Delhi capitale dei sud del mondo

4 Aprile 2024

33 milioni di abitanti in 8 città che si sono susseguite nel tempo, dalla fondazione alle invasioni moghul, alla colonizzazione britannica, all’indipendenza del 1947, alla partizione tra India e Pakistan che ha portato milioni di nuovi immigrati, al boom neoliberale al nuovo nazionalismo di Modi: tutto questo è Delhi, la capitale del Paese più popoloso al mondo, una democrazia che torna al voto tra due mesi. Sei accolto da grandi ritratti di Modi ad ogni angolo di strade e superstrade, il leader globale che accoglie altri leader di Paesi del Sud del mondo, una propaganda pari solo a quella di Putin in Russia e di Xi in Cina. Eppure, Delhi è, a differenza di Mosca degli oligarchi e di Pechino dei burocrati di regime, una città che esprime anche altro: una vitalità di strati e classi sociali in movimento, grandi povertà e grandi ricchezze, alto e basso, religioni e denaro, estrema modernità e altrettanto forte tradizione.

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“Non c’era una casa con molte stanze ma una sola stanza, la vita era regolata dalle temperature” mi racconta il professor Om Mathur nella sua casa borghese nel quartiere di Vasant Vihar, a metà strada tra l’aeroporto internazionale Indira Ghandi e la ricca zona delle ambasciate e dei parchi. La città è tutta a strati, quartieri, compounds, comunità recintate. Tra i massimi esperti di urbanizzazione, autore di un fondamentale testo su Changing Paradigms of Urbanization del Centre for Social and Economic Progress (2024), il professore mi parla della Delhi della sua infanzia in rapporto alla Delhi che si proietta nel futuro. Tra 2022 e 2047 la popolazione indiana crescerà di 330 milioni di persone superando largamente la Cina, e Delhi sarà in cima a questa crescita urbana, mentre la popolazione rurale inizierà a diminuire in termini assoluti a partire dal 2029. Questa crescita urbana farà transitare l’economia urbana dalla classe medio-bassa attuale (35%) alla classe medio-alta dell’economia urbana (50%). E la povertà? gli chiedo, avendo appena letto sulla prima pagina di India Today – accanto alla foto immancabile di Modi che annuncia “una nazione risoluta in un mondo incerto” – che la povertà in India è scesa a quota 5% della popolazione con una spesa media urbana procapite di 6.400 rupie mensili pari a 77 dollari usa (ma solo 3.700 rupie nelle aree rurali). “I dati ufficiali sono inattendibili” mi spiega il professore, perché il sistema di calcolo censuario è cambiato e rende impossibili le comparazioni intertemporali. La “trappola dei dati” è usata largamente dagli organi governativi per presentare una faccia del Paese che non corrisponde alla realtà. Oggi, ad esempio, si dice che la popolazione urbana è pari al 60% della popolazione totale ma non è così, “qui a 20 chilometri dalla città ci sono solo villaggi”.  La grande difficoltà degli intellettuali indiani traspare esplicitamente nella nostra conversazione, gli esperti non sono ascoltati se non assecondano la propaganda governativa.

Dove va l’India e quale modello sta seguendo, è la domanda che gli pongo essendo cruciale per capire il mondo oggi e domani a partire da Delhi, sempre più capitale dei Sud del mondo. L’India punta all’auto-sufficienza, che è l’opposto della globalizzazione, risponde il professore. Qui capisco per la prima volta chiaramente cosa significa de-globalizzazione: puntare su sé stessi per un Paese come l’India significa cambiare i rapporti con il resto del mondo. Ma le esportazioni indiane per il momento rappresentano solo 435 miliardi di dollari, lontanissimi dai 2.000 miliardi cui punta il governo per il 2030. Come raggiungere un simile traguardo? Puntare a intermediare tra Cina e Usa, ricevendo beni dalla Cina, ad esempio nel settore telecomunicazioni, per trasformarli e spedirli sui ricchi mercati occidentali. Questo spiega la crescita di una nuova città satellite a sud di Delhi, Gurgaon, in pochi anni assurta a distretto tecnologico avanzatissimo e sede di multinazionali, con grattacieli che non ci sono nella Delhi fatta solo di edifici di media altezza. Ma per ora, “ci sono prodotti cinesi in ogni casa indiana” osserva il professore. Una globalizzazione passiva basata sui consumi delle famiglie, anziché attiva e guidata dalle esportazioni di beni avanzati.

Fuori, la città si estende nella grande New Delhi disegnata nel 1912 da Edwin Lutyens, l’architetto britannico ispirato dalle città-giardino di Ebezener Howard: e sei colpito dalla trama verde dei parchi e dei giardini, dal Nehru Park ai Lodi Gardens dove la domenica si riuniscono le famiglie per fare il picnic, e le coppie di fidanzati.  

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Simbolo di Delhi è anche l’Imperial Hotel, l’albergo coloniale visitato da re e imperatori, dove si dà oggi appuntamento l’alta borghesia della città per matrimoni, incontri d’affari, riunioni di famiglia. 

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Ma ai bordi delle strade continuamente emerge la povertà e il degrado, gente che dorme sotto i ponti, e ti chiede la carità (“sono dei racket” commenta l’autista fedele portavoce del governo “perché il governo dà alloggi e sfama tutta la popolazione e lo ha fatto anche durante il lockdown”), mentre altri mi spiegano che in quei due anni molta popolazione povera non ha avuto di che sopravvivere. In alcuni snodi dove si ergono i villaggi dei poveri, il governo ha fatto costruire muri che nel 2023 nascondessero questi grumi di povertà agli occhi dei governanti del G20 riuniti a Delhi. 

La densità urbana cresce avvicinandosi a Old Delhi, alle spalle del Red Fort simbolo dell’impero moghul di Shah Jahan: qui i mercati sono ovunque, e ci vanno a comprare ogni cosa sia i benestanti che i poveri, in un miscuglio di ogni tipo di mezzi di trasporto, di rumori e di odori. 

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Luoghi di spiritualità, come il tempio giainista dentro la città vecchia, si alternano ad alberghi di infima categoria e a ogni tipo di commerci. 

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Spiritualità che si ritrova al massimo grado nell’altro quartiere storico medievale di Hazrat Nizamuddin, una baraccopoli musulmana sorta intorno alla tomba del Santo sufi Nizamuddin Auliya , altissima figura di convivenza e dialogo interreligioso,  che dal XIV secolo attira fedeli da tutta l’India e non solo musulmani, e dove ancora tutti i giovedì sera si intonano la musica e i canti qawwali, come settecento anni fa.

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Mi guida in questa visita a Delhi, anziché la Lonely Planet, il formidabile libro su Delhi (Feltrinelli, 2015) di Rana Dasgupta, scrittore britannico di origini indiane. Egli spiega assai bene le discontinuità e le fratture, il punto di vista delle classi di arricchiti che oggi dominano Delhi, di chi ha ereditato rendite urbane trasformando la propria casa in condomini di alto valore commerciale: “aspettiamoci il peggio per sopravvivere meglio” è il loro motto, mentre l’uso spregiudicato della corruzione è presente nelle istituzioni a ogni livello. Egli spiega la convivenza di classi medie e medio-alte e di poveri estremi, “una città vive grazie a quelli che vivono nelle baracche e nei bassifondi”, e che diventano autisti, venditori, ciabattini, operai edili, sono loro a far funzionare la città. Nascono così storie di autocostruzioni abusive e di successive demolizioni e trasferimenti (ad esempio per far posto ai Giochi del Commonwealth del 2010), che punteggiano la storia recente di Delhi come del resto di Mumbai (e altrove, di Instanbul e altre metropoli dei Sud del mondo).

Delhi è così una città-simbolo del XXI secolo, unisce ogni ricchezza e ogni povertà, terreni degradati e inquinati e parchi magnifici, tratti di fiume puliti e splendenti a Nord di Delhi e fiume nero e fangoso a Delhi, super-ricchi globali e classi medie che resistono scavandosi un pozzo abusivo nel proprio giardino. La città è presidiata e militarizzata in molte parti ricche e di regime, abbandonata a sé stessa in tutte le parti povere e degradate. Ogni contraddizione convive, come gli antichi templi abbandonati alla vegetazione accanto a resort e ville di lusso recintate e sorvegliate.

(Le foto di Delhi sono di Renata Semenza).

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