Scabia: San Giorgio sconfitto dal drago

8 Novembre 2022

Tre giorni con bambini e ragazzi a inventare una città ideale, costruire e far recitare dei pupazzi, scrivere un giornale, costruire un drago che dovrà combattere contro un cavaliere e poi smontare tutto: un’azione lampo, ripetuta per dodici volte in dodici luoghi d’Abruzzo, sperimentando un meccanismo teatrale, forse pedagogico, sicuramente politico. Forse un drago nascerà è una delle invenzioni pioneristiche di Giuliano Scabia, alle origini del suo Teatro Vagante, materializzata esattamente 50 anni fa, tra aprile e maggio 1972, secondo un progetto itinerante che ha attraversato città come L’Aquila e Pescara, ciascuna di esse in diversi quartieri, e paesi più piccoli come Fossa e Massa d’Albe. Un esperimento di partecipazione unico, che Scabia porta a compimento dopo alcune precedenti esperienze di proto-animazione negli anni immediatamente precedenti e quell’altra sfida in quartieri diversi che furono le azioni di decentramento a Torino nella stagione 1969/70. Di quelle azioni, così come degli altri lavori precedenti, Scabia aveva tenuto un diario, poi raccolto nel poderoso volume Teatro nello spazio degli scontri (Bulzoni, 1973). Anche di Forse un drago nascerà scrive un diario, raccoglie foto e concepisce un libro di racconto e riflessione, pubblicato l’anno successivo (Emme edizioni, 1973), che oggi torna nelle librerie in una nuova edizione, arricchita di due saggi di Francesco Cappa e Laura Vallortigara (ed. Babalibri).

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Non si tratta di una riedizione di commemorazione o di semplice memoria, anche se è importante la possibilità di tornare a confrontarsi con alcune pietre d’angolo di un’epoca teatrale che ha saputo inventare davvero nuovi linguaggi e nuove modalità, ma soprattutto ha saputo esprimere nuove domande. La riedizione, insomma, si configura non semplicemente come un’operazione storica, ma soprattutto come un atto profondamente contemporaneo. Perché contemporanei sono i temi, i modi, gli snodi che Scabia riesce a mettere a punto, e che ancora oggi – direi, soprattutto oggi – sono necessari per rimettere in gioco la necessità del teatro. Che era poi ciò che muoveva Scabia: la necessità del teatro, unita a quella della scrittura.

Perché l’altro aspetto che caratterizza il libro è proprio la scrittura, ossia la capacità dell’autore di risucchiarci con l’enunciazione della sua parola di narratore nell’entusiasmo del suo fare e del suo riferire, così come nella lucidità del suo riflettere. Così, Forse un drago nascerà si legge non solo come un documento e uno studio sul teatro di partecipazione, ma anche come un avvincente diario di due mesi di avventura tra il Gran Sasso e l’Adriatico, grazie a una scrittura erede dello sperimentalismo a cui l’autore giovane aveva aderito, che qui frantuma la narrazione in appunti, punteggiature ardite, schemi e disegnini, che danno al lettore il brivido di assistere in diretta a qualcosa che sta nascendo, ma anche il gusto di giocare con la lettura e la sua grafica leggera, come farebbe un bambino.

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Teramo 15 maggio 1972, La città sottocoperta, ph. Dario Cipressi.

Il libro, e questo già Scabia lo sapeva, si offre a tante diverse tipologie di lettore. Il pedagogista troverà spunti per il suo lavoro, così come chi si occupa di teatro, di antropologia, di sociologia, eccetera. Perché nel suo fare teatro Scabia non metteva semplicemente quello – il teatro – ma tutto quello che dentro quella parola poteva stare, allargando all’infinito i suoi confini, risucchiando al suo interno la complessità del reale, che per lui era rappresentata e rappresentabile soprattutto nel concetto di scontro. Il teatro era il luogo dove lo scontro trovava spazio di rivelazione. Anche, soprattutto, quando entrava nelle classi per lavorare con i bambini, che nel gioco teatrale, o meglio nella grande varietà di azioni e lavori che lui chiamava teatro (non solo recitare, ma scrivere, dipingere, parlare, cantare, giocare...), rivelavano l’orizzonte degli scontri che li circondava e che li attraversava: in famiglia, nella scuola, nella città.

Aggressività e divertimento sono i due poli tra cui si muovono molte azioni svolte durante il progetto abruzzese: Scabia registra tutto, non giudica, osserva, e il suo mettersi in ascolto è già di per sé azione, azione politica, cioè in grado se non di cambiare le cose, almeno di farle emergere. E per una mamma che trascina via la figlia “da questa pagliacciata” o una preside che nega impaurita l’uso della struttura scolastica (a Villavallelonga, obbligando il Drago a cambiare paese), c’è sempre un’altra mamma o una maestra che scopre nei figli e negli allievi ciò che non ha saputo vedere prima. È buffo, ma anche rivelatore il racconto di quando i ragazzi di Massa nel loro spettacolo “accusano la maestra di dar loro punizioni per avere soldi” (in quel paese c’era la multa di 5 lire per ogni parola in dialetto detta a scuola), e alla fine “i ragazzi picchiano la maestra”, interpretata in scena da uno di loro, e “le maestre vere guardano perplesse”.

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Chieti Scalo 20 aprile 1972, La redazione, ph. Dario Cipressi.

Atto pedagogico, non solo per i bambini; atto teatrale, dove il teatro può essere anche la redazione di un giornale o un’assemblea per dirsi quello che è andato storto; atto politico, cioè della polis. È proprio la polis il nucleo del progetto, ossia la costruzione di una nuova città. All’arrivo in ciascuno dei dodici luoghi, il colorato furgone del Teatro Vagante scarica i materiali e i bambini (più spesso ragazzi delle scuole medie) come prima cosa costruiscono una nuova città con gli scatoloni e i materiali a disposizione, che i giovanissimi ribattezzano con un referendum dopo il dibattito: Nuova Avezzano e Aquila Nuovissima, per esempio, ma anche Amicopoli (a Teramo) o Minimondo (al quartiere San Donato di Pescara).

Scabia osserva la creazione delle dodici città nuove che avvengono sotto l’egida di un grande totem, la figura archetipica del Fondatore, registra come i ragazzi proiettino in quel gioco apparentemente così banale la complessità delle loro esperienze: tante casette individuali o un agglomerato compatto, con la chiesa o con la biblioteca, con scritte sui muri (W Pci!) o con il mare (ad Avezzano, dove il mare non c’è). Forse un drago nascerà è anche un anti-trattato di urbanistica, che racconta quartieri e paesi, strade vere e piazze inventate, ma soprattutto gli abitanti, quelli con pochi anni e già tante aspettative e tanti condizionamenti sulle loro spalle, e gli adulti, sempre troppo ingombranti, finanche negativi, come il questore di Teramo, che nel giorno dell’uccisione del commissario Calabresi proibisce a Scabia il corteo del drago nelle strade: c’è da spiegare come andò a finire? Il grande drago, un tubo di stoffa, come i dragoni cinesi, condotto dai bambini che ci stanno dentro, se ne andò ugualmente in giro per la città, giocando a sfuggire alla polizia, con gran divertimento di tutti.

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Il drago, ph. di Sebastiana Papa.

Non c’è solo la costruzione della città in quella incredibile e irripetibile esperienza. Scabia puntella i tre giorni passati in ogni luogo con molte altre cose, ed è stupefacente vedere come riuscisse a concentrare tutto, pur con tutte le difficoltà, gli insuccessi, gli sconforti, tutti fedelmente riferiti perché parte anch’essi dell’esito del progetto: non c’è un esito negativo quando è riconosciuto e diventa occasione di ripensamento. C’era il giornale, per esempio: i ragazzi scrivono, discutono di quel che hanno scritto (ah, le assemblee degli anni 70, sempre a rischio di essere estenuanti, ma sempre feconde di pensiero, e palestre di confronto e ascolto: cioè, avrebbe detto Scabia, di teatro), e poi si stampa con il ciclostile per essere distribuito, il tutto in mezza giornata. C’era anche il teatro, certo, con i pupazzi, i costumi, le scenette, ideate e realizzate dai partecipanti per raccontare la loro quotidianità, che è sempre una quotidianità dove emergono, sia pure con divertimento, i conflitti assorbiti dai bambini-parafulmine degli scontri familiari, della repressione scolastica, come nell’episodio delle maestre che multano il dialetto, o di una città non a loro misura.

E poi c’è il momento della catarsi, che solo a Lanciano (dove il progetto si ferma appena due giorni) non viene realizzato: l’apparizione, appunto, del grande drago costruito dai bambini, che gira per le strade, fino a incontrare un cavaliere, cioè lo stesso Scabia. Chi vincerà? Fin dal primo scontro, ecco la sorpresa del ribaltamento: vince il drago! Il motivo dell’inedito esito del leggendario duello lo spiegano a Scabia i ragazzi stessi: perché il drago è espressione della collettività che l’ha plasmato. Ancora una volta, Scabia ascolta, osserva, registra, anche l’imprevisto, soprattutto quello.

Lo immaginiamo farlo per tutti quei giorni in giro per l’Abruzzo, lo immaginiamo mentre scrive il diario di bordo di questa avventura poetica, lo immaginiamo mentre lo riscrive per la pubblicazione, arricchendolo di continue chiose di riflessione, che non solo non appesantiscono, ma rendono ancor più vivo e incisivo il racconto, restituendocelo con la freschezza con la quale arriva a noi dopo cinquant’anni.

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Il Cavaliere, ph. Cesidio Gualtieri.

Così come dopo cinquant’anni arriva a noi quello che rappresenta il lascito storico più significativo dal punto di vista teatrale, che ho volutamente lasciato in fondo: il dispositivo drammaturgico dello “schema vuoto”, che non a caso Scabia definisce anche “dramma didattico”. Agli albori dell’animazione teatrale, di tutte le esperienze di teatro con i ragazzi, di quello che oggi, da non molti anni, è diventato il sempre più diffuso teatro di partecipazione, Scabia mette a punto un sistema, che immediatamente si definisce in modo a-sistematico: lo schema vuoto, appunto.

Ossia, un canovaccio, che correttamente Cappa nella sua introduzione collega alla grande tradizione della Commedia dell’arte: una scaletta, che richiede un forte pensiero creativo iniziale, una grande complessità concettuale e anche drammaturgica, direi una forte rigidità, e che tuttavia deve proporsi con il massimo di elasticità e di capacità di assorbimento delle condizioni nelle quali quello schema va applicato. Il lettore riesce a divertirsi anche in questo, nel vedere come lo schema vuoto raccontato all’inizio venga poi declinato in modo diversissimo nelle diverse località, in un vortice di fascinazione delle variabili e delle varianti, che è poi uno dei sensi più entusiasmanti per quell’inventore di un teatro della socialità, delle possibilità, dei mondi ancora da scoprire, che è stato Giuliano Scabia.

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