Matteo alla lavagna

15 Maggio 2015

Di Renzi alla lavagna, piccolo show per spiegare in cinque punti e rotti la contrastata riforma della cosiddetta buona scuola, s’è detto troppo e troppo poco. Troppo perché in tanti (tutti) son stati lì ad additare più o meno sarcasticamente la trovata scenica, evocando per lo più l’aggancio stereotipo fra il tema in oggetto e l’oggetto usato per parlarne. A scuola ci sta la lavagna, e stop. Troppo poco perché, al di là dell’immagine d’eterno scolaretto del nostro premier (che Crozza ha da tempo provveduto a usurare), questa volta Renzi sta lì, alla lavagna, da docente e non da discente. Ricordo quando, in un’intervista ai tempi delle primarie per il segretario del Piddì, s’era tirato fuori la metafora dell’argomento a piacere (“il mio era la seconda guerra mondiale” – e te pareva). Ma qui, appunto, non è interrogato. Semmai spiega. E spiega, direi, abbastanza bene. Dunque, al di là di banali svarioni, promosso.

 

La questione sta però in altro. E cioè, prevedibilmente, nella scelta dello strumento adoperato a sostegno della comunicazione. Che cos’è una lavagna, per giunta di grafite nera e con gessetti polverosi? Innanzitutto è un arnese assai vintage che le scuole sedicenti ipermoderne stanno a poco a poco sostituendo, neanche più con le lavagne bianche e pennarelli, ma con l’elettronica LIM [Lavagna Interattiva Multimediale] a cui euforicamente accoppiare, smartissimi, i tablet degli alunni. E il vintage, per stereotipo condiviso, fa tanto insegnante scolastico: corrucciato e appassionato, poraccio ma umanissimo. L’identità della lavagna di ardesia emerge però nella sua essenza più profonda se la opponiamo a quell’altro strumento-supporto di comunicazione che lo stesso Renzi, e Berlusconi prima di lui, hanno in altri contesti, e con esiti incerti, adoperato. Che è, manco a dirlo, il PowerPoint.

 

Deleuze e Guattari, una volta, avevano proposto di distinguere, figurativamente e politicamente, due specie di spazi: lo spazio liscio e lo spazio striato. Il primo è quello del feltro, ottenuto non per filatura ma per compressione, di modo che le microstrutture che lo tengono insieme si agganciano coi loro stessi dentini. Il secondo è quello del tessuto ricavato per ordito, la cui trama è regolare, perfetta, organizzata a monte sin nel più piccolo dettaglio. Se lo spazio liscio è aperto, consentendo percorsi spontanei e casuali in ogni direzione, quello striato è chiuso, ripartito secondo intervalli necessari, regolari, ineliminabili. Il primo è il mare, o ancor meglio il deserto, dove tutto è uguale a tutto, e dove tutto è perciò possibile. Il secondo è la città, a griglie per lo più regolari, con direzioni già previste, itinerari preventivamente segnati.

 

Così, filando la metafora, possiamo senz’altro definire il PowerPoint come uno spazio fortemente striato, dove la successione delle slide non solo dev’essere preparata in anticipo, ma dove anche, e soprattutto, l’organizzazione del discorso di cui esso è a supporto (in realtà costruendolo) segue un’unica e precisa direzione: con liste gerarchizzate di punti, elenchi numerati, serie canoniche di antecedenti e conseguenti, precise cause ed effetti univoci. Il PowerPoint, lo sappiamo, è intrinsecamente manageriale, ideologicamente tecnocratico, d’una chiarezza cartesiana che non permette né digressioni né interferenze. La lavagna, al contrario, è uno spazio liscio. Ci si può scrivere come si vuole, dove capita, selezionando volta per volta le zone pertinenti, e poi trasferendosi su altre lasciate vuote, reinventando frecce, pallini, numeri, sottolineature. E lo si fa mentre si parla, seguendo il ritmo che il discorso momento per momento assume, con intensificazioni e indebolimenti, tensioni e detensioni, cambi d’argomento, ritorni indietro, dimenticanze, improvvisi scoppi d’idee.

 

 

Non è esattamente quello che ha fatto Renzi? Riguardatevi bene il video. All’inizio il giovane Matteo parte sommessamente, con un elenchino numerato rigorosamente a stampatello. Arrivato al terzo punto, ecco decollare un’enfatica sottolineatura. Poi il quarto punto, presentato come conclusivo. Poi il quinto, anch’esso salutato come l’ultimo. E poi ancora, a poco a poco, la lavagna viene saturata d’altre cose, un po’ in basso a sinistra, dov’era vuota; poi in alto a destra, dove c’era superficie da riempire. Poi al centro, dove, chissà come, si va a collocare giusto la questione dei 4 (cerchiato da un pallino) miliardi di investimento. Ed ecco che, se non bastasse, arriva alla mente del premier un ennesimo punto della legge che stava per essere dimenticato e che va invece spiegato. Sarà il sesto punto? Macché, sotto i primi cinque non c’è superficie a disposizione: meglio disegnare una specie di rettangolone verso destra… e lavorare lì.

 

Alla fine, l’effetto è quello di un tipico quadro astratto, dove si leggono molto bene non tanto i temi chiave del discorso ma le passioni cangianti di chi lo ha tenuto. Toscanaccio, lo sappiamo, sino al midollo, neobarocco senza saperlo, Renzi ha scelto questa volta la strada comunicativa che meglio lo rappresenta. O forse quella per meglio autodipingersi come, nonostante tutto, vuole in fondo apparire alla gente. Liscio, iridescente, istintivo. Avrebbe voluto esser chiaro, e c’è a suo modo riuscito. Ma più che di buona scuola, ha tenuto una perfetta lezione di oratoria classica. Umanista, direbbe lui.

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