Tutte le speranze di Knausgård

16 Gennaio 2023

Che senso ha la vita umana? Nessuno. Una corsa continua o una statica attesa che, nell’aria stagnante delle nostre vite comuni e dolorose, s’intraveda il barlume di un senso. Ma l’unica rivelazione concessa è il suo contrario: il bagliore improvviso e disperante del non-senso. È, forse, questo il percorso dei nove diversi personaggi che – ognuno raccontandolo in prima persona – abitano l’ultimo libro di Karl Ove Knausgård, La stella del mattino (Feltrinelli, 2022). E potrebbe forse sembrare una deviazione di percorso paradossale, se si considera che la produzione dell’autore norvegese ha visto, finora, come protagonista assoluto la vita dell’autore stesso.

L’opera che lo ha reso celebre, infatti, Min Kamp (La mia lotta), è costituita da sei volumi che compongono quello che è probabilmente il romanzo più lungo del mondo, in cui l’autore offre alla mercé dei lettori i dettagli più intimi della sua vita, sacrificando non solo la sua privacy, ma anche quella della sua famiglia, per nutrire l’atto artistico: uno sterminato autodafé tanto narcisistico quanto spietato. Un’opera (troppo?) ambiziosa, o dissonante, che porta i segni espliciti della monumentalità; il tentativo – ricorrente, disperato – di cercare nella scrittura il senso di un’esistenza che di per sé non pare averne uno: costi quel che costi, anche al prezzo di quattromila personalissime pagine. 

D’altronde, Knausgård non si è fermato lì. Mentre attendeva la nascita della sua quarta figlia ed era in procinto di divorziare da sua moglie, aggiungeva ai sei volumi del Min Kamp anche i quattro tomi del ciclo Årstid encyklopedien (Enciclopedia stagionale), editi sempre da Feltrinelli, dove lo spettacolo autobiografico continua. Il segno letterario di Knausgård è stato finora sempre innescato così: nel segno del “dire la verità, solo la verità, nient’altro che la verità”. Come se la propria vita, in un mondo che tutto espropria e mistifica, fosse rimasta l’unica verità ad appartenerci davvero, l’unico luogo conoscibile del mondo. Nell’epoca dominata dallo strabordio dei dati e dal dominio dello smartphone, nel regno indiscusso dell’autorappresentazione, l’operazione di Knausgård si è iscritta finora nel segno di una domanda: può davvero esistere, oggi, una letteratura completamente sincera? O l’arte è soltanto un filtro più sofisticato di ciò che vogliamo vedere – e far vedere – di noi stessi? Come scrisse Nietzsche: “Abbiamo l’arte per non perire a causa della verità”.

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Oggi, quell’autore di forsennato, quasi ossessivo autobiografismo cambia percorso, e con La stella del mattino scrive un libro non solo di finzione narrativa, ma dove a prendere il sopravvento è l’irreale, l’irrazionale, potremmo dire il fantastico. Nove vite esplodono sotto la pressione inedita di eventi apparentemente assurdi e simultanei, legate all’apparizione improvvisa nel cielo di una nuova stella. L’evento scatena i fenomeni più diversi, ma tutti accomunati da una disperazione individuale che sembra non lasciare scampo. Della disperazione Knausgård si era del resto già occupato quando, come giovane critico d’arte, aveva dedicato pagine intense (e purtroppo non ancora tradotte in italiano) ai quadri di Edvard Munch, l’artista più importante dell’Avanguardia scandinava. A Munch, noto al mainstream per un unico quadro, Urlo, è stata appena dedicata una personale al Musée d'Orsay. Visitandola ho potuto constatare che quella disperazione, lungi dall’essere un oggetto simbolico, permea per intero la sua produzione, attraversa ogni pennellata, persino nei quadri apparentemente più innocui.

La stessa disperazione attraversa, come un’oscura corrente elettrica, anche le nove storylines di La stella del mattino. Una disperazione irrequieta e profonda, che si manifesta allo stesso modo nella morte casuale di un gattino, nell’apparizione di un essere mostruoso nel bosco, nel macabro omicidio di una band metal, nell’angina pectoris di una donna intrappolata all’interno del proprio matrimonio: 

“Non doveva succedere altro. Potevo trascorrere la notte in hotel, andare in ufficio come al solito, tornare a casa nel pomeriggio, cenare, stare insieme ai figli. Leggere per loro, metterli a letto, magari lavorare un’oretta…

Il problema non era la vita in sé, ma il modo in cui la si guardava. A patto, certo, che non si trattasse di un’esistenza che fosse contrassegnata da fame, bisogni o violenza.

Gaute era un bravo padre e un buon marito, premuroso e altruista. Non potevo chiedere di più. E la vita che avevamo insieme era bella, se soltanto mi concentravo sugli aspetti positivi.

Cosa stavo facendo?”

Nel sottofondo di queste nove storie pulsa lo spettro di un’infelicità inafferrabile che culmina nell’affannoso desiderio di una fede, che tuttavia non si realizza mai: i personaggi vogliono credere a qualcosa, provano a farlo, e continuamente falliscono, come annegati che cercano l’aria. Da qui il sottile senso di una condanna che li attraversa tutti: la maledizione di una imperscrutabile tristezza. 

La stella del mattino ritrae una società in cui le donne subiscono la vita coniugale e se ne colpevolizzano, mentre gli uomini provano a fuggirne, perlopiù bevendo. Gli uomini di Knausgård bevono, bevono tantissimo: anche quando il proprio figlio sta per suicidarsi in cantina o quando la moglie è in preda a uno stato psicotico. Il senso di abbandono e disfatta che accomuna questi maschi inadeguati e inetti ricorda molto Drunk il film premio Oscar di Thomas Vinterberg, mentre il continuo ricorso di accadimenti surreali e la sospensione totale delle risposte rievocano alcuni fenomeni televisivi degli ultimi anni come The leftovers di Damon Lindelof e Tom Perrotta o Il miracolo di Niccolò Ammanniti, nonché alcune opere di Lars von Trier come Melancholia. Il tentativo sembra però quello di una riproposizione europea dell’epica nera di Stephen King: il soprannaturale come un buco nel tessuto dei giorni, uno sfondamento da cui qualcosa di oscuro entra, ma anche esce – l’horror come scatenamento di quelle forze che la vita ordinaria aveva addomesticato e che l’assurdo fa ora ritornare a galla, con tanta più forza quanta se n’era messa a tenerle sommerse. Sono le forze nere e infelici del negativo. 

Tutto questo fa di La stella del mattino una poderosa parabola sulla mortalità. Come scrive Egil, uno dei personaggi del romanzo, nel breve “saggio sulla fine” che, sulla scia del Tolstoj di Guerra e pace, Knausgård pone a epilogo del libro: “Stranamente non ho mai avuto paura di morire. Non perché io sia particolarmente coraggioso, ma perché capisco che capiterà anche a me. Con la testa: sì. Da un punto di vista razionale comprendo che un giorno sarà il mio ultimo giorno sulla terra. Eppure, non ci credo. Non realmente. (…) Ma dal momento che molte persone osservano il mondo in maniera irrazionale e, per esempio, credono in Dio, un potere che non può essere visto, misurato e pesato, credono che Gesù Cristo sia risorto dai morti, cosa impossibile partendo dai parametri conosciuti, tutta questa componente irrazionale è stata relegata a una propria sfera dove è la fede, non il sapere a dettare la verità, che, come tutti sanno in realtà non è ‘vera’: è religione”.

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