Mosca. Entrambe le narrazioni, però, raccontano più dei desideri e delle paure che della realtà: in Ucraina non vi è alcuna intenzione né spazio sociale per contemplare una resa; la Russia, dal canto suo, non dispone della superiorità necessaria per imporla; una disfatta russa da parte ucraina appare quantomeno improbabile oggi, e nel caso di un conflitto esteso all’Europa vorrebbe dire un tipo di guerra assai diverso, con il coinvolgimento diretto della NATO.
L’altra parola, collasso, viene evocata più volte, in una sorta di conto alla rovescia su un ring immaginario, per entrambi i paesi, con forme diverse. Nel caso russo, viene alimentata dalla memoria della fine dell’URSS e, in particolare, dall’impatto di testi come Sopravvivrà l’Unione Sovietica fino al 1984? di Andrej Amal’rik e l’immagine del collasso è stata ripresa dal saggio, di grande interesse e spessore intellettuale ma discutibile nei suoi esiti “profetici”, di Aleksandr Etkind La Russia contro la modernità. Il saggio di Amal’rik, intellettuale dissidente di grande acume, scritto nel 1969, aveva colto con lucidità straordinaria le crepe di un sistema apparentemente monolitico, individuando alcune possibili linee di frattura: le tensioni nazionali nelle repubbliche, la crisi del sistema economico, l’incapacità della burocrazia di rinnovarsi; eppure al tempo stesso alcune previsioni (la guerra con la Cina popolare e il pessimismo riguardo alla liberalizzazione del sistema) si son rivelate inesatte, lo scontro sino-sovietico non si tradusse in un conflitto armato dopo gli spari sull’Ussuri nel 1969, mentre invece il tentativo riformatore di Michail Gorbaciov in un certo senso mise a nudo le difficoltà e accelerò la dinamica che portò al crollo dell’esperimento sovietico. Non stupisce che, di fronte alla guerra, le previsioni di Amal’rik siano tornate a essere una possibile chiave interpretativa: d’altronde, se l’URSS, superpotenza globale, è collassata, perché non dovrebbe succedere anche alla Russia putiniana.
La risposta sta nelle differenze strutturali tra i due sistemi. L’URSS tardo-sovietica era passata dall’inerzia della stagnazione alle accelerazioni della perestroika, era un “paese di paesi”, dove la politica del regime aveva consolidato élite nazionali e segnato – con la liberalizzazione – da conflitti etnici sempre più in grado di mobilitare settori della società; in più la Mosca sovietica era gravata dal peso del sostegno economico e militare ai regimi socialisti in Europa orientale, in Asia e in Africa, senza esser dotata della flessibilità ideologica unita allo spietato decisionismo di Pechino. La Russia di oggi è una federazione assai peculiare, dove le repubbliche con una chiara maggioranza etnicamente non russa sono una minoranza, segnata da una profonda centralizzazione, contraddistinta dalla concezione della “verticale del potere”. I siloviki, ovvero gli uomini degli apparati d’intelligence e di sicurezza, a differenza dell’URSS non sono sotto il controllo politico del partito (come era avvenuto dopo la morte di Stalin) ma rappresentano uno degli architravi portanti dell’infrastruttura del sistema putiniano. La repressione oggi è persino maggiore del periodo brezneviano, con migliaia di condanne a vari anni di detenzione, e colpisce a casaccio, attraverso il controllo del discorso pubblico via social, media e istituzioni d’istruzione. Più volte si è prospettato, in varie analisi, un possibile ruolo di un settore dell’establishment, con una preferenza verso gli oligarchi, eppure, nonostante le difficoltà patite con le sanzioni e l’isolamento dall’Occidente, i malumori del settore economico-finanziario appaiono al momento ancora gestibili, e la disponibilità manifestata nei confronti di Washington risponde anche a questo sentimento strisciante. In questo quadro il collasso non è impossibile; non è però una prospettiva così immediata, netta, né tantomeno è pronosticabile una ripetizione del ciclo 1989-1991.
Per l’Ucraina, la narrazione del collasso assume altre forme: quella del “fallimento statale”, della corruzione insanabile, della dipendenza totale da aiuti occidentali. Anche in questo caso, si tratta di visioni superficiali, alcune delle quali risalenti alla metà degli anni Duemila, quando la “rivoluzione arancione” portò Viktor Juščenko alla presidenza del paese dopo un acceso scontro con Viktor Janukovič, e rafforzatasi con l’Euromaidan del 2013-14, l’annessione russa della Crimea e l’inizio del conflitto in Donbass. Il collasso, previsto e evocato, però non c’è stato e dal 2022 il paese affronta una guerra durissima, che ha prodotto una coesione interna difficile da ignorare. Vero, ci sono diserzioni; chi può andar via dal paese, lo fa; al tempo stesso, però, l’ostilità verso l’aggressore è forte e radicata e non sembra esser volta a declinare. La società ucraina si è trasformata in modo radicale; lo Stato, pur sotto stress, ha mantenuto capacità amministrative e militari che molti, all’inizio del 2022, ritenevano al di sopra delle sue possibilità.
In questo contesto, parlare di “impossibilità del negoziato” significa provare a tenere insieme tre livelli: quello militare, quello politico-strategico e quello simbolico. Sul piano militare, la situazione sul terreno non offre alcun chiaro segnale di vittoria o di sconfitta totale per una delle parti; anzi, si profila un quadro di logoramento a lungo termine, con fronti che si spostano lentamente e con costi umani elevatissimi. Sul piano politico-strategico, gli obiettivi massimi di Russia e Ucraina continuano a essere incompatibili: per Mosca, le annessioni sono presentate come irreversibili; per Kyiv a esser centrale non è tanto la riconquista dei territori occupati, obiettivo che appare impossibile, ma la certezza della propria sovranità. Ma è sul piano simbolico che l’impossibilità del negoziato si manifesta con maggiore chiarezza: per il regime russo, la guerra è diventata il cardine della propria legittimità. Essa incarna il progetto di restaurazione della grandezza imperiale e dell’unità primigenia del popolo russo, la promessa di riportare il paese al rango di grande potenza, la narrazione di una Russia accerchiata che reagisce alla minaccia occidentale ma al tempo stesso in grado di riprendere un dialogo con gli Stati Uniti per la comunanza di valori con l’attuale amministrazione americana. Rinunciare alle conquiste territoriali, alla volontà di poter limitare aspetti significativi della sovranità ucraina quali il numero degli effettivi militari e l’adesione alla NATO vorrebbe dire riconoscere il fallimento della stessa “operazione speciale militare”. Non si tratterebbe di una sconfitta tattica, emendabile con una buona gestione comunicativa, ma di un colpo diretto alla credibilità del potere.

Per l’Ucraina, al contrario, la guerra ha assunto un carattere esistenziale: non è una disputa sui confini, ma sul diritto a esistere come soggetto politico sovrano. L’esperienza dell’occupazione, dei crimini di guerra, dei bombardamenti, ha reso impossibile immaginare una forma di dialogo, nell’immediato, con la Russia, e anche il riconoscimento de facto dell’annessione delle regioni sotto controllo russo rappresenta uno snodo doloroso,percepito come un tradimento, in grado di minare la legittimità stessa di chiunque la firmasse. Il rapporto tra società ucraina e guerra è stato ridefinito in termini tali da rendere politicamente suicida qualsiasi compromesso che non preveda, quantomeno, una prospettiva di tutela della propria sovranità per il presente e per il futuro.
Donald Trump, animato dall’ambizione al premio Nobel per la pace, legge la guerra non soltanto in chiave europea, ma come banco di prova dell’ordine globale, e si trova di fronte però a varie contraddizioni. Una pace che premiasse la Russia invierebbe un segnale chiaro a tutti gli attori che, nel mondo, coltivano ambizioni revisioniste: l’uso della forza può produrre risultati duraturi, se accompagnato da una sufficiente resilienza; eppure, da anni in un settore dell’establishment americano è ritenuto un obiettivo cruciale riuscire a “staccare” Mosca da Pechino, indebolendo così la Cina nella competizione per l’egemonia globale. La Russia ha mostrato, in questi mesi, una certa predisposizione ad abbandonare silenziosamente teatri storicamente strategici, quali il Caucaso e il Medio Oriente, in favore di Washington, e questo elemento permette di comprendere quanto l’Ucraina rappresenti per Vladimir Putin la madre di tutte le questioni.
L’Europa, infine, si trova in una posizione particolarmente vulnerabile. Da un lato, è lo spazio direttamente esposto alle conseguenze della guerra, sul piano energetico, economico, migratorio, securitario; dall’altro, dipende in larga misura dalla protezione americana per la propria sicurezza militare. In questa cornice, accettare un accordo che sancisca le conquiste russe significherebbe ammettere l’incapacità europea di difendere il principio basilare dell’ordine continentale post-1945: l’intangibilità delle frontiere. Significherebbe, in altre parole, riconoscere che in Europa è di nuovo possibile modificare i confini con la forza, qualcosa parzialmente evitato nel primo decennio seguito al crollo dei socialismi ad Est, con il riconoscimento dell’indipendenza dei nuovi Stati lungo le linee dei confini amministrativi.
In questa combinazione di fattori – interni ed esterni, materiali e simbolici – si consuma l’attuale dramma di un negoziato che non accenna a entrare nel vivo, mentre i bombardamenti sulle città ucraine e gli attacchi di droni su obiettivi russi continuano, in un tetro scambio, spesso notturno, che segna le vite di milioni di persone. Certo, la guerra finirà, in qualche modo, ma difficilmente questo accadrà nei termini che il discorso pubblico e mediatico oggi si ostina a immaginare. Ad oggi appare chiaro che la guerra non potrà finire con una resa in stile 1945, né con un collasso improvviso di uno dei contendenti, né con la firma di un piano salvifico calato e imposto dall’alto. Se la storia recente insegna qualcosa, è che i conflitti di questa natura tendono a concludersi con soluzioni imperfette: accordi che congelano situazioni di fatto, linee di controllo, equilibri precari, oppure non si concludono affatto, e si trasformano in una condizione di guerra endemica, definita in modo assai poco generoso verso le vittime “a bassa intensità”, con il suo carico di morti, distruzioni, instabilità.
Per una pace duratura sarebbero necessarie delle trasformazioni strutturali, al momento improbabili: in Russia la guerra potrebbe fermarsi o in seguito a sconvolgimenti sociali (prospettiva assai remota oggi) o in base ai costi del conflitto; in Ucraina l’accettazione della perdita dei territori occupati sarebbe possibile di fronte a reali garanzie di sicurezza e di difesa della propria sovranità. In questo quadro, il piano Trump – e tutti i piani che seguiranno, con nomi diversi – appare per ciò che è: non una soluzione, ma un sintomo. È la manifestazione del bisogno di voler abbreviare la storia, di immaginare che un documento, una firma, un annuncio possano risolvere contraddizioni e processi intricati, passando sopra sofferenze, traumi, devastazioni; è la dimostrazione di come l’assenza della politica, sostituita da una sorta di reality show dell’orrore e della provocazione trasmesso in streaming, sia una delle cause della catastrofe dell’oggi.