Sahel. L’Africa a pezzi
Dobbiamo alla biblioteca di Antropologia dell’editore Meltemi, dopo i bei testi di Latour, Sahlins, Appadurai e molti altri, un importante contributo alla nostra conoscenza del Sahel, la regione sub-sahariana che fa da “bordo del deserto” tra la savana a Sud e il Sahara a Nord. Di qui passano da sempre popolazioni nomadi, traffici di merci, nel passato oro e schiavi. Oggi flussi migratori diretti verso l’Europa. Ma l’antico asse Sud-Nord, ci spiega Jean-Loup Amselle in L’invenzione del Sahel (Meltemi 2023, prefazione di Marco Aime, traduzione di Maria Elena Buslacchi), è stato sostituito da una invenzione coloniale francese, il Sahel appunto. Esso all’inizio del secolo scorso ha iniziato a designare una regione orizzontale che va dall’Atlantico al Mar Rosso. Include popolazioni stanziali e nomadi: agricoltori i primi, pastori i secondi. E tre etnie che la colonizzazione fissa e distingue: la razza bianca (berberi tuareg e arabi) a Nord, quella rossa (peul) al centro, quella nera a Sud. Questa classificazione, che Amselle smonta di ogni base scientifica mostrando le mescolanze e le ibridazioni che si sono storicamente determinate, è però ancora a fondamento del nostro modo di guardare a quest’area, cruciale per il futuro dell’Africa (e dell’Europa).
Infatti, dagli anni ’70 del Novecento questa zona di transizione e di contatto tra il Sahara e la savana, è diventata una delle aree più problematiche del mondo: fragilità economica, siccità e carestie, hanno provocato i primi “rifugiati climatici”, e le migrazioni verso i Paesi costieri che stanno di fronte a noi. L’impoverimento della regione, a causa anche di politiche di liberalizzazione dei mercati e dei cereali in particolare, ha portato a insurrezioni, instabilità politica e militare. Il rovesciamento di Gheddafi ha fatto il resto. Forze della jihad hanno occupato il Sud del Mali, spingendo la Francia a intervenire militarmente nel 2013, con una operazione che si è rivelata un fallimento. Tra le cause di questo insuccesso francese, vi è proprio la lettura sbagliata dei militari francesi che continuano a ragionare secondo le categorie coloniali. “Tuareg e peul non accetteranno mai di sottomettersi ai neri del Sud”. Una interpretazione etnicista e razzista ha guidato l’esercito francese, ignorando la diversità delle popolazioni coinvolte, la polisemia delle loro identità, etc.
Anche gli intellettuali saheliani hanno avuto la loro parte di responsabilità. Essi, cresciuti nella cultura francese e coltivati dalle istituzioni culturali francesi con premi e cattedre, hanno prodotto un’immagine “franco-africana” dei loro Paesi, una magnificazione dell’Africa che rischia di diventare un razzismo alla rovescia. La loro produzione letteraria, cinematografica, artistica tende a presentare una società locale saheliana messa sotto attacco dal jihadismo visto come fenomeno esterno, sostenuto dalle potenze degli Stati del Golfo. Amselle sostiene invece che la re-islamizzazione, in paesi come il Mali, corrisponde al desiderio di alcuni di seguire i precetti dell’Islam in maniera più fedele, legandosi al mondo arabo-musulmano nonostante –paradosso ulteriore – il razzismo cui sono sottoposti i migranti saheliani nei Paesi del Maghreb.
Amselle arriva a sostenere che occorre vedere nelle usanze imposte dal jihadismo (obbligo del velo per le donne, divieto di ascoltare e suonare musica, divieto di portare i pantaloni per gli uomini) il ripristino di un certo ordine, percepito come tale dagli abitanti. E qui tutti ricordiamo il bel film del regista Abderrahmane Sissako, Bamako, e poi il bellissimo, Timbuktu, in cui si mostrano le aberranti azioni di divieto da parte dei jihadisti verso musica, calcio e sigarette, i matrimoni forzati, i tribunali inventati, e diventa impossibile condividere il punto di vista di Amselle.
Così è discutibile l’affermazione seguente: “come non vedere che dietro i piagnucolii diffusi sul peggioramento della condizione femminile causato dall’islamismo si cela una scarsa comprensione degli spazi di libertà di cui godono le donne africane in società presentate come governate da un dominio maschile assoluto?” Come pure quando egli, a proposito della distruzione dei mausolei e del rogo dei libri operati dagli jihadisti a Timbuctù, sostiene che si sarebbe trattato di episodi più contenuti, in cui sono stati distrutti solo i muri che circondano le tombe dei santi, perché contrari alle prescrizioni musulmane, e il rogo dei libri avrebbe riguardato soltanto la copertina dei libri e non i libri stessi.
Il punto è qui, se si tratti di islamofobia eccessiva come sostiene Amselle, o se invece anche l’antropologo non debba anziché sdrammatizzare e relativizzare le descrizioni drammatiche fornite su questi fatti, aiutarne la comprensione e fissarne la natura oppressiva.
Amselle anche critica il punto di vista di autori come Senghor (il poeta della negritudine), e di altri incluso Descola (l’antropologo della mondiazione), che si iscrivono secondo lui in una crociata vitalista che sostituisce le visioni del mondo africane a quelle occidentali in risposta alla crisi ecologica, all’antispecismo, alla sfida dell’Antropocene. Categorie culturaliste che per Amselle hanno lo svantaggio di non mostrare i conflitti sociali e politici che caratterizzano i continenti e i Paesi.
Nonostante ciò, il libro rappresenta un indispensabile strumento di conoscenza della realtà sub-sahariana. Mostra l’inconsistenza delle immagini prevalenti, etnicizzate e razzializzate, che noi abbiamo di questi Paesi, e i luoghi comuni: i tuareg “buoni” plagiati da islamisti esterni, i peul dotati di un “ethos” pastorale particolare mentre sono in realtà molto più mescolati e ibridati, i neri sedentari del Sud contadino, feticisti e animisti, impermeabili all’islamizzazione. Tutti questi luoghi comuni hanno impedito di capire le ragioni dei conflitti. La colonizzazione continua ancora nell’epoca post-coloniale, nel senso di costruire una società rigida, basata sull’etnia e sulla casta, laddove c’erano fluidità e ibridazione.
Nell’invitarci a un cambio di prospettiva, questo libro mostra le retoriche del potere, e spiega come una duplicità di modelli esista: un modello gerarchico, militare e guerriero, e un modello egualitario, basato su una democrazia autoctona di cacciatori che fondano tribù e stati. Ma è evidente che l’idea di democrazia e di stato ha qui una sua tutt’affatto diversa connotazione rispetto all’Occidente, pur non escludendo una interpretazione autoctona e panafricana di democrazia. Il valore del libro di Amselle è di mostrare, dietro le dichiarazioni e le apparenze della retorica politica e religiosa, i giochi di potere che ogni attore sta giocando per controllare una parte di territorio politico in questa regione cruciale. Il Sahel fantasma di oggi, come l’Africa fantasma di Michel Leiris cent’anni fa, ci mostra l’ambiguità di una realtà che il colonialismo ha costruito per dominare, e che oggi si rovescia nel suo esatto contrario: una minaccia permanente alle porte dell’Europa e dell’Occidente.