Ragazza, donna, altro: conversazione con Bernardine Evaristo 

11 Luglio 2023

Molte cose si chiedono alla letteratura: che ci intrattenga, che ci diverta, che ci faccia immedesimare ed emozionare, che ci arricchisca, che ci faccia riflettere o fantasticare, raccontandoci cose che ancora non sappiamo o illuminando di una luce diversa ciò che invece ci è già noto.

Ma tra le cose più interessanti che ci si possano aspettare dalla letteratura, dalla buona letteratura, c’è per me la capacità di capovolgere un punto di vista, di raccontare storie che sovvertano le regole costringendo la nostra mente a spostarsi da una zona di comfort verso territori sconosciuti e inesplorati dai quali, se saremo fortunati e ben predisposti, potremo tornare cambiati, in una palingenesi del pensiero che è stimolo potentissimo per la nostra evoluzione.

Bernardine Evaristo appartiene senz’altro a questa tipologia di autori. Nei suoi libri le norme che conosciamo vengono sovvertite, le verità sono prismi sfaccettati e molteplici, lo sguardo non è mai fisso, ma ha la vivacità mobile delle intelligenze più affilate.

Evaristo ha scritto otto romanzi, due raccolte di racconti e un libro di poesie, ma bastano i tre titoli tradotti in Italia, Mr. Loverman (Playground, traduzione di Alessandro Bocchi), Ragazza, donna, altro e Radici Bionde (entrambi per le edizioni Sur nella traduzione di Martina Testa) per comprendere che è stata capace di inventare un linguaggio nuovo e sperimentale – una prosa poetica da lei chiamata fusion fiction –, di capovolgere la storia, immaginando un universo in cui siano stati i neri a rendere schiavi i bianchi, e di raccontare l’esistenza quotidiana delle donne nere – ma anche di tutte le donne in generale – sovvertendo ogni luogo comune su femminismo, orientamento sessuale, rapporti genitoriali, sessualità in età avanzata, rapporto col proprio corpo, riconsegnandoci uno sguardo rinnovato con cui guardare alla contemporaneità.

Deve averla pensata così anche la giuria del Man Booker Prize, che nel 2019 le ha assegnato il premio, ex aequo con Margaret Atwood, per il romanzo Ragazza, donna, altro, un caleidoscopio di dodici donne inglesi afrodiscendenti le cui storie si intrecciano e si ritrovano intorno alla rappresentazione teatrale di L’ultima amazzone del Dahomey, messa in scena da Amma, una dei dodici personaggi, al National Theatre di Londra. 

È stata una vittoria importante, ancora più rilevante perché entrambe le autrici hanno particolarmente a cuore l’esistenza delle donne nella società, il loro ruolo verso un cambiamento possibile, e ne sottolineano le lotte e le contraddizioni. Inevitabilmente, però, l’attenzione dei media è stata rivolta principalmente a Evaristo, che con questo riconoscimento è diventata la prima donna nera nella storia a vincere il Booker Prize, portando con sé le istanze di diverse categorie tradizionalmente oppresse: le donne tutte, le donne nere in particolare e la comunità LGBTQ+.  

L’intersezionalità della sua visione autoriale è proprio la parte più interessante e innovativa della sua narrazione, con cui suggerisce nuove prospettive e sottolinea le criticità della nostra società con la grazia di chi fa un uso magistrale dell’ironia come strumento per scardinare i sistemi di potere.

La contraddizione emersa dal rovesciamento dell’ordinario genera così una potentissima ironia che si fa strumento per analizzare le antinomie del reale, conferendo ai suoi romanzi una leggerezza (anche quando racconta l’orrore) che non è mai superficialità, ma il suo contrario. 

Nei suoi libri scorrono sottotraccia le opere di bell hooks, Audre Lorde, Angela Davis, Roxane Gay, solo per citarne alcune, tutte non a caso sostenitrici di quel femminismo intersezionale che sembra ancora oggi la possibilità più valida per proporre un cambiamento radicale della società e attuarlo davvero senza lasciare nessuno indietro. Eppure quelli di Bernardine Evaristo non sono saggi ma romanzi, in cui il femminismo non è predicato ma agito quotidianamente dai suoi personaggi e per questo si fa tanto più potente e dirompente.

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È forse per questo che i suoi protagonisti, che vivono – e dunque sperimentano sulla propria pelle – discriminazioni, violenze, soffitti di cristallo, pregiudizi di ogni sorta, non indulgono mai nel compiacimento del dolore, nella malmostosa commiserazione di sé.

Non sono mai vittime. Lo fa dire chiaramente a una dei suoi personaggi (Waris) in Ragazza, donna, altro

io non sono una vittima, non trattarmi mai come una vittima, mia madre non mi ha cresciuta per farmi diventare una vittima

ed è questa l’unica forza propulsiva che sembra in grado di portare un cambiamento concreto.

I personaggi di Evaristo crollano e si rialzano, subiscono violenze e riprendono in mano la propria vita, finiscono in relazioni tossiche e sono in grado di chiuderle, emigrano, perdono tutto ma resistono per sé stesse e i loro figli, sono poliamorose, etero, lesbiche, non binarie e gender free, sono donne giovani e anziane che rivendicano la propria sessualità, che si riappropriano dei loro corpi e della loro identità, donne adulte che chiedono a gran voce, e ottengono, la propria indipendenza economica sfidando così un altro grande tabù letterario: quello dell’importanza del denaro, e del denaro alle donne, come prima, necessaria, tappa per l’emancipazione e la libertà individuale.

Senza denaro, ogni donna finisce per somigliare a Doris, la cittadina britannica rapita e fatta schiava nel regno di Grande Ambossa con il nome di Omorenomwara nell’universo distopico di Radici Bionde. Doris, costretta a cambiare nome, pelle, costumi, subisce violenze ed è oggetto di pregiudizi di ogni sorta: sui suoi capelli troppo biondi e lisci, sul suo corpo troppo minuto, sulle sue presunte attitudini naturali o sul suo grado di civilizzazione

Anche qui Evaristo rovescia il punto di vista dominante – bianco, patriarcale ed eurocentrico – smascherando il razzismo nascosto anche in quelli che si ritengono più illuminati, come accade al personaggio di Bwana, il padrone di Doris.

Particolarissimo anche l’uso che Evaristo fa del tempo nella narrazione: non si limita a essere sincronico ma diventa quasi astorico, una sovrapposizione di piani temporali ed epoche diverse, in cui elementi medievali o moderni si fondono e si confondono con le istanze della contemporaneità, generando uno spaesamento che ancora una volta spariglia le carte e smuove le sovrastrutture mentali che inficiano la nostra evoluzione sociale e culturale.

Leggere Bernardine Evaristo apre nuove strade per chiunque decida di non chiedere alla letteratura conferme e rassicurazioni, ma desideri al contrario chiudere un libro con nuove domande nella mente, che mettano in discussione la propria visione del mondo e i paradigmi retrivi della società. 

Sono stata dunque particolarmente felice di averle potuto rivolgere qualche domanda, in occasione del suo recente tour in Italia.

Con Ragazza, donna, altro, un romanzo bellissimo che mette al centro le storie di dodici donne afro britanniche e con una forte componente queer, è stata la prima donna nera a vincere il Man Booker Prize ex aequo con Margaret Atwood, una vittoria importantissima e fortemente simbolica, per le donne in generale e per le donne nere in particolare, ma anche per la comunità LGBTQ+. 

È stato difficile per lei inserirsi nel mondo editoriale? Quanto questa vittoria ha contribuito a fare da cassa da risonanza su queste tematiche?

Bene, sono due domande. La prima è come ho esordito: ho pubblicato per la prima volta nel 1980, quando lavoravo in teatro e scrivevo poesie. La prima volta è stata in una raccolta poetica, della quale sono stata anche editor, chiamata Black woman talk poetry.  Fino agli anni ’90 sono stata pubblicata in altre tre antologie poetiche, così ho iniziato, ma il primo libro interamente mio è uscito nel 1994. Ho inviato il manoscritto con le mie poesie a dieci editori diversi, e uno di loro lo ha accettato. La pubblicazione per me è stata quindi abbastanza semplice, e anche per il mio secondo libro, Lara, è stato relativamente facile: qualcuno mi avvicinò dopo averne sentito una lettura a un evento pubblico. Quando sono arrivata al mio terzo libro, ho firmato un contratto con il mio attuale editore, Simon Prosser, che era l’editor di Hamish Hamilton che è parte della Penguin Random House: sono con lui dall’inizio. Per me quindi l’ingresso nel mondo dell’editoria non è stato complicato, ma non è così per tutti: alcuni mandano i loro testi dieci, venti, trenta, quaranta volte e vengono respinti.

Parlando invece di Ragazza, donna, altro, che è inclusivo per la comunità queer, non ho voluto basarlo sull’eterosessualità perché non sarebbe stato rappresentativo della vita vera. E penso, come hai detto, che gran parte del punto di rottura creato dal romanzo stia proprio nell’inclusività queer e nel fatto che sia un testo sperimentale radicale. E questo per un testo che ha vinto il Booker Prize è davvero insolito. Da quando il libro è stato pubblicato e ha vinto il premio nel 2019, ho notato che un sacco di altri romanzi queer sono stati pubblicati in Gran Bretagna, e non posso prendermene il merito, ma penso anche che quando un libro come Ragazza, donna, altro vince un premio come questo e vende milioni di copie in tutto il mondo diventando un importante bestseller, sta dicendo all’industria editoriale che c’è un mercato per questo tipo di lavori. Anche come attivista letteraria parlo chiaramente della necessità che tutte le donne vengano rappresentate nei romanzi, o che vengano rappresentate le donne nere e le persone della comunità LGBTQ+ in letteratura: penso che abbia aiutato ad aprire una porta.

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Ha lavorato in teatro, come Amma, una delle protagoniste di Ragazza, donna, altro, e proviene dal mondo della poesia, due universi che si fondono nel linguaggio che ha utilizzato all’interno del romanzo e che ha definito fusion fiction, una prosa poetica con un uso particolarissimo della punteggiatura. Mi sembra che in questo modo lei abbia raggiunto un duplice scopo: innovare la forma romanzo e creare un linguaggio adatto a rompere i generi precostituiti, sia in ambito letterario che rispetto a l’altro che è oggetto della sua narrazione. 

Il suo romanzo è nato da subito con questo stile o c’è stato un momento in cui ha capito che per narrare questa storia era necessario utilizzare un linguaggio nuovo?

La forma di Ragazza, donna, altro è quella che avevo già utilizzato per uno dei personaggi di un mio romanzo precedente, Mr. Loverman. Ci sono due protagonisti in Mr. Loverman: il personaggio principale, Barrington, e sua moglie, Carmel. Sono entrambi di origine caraibica, hanno la stessa età e lo stesso background. Desideravo differenziare i due personaggi, perché Barrington ha una voce molto forte, e così ho cercato un modo di far venir fuori anche la voce di sua moglie, che era un personaggio molto diverso da lui. Così ho usato questo stile, la fusion fiction, anche se non era ancora perfezionato come in Ragazza, donna, altro. Questa si può definire l’origine di quello stile ma, per essere onesti, la sua origine è anche parte della mia storia letteraria, perché io provengo dal mondo della poesia e del teatro e ho sempre usato una punteggiatura non ortodossa, un mix di linguaggio poetico e prosastico, sin dall’inizio della mia carriera. Non è legato solo a quest’ultimo libro ma ha un’origine profonda nella storia del mio lavoro. Inoltre, uno dei libri che vedo come precursore di Ragazza, donna, altro è For Colored Girls Who Have Considered Suicide When the Rainbow Is Enuf, un libro pubblicato nel 1976, scritto da un’autrice afroamericana che si chiama Ntozake Shange: è la storia di sette diverse donne afroamericane che raccontano episodi delle loro vite in forma poetica. C’è una connessione molto forte tra quel libro, che ho letto nel 1979, e Ragazza, donna, altro, scritto quaranta anni dopo.

Nei suoi libri la coralità di voci e la moltiplicazione dei punti di vista consentono di eludere il pericolo di una storia unica anzi, dalla diaspora africana, all’immigrazione, alla questione femminile fino alla comunità LGBTQ+ lei dà voce alle categorie oppresse. Quanto è importante, oggi, riappropriarsi della voce e restituirla a chi non l’ha mai avuta?

È il mio progetto come scrittrice quello di raccontare le storie, le prospettive, delle persone che tradizionalmente sono sempre state escluse dalla narrativa più commerciale. Come autrice mi sono resa conto che non erano ad esempio rappresentate molte donne nere britanniche nella narrativa inglese. Oggi ve ne è qualcuna ma non è un numero così elevato, e questo vuol dire che ogni libro è importante, perché ogni libro racconta una storia diversa da una prospettiva diversa, e lo fa esplorando la strada della fiction. Dal momento che facciamo parte della società britannica è molto importante essere là fuori con qualcosa che possa diventare narrativa mainstream.

In Italia sono stati pubblicati tre dei suoi romanzi: Mr Loverman (Playground), Ragazza, donna, altro e Radici bionde (entrambi per Sur). In tutti, i piani temporali si accavallano e si confondono eludendo la diacronicità narrativa. 

Che cos’è per lei il tempo in letteratura?

Mi piace molto giocare con il tempo nella mia scrittura. Io sono sempre stata interessata alla relazione tra passato e presente in letteratura. Sono appassionata della storia delle persone nere, perché noi non siamo semplicemente arrivati in Gran Bretagna nel XIX secolo. Abbiamo in Inghilterra una storia con radici profonde che viene dai tempi dei romani e forse anche prima. E anche con i miei personaggi mi piace mostrare la loro storia personale, lo faccio in tutti i miei libri. Comprendere da dove vengono le persone è quello che ti fa apprezzare quello che sono oggi. Mi piace creare rapporti tra passato e presente, e allo stesso modo mi piace giocare con il tempo. Non sono imprigionata dal tempo come scrittrice, quindi anche nel mio libro The Emperor’s Babe, che racconta di una ragazza nera nella Londra di 2000 anni fa, ho creato un mondo che sembra molto contemporaneo, anacronistico, che non è fedele all’epoca. Stessa cosa nel mio libro Radici bionde, che è stato pubblicato per la prima volta nel 2008 in Inghilterra, ed esplora la schiavitù transatlantica: anche lì gioco con la storia, così che allo stesso tempo il romanzo sia contemporaneo in alcuni momenti mentre in altri sembra medievale, a volte invece ci sono tratti riconducibili al XVI secolo, è un grande mix, e questo è interessante per me. Non si capisce precisamente in che epoca sia ambientato. Questo aspetto mi diverte molto e penso che mi sarebbe difficile scrivere un romanzo storico tradizionale, perché sono molto tentata dallo sperimentare con i tempi e i luoghi.

Radici bionde è insieme una satira e una distopia, Ragazza, donna, altro una narrazione estremamente contemporanea per temi e linguaggio, ma in entrambi fa un uso costante dell’ironia, così poco usata in letteratura, che diventa uno strumento di contestazione, e i suoi protagonisti, anche quando le circostanze potrebbero renderli tali, non sono mai vittime, non c’è mai un compiacimento del dolore anche se le ingiustizie e la rabbia emergono ugualmente in modo prepotente agli occhi del lettore. Considera l’ironia uno degli strumenti che consentono una forma di emancipazione dal dolore, un modo per modificare una prospettiva, o una forma di sopravvivenza?

Non lo faccio consapevolmente quando scrivo, anche se mi rendo conto che agli occhi di un accademico che legga la mia opera questo potrebbe essere il risultato, ma non lo faccio in modo intenzionale. Perché quando scrivo un romanzo il sense of humor emerge naturalmente: non penso in maniera conscia di usare l’ironia come strumento, non è frutto di un ragionamento a priori perché penso che se lo facessi in modo intenzionale, per ottenere un effetto o un altro, non funzionerebbe, ne verrebbe fuori qualcosa di troppo autocompiaciuto, non autentico e artificioso. Invece Radici bionde, che è un romanzo satirico, è profondamente ironico, ma questo emerge proprio dal capovolgimento della schiavitù così come è stata, dei rapporti tra africani ed europei, in cui la tratta degli schiavi è fatta dalle persone nere a danno dei bianchi. Quando inizi a giocare con il rovesciamento come ad esempio tra ciò che è considerato selvaggio e ciò che è considerato civilizzazione, l’ironia emerge naturalmente. 

In Ragazza, donna, altro c’è del sense of humor, che è il risultato della moltiplicazione delle prospettive dei personaggi, perché si considerano in un modo ma la gente intorno a loro li vede in una maniera differente, e io credo che questa discrepanza tra come ci percepiamo noi come esseri umani e il modo in cui gli altri ci vedono sia alla base dell’umorismo.

Il Natural hair movement in America da qualche anno ha contribuito a ridefinire un concetto di bellezza tipicamente eurocentrico, e in Radici bionde già dal titolo lei pone l’accento sul processo di acculturazione legato anche ai canoni estetici, con le schiave bianche considerate troppo magre, troppo lisce, troppo pallide, le cui radici bionde si rivelano sotto le treccine afro, rovesciando il modello eurocentrico dominante. I capelli e l’attenzione al corpo non hanno nulla di frivolo, al contrario, si smarcano da una visione unica dei corpi, spostando il discorso dalla non conformità a una più libera bellezza nell’individualità. L’emancipazione passa anche attraverso la riappropriazione e liberazione dei nostri corpi e dalla decostruzione dei canoni, compresi quelli estetici?

Sì, in Radici bionde è molto presente questo aspetto legato alla bellezza perché come sai le donne nere, la conformazione fisica delle persone nere africane, il loro viso, i loro capelli, ecc., sono stati storicamente considerati come caratteristiche negative. Siamo così naturalmente, ma queste sono sempre state considerate caretteristiche esteticamente non belle, legate a una forma di non-civilizzazione. E come sai parte del movimento del 1960 Black is beautiful, legato al movimento per i diritti civili, rivendicò a gran voce i capelli afro, in particolare, ma anche il colore della pelle, come parte di una bellezza identitaria. Ma anche come donne in generale è importante rivendicare il nostro corpo, e accettarlo in ogni sua forma, qualsiasi essa sia, nero o avanti con l’età, qualsiasi cosa siamo. C’è un’idea del corpo trasmessa dai media che non ci rappresenta come persone: così la forma del nostro corpo, il colore della pelle, i capelli, tutte queste cose sono legate alla liberazione delle donne nere. Ho una grande stima per Edward Enninful, che è il capo redattore di Vogue Inghilterra, che ha completamente rivoluzionato il canone europeo, scegliendo per le cover delle sue copertine diversi modelli di bellezza, incluse le donne nere. Ed è molto importante perché prima che arrivasse lui, nel 2017, le donne nere erano state raramente in copertina su Vogue: in venticinque anni vi erano state solo cinque donne nere in copertina. Quale tipo di messaggio abbiamo mandato alle donne nere? Che sono brutte, che non possono essere considerate abbastanza desiderabili così come sono per essere sulla cover di un giornale, di nessun giornale. Ma è complicato perché l’ideale di corpo nero è inficiato da modelli come Kim Kardashian, e dalla sua riappropriazione della forma del corpo tipicamente nera. Quel tipo di corpo nero idealizzato, con un grande fondoschiena, è stato molto interiorizzato anche dalle donne bianche. Insomma è un discorso molto lungo e complicato ma sì, dobbiamo rivendicare la nostra bellezza al naturale, inclusa quella dei capelli, perché i nostri capelli tradizionalmente crescono in altezza e volume e questo per esempio è un problema a scuola perché quando le ragazze si fanno crescere i capelli al naturale si pensa che dovrebbero controllarli, ma i loro capelli crescono in su, non scendono giù lisci, quindi sì, c’è sicuramente un grosso problema nella rappresentazione e nei media.

Uno dei suoi personaggi, Roland, in Ragazza, donna, altro, a un certo punto afferma: Ai bianchi si chiede soltanto di rappresentare sé stessi, non un’intera razza. Ritiene che un equilibrio nell’uguaglianza dei diritti sarà ottenuta quando le categorie storicamente oppresse saranno libere di rappresentare sé stesse non come categorie ma come individui? O ogni narrazione individuale è e sarà sempre collettiva, e in questo senso, politica?

C’è sicuramente un problema di rappresentazione perché ci sono state molte categorie che non sono state oggetto di un numero sufficientemente alto di rappresentazioni all’interno del discorso nazionale. E quello che accade è che quando le persone nere arrivano a farsi sentire da una platea ampia o si fanno strada, improvvisamente rappresentano l’intera categoria, e ovviamente questa cosa non è corretta. Così come non sono corretti altri aspetti legati alla stereotipizzazione. Se una persona nera fa qualcosa di criminale, o ha dei problemi con la giustizia, o altro, immediatamente la sua individualità diventa quasi un riflesso di tutta la gente di colore, non solo un individuo che si è messo nei guai. Penso che oggi questo sia percepito meno in UK, ma esiste ancora, e d’altra parte non c’è ancora un grosso investimento nel successo dei neri, penso a quel tipo di gioia collettiva che abbiamo provato quando le elezioni negli USA sono state vinte dal Presidente Obama contro tutti gli altri. Lui ha rappresentato tutti noi in una maniera positiva, e questo ha fatto la differenza. Ha assunto la posizione del leader del mondo libero, e a tutti noi ha fatto piacere. 

Ma resta una questione molto complicata: io penso che in un mondo utopico ognuno di noi potrebbe rappresentare sé stesso, nessuno verrebbe preso a simbolo di niente, e nessuno verrebbe categorizzato, o etichettato. 

E questa è probabilmente la verità, ma resta un’utopia che non so se saremo mai in grado di raggiungere.

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