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Spazi di negazione

1 Gennaio 2023

Ci vorrebbe Georges Perec, lo scrittore amante delle liste e degli elenchi, della descrizione delle cose, delle abitudini e degli spazi ordinari, per stendere un sensato “bestiario” degli spazi della negazione. D’altra parte ognuno di noi potrebbe stendere il proprio elenco, perché non è difficile constatare come la negazione sia la cifra comune di tutte le strutture spaziali che ci circondano. 

“Non entrare e non bussare” leggo scritto sulle porte di un corridoio cieco, scandito da ingressi tutti uguali e ravvicinati, ciascuno per un diverso ambulatorio medico. Il monito si ripete ad ogni porta e struttura la disposizione dei corpi, le azioni, il mandato. 

“Spegni il cellulare e stai zitto”: leggo scritto sullo schermo del cinema all’inizio della proiezione, con un monito che – pur nella presunzione dell’ironia – suona di fatto minaccioso anche nelle piacevolezze del tempo libero. Vietato giocare a pallone, vietato il passaggio alle biciclette, vietata la consumazione di cibo per strada. È vietato. 

Dispositivi di negazione agiscono continuamente negli spazi che abitiamo e nascondono, cancellano, rimuovono. Chiudono, sigillano, oscurano. Confinano, isolano, separano. Immunizzano, precludono, sterilizzano. 

Di volta in volta è precluso il gioco ai bambini nei cortili condominiali, l’assembramento davanti a un locale, sedersi sui gradini del sagrato di una chiesa o dormire nello spazio pubblico su una panchina (anche se non hai un tetto), l’accesso ad un parco nelle ore serali, la vista al pubblico di una mensa per i poveri. O, per dirla con il suo rovescio, è proscritto il gioco, il vociare, il sedersi, il movimento, il sonno, la seduta, la povertà, le relazioni tra adolescenti.

Già negli anni Settanta Henri Lefebvre ci spiegava che la città è il luogo per eccellenza dove – sotto forma di linguaggi e di scritture urbane – si trasmettono ordini, vere e proprie consegne per l’azione, per quando e per come, se e perché (Il diritto alla città, 1970). Nella città lo spazio è “sovraccarico di ordini, divieti molteplici, interferenze, è significante di ciò che si deve o non si deve fare e, all’interno del messaggio sempre dissimulato del potere, esprime soprattutto ciò che è proibito fare: “Lo spazio dà ordini ai corpi; prescrive o vieta dei gesti e dei percorsi” (Lefebvre H., La produzione dello spazio, 1976, p. 151). È un’esperienza che ciascuno di noi fa, in ogni momento della propria giornata.

Oggi però il sistema dei significati e dei valori che si giocano nello spazio pubblico assume sfumature più complesse. Quella stessa idea di qualità e di bellezza diffusa e accessibile a tutti che ha fatto la storia delle città europee, fatte di piazze e di monumenti straordinari, di paesaggi naturali in cui natura e cultura si sono intrecciati nel corso dei secoli, ha molti oppositori.

Molte città si stanno dotando di un’architettura ostile (o difensiva), studiata per inibire la presenza delle persone nello spazio pubblico. È la stessa vita pulsante della città a suscitare un istinto di controllo in certe componenti politiche e su alcune fasce della popolazione. 

Il bestiario degli spazi si arricchisce anno dopo anno: panchine con braccioli in mezzo che impediscono di potersi sdraiare, spunzoni anti-seduta disposti sulle soglie delle vetrine, spunzoni anti-skateboard, dissuasori ultrasonici che emettono un sibilo disturbante e percepibile solo dai ragazzi più giovani. In Francia li chiamano arredi disciplinanti, quelle soluzioni capaci di determinare i comportamenti delle persone negli spazi collettivi. In nome del controllo e di una presunta maggiore sicurezza degli spazi si snatura uno dei caratteri più forti dell’identità delle nostre città: la capacità di accogliere, di mescolare le differenze, di integrare la varietà delle persone, persino di sostare nello spazio pubblico e di incontrarsi.

Siamo diventati esperti persino a usare l’illuminazione per scoraggiare gli assembramenti di adolescenti: un’illuminazione rosa accentua i difetti fisici come l’acne, dissuadendo così gli incontri ravvicinati, com’è accaduto nella città inglese di Mansfield. La luce blu è stata invece scelta nei bagni pubblici della capitale olandese L’Aia per rendere più difficile ai tossicodipendenti trovare le vene. Tutti piccoli ma diabolici dispositivi che Selena Savic definisce “design del fastidio” (Unpleasant Design, 2013), per cui non servono più neppure divieti e costrizioni, bastano sofisticati messaggi subliminali.

Città un tempo note per la loro attitudine all’accoglienza (una per tutti a Firenze e lo Spedale degli Innocenti), oggi attrezzano gli spazi pubblici con dispositivi di controllo e dissuasori di comportamenti sociali. È vietato sedersi persino nelle cattedrali – soprattutto nelle città turistiche – dove l’accesso è quasi sempre a pagamento. Talvolta, persino stare in piedi per troppo tempo, fermi, senza un evidente scopo, può venire percepito come una minaccia all’ordine pubblico.

La buona educazione degli oppressi (Alegre, 2019) così la definisce nel titolo del suo libro Wolf Bukowski – nasce dall’affermarsi progressivo dell’ideologia del decoro e della lotta al degrado, parimenti cara, sebbene in forme diverse, alla destra e alla sinistra. I centri urbani debbono apparire ordinati e puliti, come fossimo dentro un enorme centro commerciale, la movida disciplinata e contenuta negli spazi del commercio, via i ragazzi che occupano gli spazi pubblici senza consumare, lontano dalla vista di cittadini e dei turisti i più poveri. In questa prospettiva possono essere letti i provvedimenti pubblici e le ordinanze che limitano i movimenti delle persone (dai primi Daspo urbani formulati dall’ex ministro Minniti del 2017 ai più recenti, ma identici per logica e cultura, decreti anti-rave).

Nella logica del decoro la città stessa gioca un ruolo cruciale, si negano in modo sistematico gli spazi di socialità che nascano fuori da un circuito commerciale, si sgomberano gli spazi occupati, si investe in modo massiccio in video-sorveglianza e lo spazio pubblico viene inibito ai ragazzi, ai non consumatori, ai poveri, ai senzatetto.

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Qui sta tutta la negazione dell’idea stessa di urbanità che, come dicevamo, è stata la cifra vincente delle città europee, una dimensione legata all’ospitalità dei luoghi, una predisposizione ad accogliere e facilitare le relazioni umane, lo scambio e la comunicazione tra diversi. Una dimensione legata alla qualità della convivenza civile, a un’idea di cittadinanza inclusiva e tollerante. 

Ma se perdiamo questa urbanità che cosa rimarrà della nostra secolare cultura civile? Sono i comportamenti a fare belle le città, prima dei monumenti e delle piazze restaurate in stile. Ma dove si formano i nostri habitus da cittadini? Dove cresce in noi l’attitudine alla relazione e alla cooperazione? Dove diventiamo animali politici e civili? 

 

Aggiro, rallento, inciampo, scantono, mi fermo, accelero: il mio camminare per le strade è un’inconsapevole successione di piccole discontinuità, sequenza infinita di messaggi che il mio corpo interpreta come la trama di un pentagramma, diventa il mio tempo, le mie abitudini, la natura stessa del mio carattere.

C’è un intreccio misterioso tra quello che siamo, quello che diventiamo con il passare del tempo e i luoghi che abbiamo abitato. Esiste una correlazione profonda tra l’habitat – l’ambiente fisico e sociale in cui ci siamo formati – e l’habitus il nostro abito esteriore, le abitudini acquisite (la comune origine delle parole è evidente), i modi di fare e di pensare, i comportamenti. 

L’umore di una città nasce e cresce nelle strade”, ha scritto qualche giorno fa Beppe Severgnini in un pezzo illuminante sulla vita agra delle strade di Milano. Lo spazio influisce sui comportamenti e i modi di vivere condizionano e plasmano gli spazi; di questa relazione reciproca dobbiamo prenderci cura. 

 

C’è poi un’altra forma di negazione della dimensione sociale, ancora più evidente ma paradossalmente non percepita per l’assuefazione dei nostri occhi, che è la forma stessa dell’architettura.

La nostra vita collettiva è stata da tempo ordinata per scatole e comparti. L’apprendimento è stato affidato alle scuole, l’arte ai musei, la natura ai parchi, la salute agli ospedali, lo sport alle palestre, il sacro alle chiese. Abitiamo in appartamenti – diceva il vecchio Ermanno Olmi – che ci “appartano” dagli altri. 

Questo modello di organizzazione per luoghi e attività dedicate – nato solo alla fine dell’Ottocento – ha definito la forma attuale delle nostre città intorno a funzioni che oggi sono in gran parte mutate.

Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso abbiamo provato a rompere le scatole, ma non ci siamo riusciti. È stato questo il principale tormento di Franco Basaglia quando, per primo, si rese conto con lucidità che proprio nei luoghi di cura della malattia mentale le persone si ammalavano ancora di più, perché diventavano ingranaggi di un’istituzione di controllo e di confinamento.

Il manicomio non era solo un luogo di privazione delle libertà, chiuso e inaccessibile, era un rituale di ripetizione di gesti e di separazione delle persone dal mondo. Era un luogo di contagio originario, che nel tentativo di circoscrivere l’influsso della malattia mentale, la alimentava. Il manicomio, allora e sempre, così come la prigione, ammala di una malattia che non è in sé ma è l’accettazione collettiva della sottrazione di libertà, del controllo formale, della violenza perpetrata e subita. Basaglia rompe gli schemi e i rituali, prima ancora di smontare i muri e le inferriate. Comprende che la malattia prodotta dall’istituzione stessa preposta a curarla è la malattia più insidiosa per la società e avvia un processo di svuotamento del manicomio che è la sua de-istituzionalizzazione.

Sembra una storia lontana ma oggi avrebbe tantissimo da raccontarci, rispetto ai nuovi luoghi di confinamento resi ancora più inaccessibili dalla pandemia: le case di cura per gli anziani, i reparti covid, i nuovi rituali clinici, le paure, il controllo, la violenza. E naturalmente le scuole, gli asili, i luoghi di lavoro e via via i tanti recinti che confinano le nostre vite, anche nelle esperienze più ordinarie.

La libertà è terapeutica, è il primo nucleo di idee che sottende un profondo lavoro di revisione delle prassi, dei ruoli, del concetto stesso di malattia e salute. Un’idea di salute integrale, sensibile ai luoghi, agli spazi, alla bellezza, all’arte portata dentro, tra le mura dei sofferenti. 

La pandemia ci ha fatto riflettere, nuovamente, sulla dimensione della salute. Abbiamo separato la cura del corpo da quella dell’anima, siamo diventati bravissimi a sanare le nostre ferite fisiche dimenticando tutte le altre. Oggi ci misuriamo con una profonda domanda di ricomposizione tra corpo e mente, ma anche tra salute del pianeta, salute delle persone e degli animali, come finalmente suggerisce l’approccio olistico One Health.

Ecco perché non ci basta oggi riconoscere le infinite forme in cui avviene la negazione negli spazi. Se abbiamo imparato così bene la lezione dell’architettura e sappiamo organizzare spazi-tempi-vite per informare i comportamenti collettivi; se i saperi più contemporanei (le neuroscienze su tutti) ci consentono di indagare meglio la nostra umanità per progettare meglio, non è di architettura o di scienze che dovremo dibattere ma del modo in cui le utilizziamo, delle intenzioni e degli obbiettivi che ci prefiggiamo. Dobbiamo avere il coraggio di un vero rovesciamento di senso, di un’innovazione profondamente politica: ribaltare i divieti in desideri, le negazioni in possibilità. 

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