Sabato mattina

22 Marzo 2013

Il sabato sono miei, o meglio, il sabato sono liberi, almeno dalle sette alle otto. È il momento in cui Francesco e Federico sanno di poter agire quasi senza opposizione, la mamma è già fuori e in casa l’unico adulto sono io. Inerme, disarmato, esposto alle loro malìe e ai loro inganni. E dire che cerco di far tutto per bene, di non commettere quegli errori che anche la para-pedagogia indica come esiziali. Che illusione! Alle sette e cinque sono già in crisi. Preparo la colazione ai due marmocchi sonnacchiosi che intanto si stanno lavando e vestendo. Sento arrivare dal bagno urla selvagge.

 

Federico, il seienne, ha attaccato Francesco, il novenne. Gli ha rifilato un calcio negli stinchi e gli ha addentato un braccio, all’altezza del polso. Percorro l’appartamento a balzi e, urlando in sordina, piombo davanti a loro. Il più grande è congestionato, frigna, lancia accuse. L’altro strilla e cerca di evitare sanzioni, mettendo in fila le provocazioni del fratello (“Mi insulta”, “Fa la mia voce”). Uso le buone e recitando la parte del padre misurato, li invito ad evitare litigi futili, ricordandogli anche che è sabato (come se non lo sapessero) e che “la gente dorme”. Sembrano aver capito. Ma appena mi chiudo la porta alle spalle, ho la sensazione che sia caduto il soffitto. Rientro in bagno, questa volta sbraitando, un po’ di bava alla bocca, gli occhi sgranati. Sono aggrovigliati, uno cerca di colpire l’altro. “È stato Federico”, mi dice immediatamente Francesco piangendo. Federico urla che Francesco dice le bugie. Urliamo tutti. Io farnetico e propongo menzogne da fantascienza (“anziché a scuola vi porto in collegio in Svizzera”) e, prima del previsto, faccio ricorso al più detestabile dei “mezzucci”, appellandomi all’autorità materna (“Se continuate, chiamo la mamma”). Per caso ritorna la quiete.

 

Andiamo in cucina, il latte che stava bollendo è dappertutto sul piano di cottura. Impreco a mezza voce, i bambini ridacchiano incrociando gli sguardi e mi chiedono cosa penso di fare. “Cosa volete che faccia? Pulirò tutto”, rispondo tra i denti. Finalmente siamo seduti a tavola, io col caffè, loro con le tazze riempite di latte e cereali. C’è una calma irreale, ma, appena ci penso, sono già dentro un vortice di polemiche, grida, insulti. Francesco ha acceso la televisione e ha scelto il cartone che non piace a Federico. Il quale non desiste, e, afferrato il telecomando, impone la sua personalissima decisione. Io, mosso dal senso di giustizia, tento di ricordare chi dei due abbia il diritto di scegliere, ma non riesco a stabilirlo con certezza. Oltretutto vorrei che loro evitassero di mangiare con la televisione accesa – era uno dei miei sogni prepaternità – per cui colgo l’occasione e, d’autorità, la spengo. Federico parte con un sibilo da pentola a pressione, farnetica, ricostruisce complotti, vede nemici acquattati ovunque. Che bambino complicato! Con uno sguardo che dovrebbe significare minaccia, metto la mia tazzina nel lavello e me ne vado, dando l’ordine perentorio di alzarsi da tavola entro cinque minuti. Sono le sette e trenta. Alle sette e quaranta nessuno dei due si è mosso.

 

Ritorno in cucina, perché non rispondono ai miei richiami, e li vedo ancora seduti, tra le mani hanno il Nintendo. M’imbufalisco, gli ricordo che tra dieci minuti dobbiamo essere fuori perché altrimenti facciamo tardi. Nessuno dei due alza la testa. A dispetto del sabato e dei vicini, tuono che devono “alzarsi e andare a lavarsi i denti”. Non mi guardano nemmeno in faccia, sono in una fase cruciale di “Mario”. Mi avvicino a Francesco e gli strappo il Nintendo dalle mani. La sua reazione mi sorprende. Grida di non toccare niente perché altrimenti “deve ripetere tutto”.  Lo fa con un tale impeto che mi verrebbe quasi da obbedire. Ma questa volta sono inflessibile, gli impongo di marciare verso il bagno. I denti se li lavano insieme e riescono a macchiarsi le felpe di dentifricio. Stuzzicato con qualche sberleffo, Federico tira in faccia a Francesco un rotolo di carta igienica, che però manca il bersaglio e finisce dritto nel water. Non ho tempo per altri interventi.

 

Mancano cinque minuti alle otto. Siamo tutti e tre davanti all’attaccapanni. Non riesco mai a ricordare quale sia il giubbotto che devono indossare, ho nozioni sbiadite sull’argomento e oltretutto non sono ancora riuscito a mettere il naso fuori dalla finestra per capire come sia il tempo. Francesco si sistema da solo, per Federico decido io. Il piumino blu mi sembra la scelta più opportuna. Quando sto per farglielo indossare vedo che ha la cerniera a lampo rotta. Guardo l’orologio: le otto! La scuola apre tra cinque minuti e sono costretto ad arrivarci in macchina. Faccio un cambio in corsa, ma mi accorgo che la giacchetta che consegno a Federico è leggera, quasi primaverile. Lui dice che va bene e, non avendo alternative, decido di rassegnarmi. Mentre sto chiudendo la porta, dalle scale si leva un latrato. Francesco ha centrato il fratello con un pugno in faccia e lo ha fatto cadere contro la porta d’ingresso. Quasi rotolando mi precipito davanti a loro, ma a calmarli è intervenuto un vicino, che li definisce “bravi bambini”.

 

Alle otto e cinque li ho finalmente chiusi in macchina, dove, prima che io riesca a partire, hanno già litigato per una questione di figurine. Guidando, sento dolore al collo, ho il fiato lungo, gli occhi mi bruciano. Sono distrutto, ma non è finita. Nel breve tratto che percorriamo a piedi dal parcheggio alla scuola Francesco e Federico si spintonano, si rincorrono, si scambiano epiteti pesanti. E io continuo a brontolare, richiamare, urlare. Finalmente varchiamo il cancello, tutto sommato non siamo così in ritardo. Mentre sto raccomandandomi con loro in vista della mattinata scolastica, Federico, salutandomi, sgambetta Francesco, che rovina a terra. Siccome ha la cartella aperta, i quaderni, le matite, la brioche e una mela si sparpagliano sul selciato.

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