Una giornata fra l’élite e i forconi

16 Dicembre 2013

Le quattro di pomeriggio del 9 dicembre 2013, Torino, giorno feriale, cristallo invernale sciolto nella paura relativa, nel disagio relativo, nel relativo caos: tre autobus vengono fermati da un gruppo di manifestanti e dai vigili urbani che controllano la loro puntuale disorganizzazione. Alla fermata di via Accademia Albertina ci sono due ragazzi, uno smilzo l’altro grosso, il secondo col bomber il primo con una giacca di jeans imbottita, e una sciarpa finta di Louis Vuitton annodata al collo. Il primo fuma, seduto sulla panchina, mentre li affrontano a male parole tutti quelli che escono forzosamente dai mezzi: giovani e anziani, universitari e donne con il due ruote per la spesa vuoto (i mercati sono chiusi).

 

Mi sposto alla fermata successiva – ce ne sono due a ogni fermata, non guidano, non danno indicazioni, soltanto rispondono a voce alta alle imprecazioni degli astanti. Per ogni ‘voglio solo andare a lavorare’, ‘se non ci seguite il lavoro lo perderete anche quelli che ce l’hanno’. Per ogni ‘è una cosa fascista’, l’urlo ‘vaffanculo coglione, se c’era il Duce a questo punto non ci arrivavamo, l’Italia agli italiani’. Per ogni ‘guarda che il lavoro io l’ho già perso, ma se fate così come faccio a trovarne un altro?’, ‘Ci dispiace, ma qualcuno doveva pur iniziare’.

 

Ritorno indietro, per guardare negli occhi lo smilzo, quello con la sciarpa Louis Vuitton – quello che non fuma, quello abbronzatissimo, pelle di cioccolato incrostata su pelle bianca di Mirafiori, e quell’andamento rapido che da quando sono bambino ascolto quando parlano i figli di meridionali divenuti torinesi di periferia. Un suono, un timbro, e soprattutto un modo di dire ‘minchia’ che non ha nulla dell’originario siciliano e nulla del copiativo milanese. Ma non è la voce, né quello che dice – non solo. Sono gli occhi, e i denti, occhi e denti che portano guai: macchiatissimi di nicotina questi ultimi, accesissimi di cocaina i primi. Lo smilzo non appare aggressivo anche se pronuncia parole aggressive e già molto clichè (‘Il duce’, etc…). Lo smilzo non appare, semplicemente: è una figura scontornata dallo spazio sociale, dal cosmo disordinato che è lo spazio pubblico. È un’illusione, e insieme l’opposto di un’illusione: è uno schiaffo fantasma, ma chi lo emette, quello schiaffo, non è un fantasma.

 

 

Ha un nome, un cognome, un codice fiscale, e probabilmente non è ‘povero’, non soltanto, e non ‘fascista’, non soltanto perlomeno. Con la sua tranquilla gestione del ‘blocco’ (non coordina alcunché, si limita a fare da sponda ai corpi dimessi o tesi o stufi che attraversano lo spazio della pensilina rinunciando al mezzo su cui erano saliti, entrando nel freddo, cambiando temperatura, come in preda allo stordimento, dalla cintura della città al centro);  con la sua presenza impassbille – o impossibile? – si limita a verificare che lo zampino diabolico nel funzionamento della macchina (lo ‘Stato’; il ‘paese’; l’Italia; ‘gli altri’; ‘tutti’) si dispieghi in tutta la sua capacità di generare disagio. Lo smilzo, che a questo punto è l’antieroe medio di questa rivolta, non è un diabolus in machina. È un diabolus extra machina – un manovratore che si fa disturbare volentieri e che disturba per necessità, per investitura, per capacità, per volontà, per carisma e per urgenza.

 

Ci scrutiamo da dieci metri di distanza. Lui non mi scruta, non sono nell’orizzonte degli eventi, non ero sul pullman e non ho l’aria di appartenere a nulla di codificabile. Tiro su un cappuccio di lana cotta sorretto da una cerniera a zip, la lana cotta ha la proprietà di stare in piedi da sola, dietro il mio collo, e se la cerniera è aperta forma due triangoli a sinistra e a destra della mia testa, donando all’aspetto che produco negli altri una caratura medioevale, con una lieve velatura di fantasy. Se fossimo in Dungeons & Dragons, sarei un membro di basso livello della Gilda dei Maghi, e lui sarebbe un rappresentante in piena forma di un Esercito di Scheletri. Non ho voglia di affrontarlo. Ho desiderio di affrontarlo. È sotto casa mia. Sette piani sopra, la mia famiglia. Al livello del terreno, la sua strana idea di guerriglia. Mi avvicino. Mi avvicino per parlargli. Come in altre occasioni, commetto un errore: faccio una cazzata: penso la cosa giusta, dico la cosa sbagliata. Nessuno se ne accorge. Ma per capire meglio chi sono io, e per capire meglio chi è lui, dobbiamo girare le lancette dell’orologio indietro di otto ore. Io sono a palazzo Clerici, a Milano. Lui è in un palazzo costruito nel 1982, a Mappano.

 

2.

 

Il 9 dicembre 2013, alle ore 9,45, ho varcato la soglia di Palazzo Clerici, a Milano, per partecipare come invitato alla seconda di due giornate di pensiero e costruzione di idee intitolate New Narrative for Europe. Il 9 dicembre 2013, alle 7,45, lo smilzo è uscito dalla sua casa di Mappano, nell’hinterland industriale di Torino, e si è diretto all’appuntamento in piazza Derna, nell’estrema periferia che separa la città abitata dall’autostrada Torino-Milano. La seconda giornata di New Narrative for Europe prevedeva l’intervento, nell’ordine, di una senatrice a vita e scienziata, Elena Cattaneo, di Jose Manuel Barroso, Enrico Letta, Laura Morante, molti altri. La giornata dello smilzo prevedeva l’incontro con gli altri, persone che aveva conosciuto ai mercati generali, persone con cui si parla solo di soldi, a volte delle partite, persone che si distinguono le une dalle altre perché le une giocano tutti i giorni con le macchinette, le altre giocano a giorni alterni con le macchinette. Da qualche mese, sempre meno, ma sempre più intensamente.

 

 

New Narrative for Europe è un’iniziativa piena di meriti, tra cui il principale è certamente l’idea di far collidere nella stessa stanza le più alte cariche istituzionali europee e artisti, scrittori, architetti, umanisti, scienziati: insomma, intellettuali – ma senza posti da discutere, o posizioni, o campagne elettorali. Solo con la voglia e la volontà di immaginare un nuovo set di voglie e volontà di essere europei, di non andarsene, di non sparire, di non odiare questa parte di mondo, di non ammazzarsi oggi in Europa.

 

Lo Smilzo, durante il tragitto verso il punto di ritrovo, ha incontrato, nell’ordine: un vecchio compagno delle elementari, due signore con i cani e il carrello per fare la spesa, cui ha detto ‘ non c’è spesa, signora’, con la ‘a’ aperta e la cadenza slavata delle persone della sua classe sociale. Zero risposta dalla signora. Il bavero del finto Vuitton sul mento appuntito. Un paio di sconosciuto, molte macchine, autobus sibilanti, nebbia ferma allo stato di penetrazione del sole. Poi è arrivato, ed è arrivato pure il sole, e non si è scambiato molto altro che informazioni tecniche, pratiche, come ci disponiamo, tu dove ti metti, io dove mi piazzo: una battuta, ma anche la strana sensazione di fare qualcosa che non si è mai fatto.

 

 

Senza dirselo, tutte le persone con cui si ritrova a bloccare il traffico, sono come lui: consumavano, si consumavano, si divertivano, riconsumavano. Ogni tanto sentivano una fitta di vuoto, nel mezzo di questo ciclo continuo. Ora hanno voglia di sentirla di nuovo, quella fitta: hanno voglia che il ciclo ricominci. E il ciclo non ricomincia. E sembra tutto vuoto. E quando tutto è vuoto, è colpa di tutti. E anche se gli automobilisti sono dentro le loro auto, incolpevoli, forse altrettanto brutalizzati, vanno ulteriormente fermati, e brutalizzati. Lo smilzo inizia la sua parte. La mattinata sembra gloriosa. La mattinata sembra una mattinata gloriosa in un novero molto lungo di mattinate merdose.

 

 

Barroso invece appare come un superuomo supertecnico, io conosco molte persone trilingui ma lui davvero scivola dal francese all’inglese allo spagnolo come un animale impara a leccare i suoi piccoli. Barroso sembra un francobollo, parla come un umanista classico, viene da chiedersi se è consapevole che l’Europa è una cosa bellissima fatta nel modo sbagliato – come certe opere d’arte, come la teoria estetica di Adorno suggerisce da qualche parte nelle sue centinaia di pagine, e sono certo che Barroso ha letto o ha sfogliato Adorno, e forse anche Enrico Letta, di sicuro la senatrice Cattaneo, che ha appena detto ‘siamo cacciatori di risultati’.

 

Anch’io sono una persona ben addestrata e piena di ottime motivazioni, e di ambizioni prepotenti, come il 90% delle persone che affollano Palazzo Clerici in questo istante. Ma se siamo tutti così perfetti, perché l’Europa non funziona meglio? Stiamo cacciando i risultati. Ma i risultati stanno cacciando una gran parte di noi. Lo smilzo si avvicina a un’auto francese, gli dice qualcosa di offensivo perché la faccia del francese gli sembra offensiva, negli angoli della bocca. Non capisce il francese, ma riconosce quando qualcuno sta per dire una cosa offensiva. Gli angoli della bocca diventano pezzi di uno stadio successivo dell’evoluzione. Non è un pensiero di Smilzo, ma è qualcosa che sente, senza dargli un nome, e mentre la macchina sgattaiola via, perché non stanno veramente bloccando, non stanno combinando molto più che un gran casino, tira un pugno così forte che la carrozzeria si ammacca. Vaffanculo.

 

3.

 

Più ci penso, più capisco che questa storia è l’incontro forzato tra un possibile membro dell’èlite di un paese in sfacelo, e un villano disperato che vive ormai aldilà del corpo sociale – ma che rimane pur sempre un essere umano, anche se talvolta i membri delle élites illuminate, per quanto illuminati, non riconoscono come simile la luce che brilla nella vita di altre creature più in basso di loro. Ed essere un membro dell’èlite non significa nulla, se non da un punto di vista statistico, economico, culturale: soddisfazioni sociali, soddisfazioni mentali, soddisfazioni materiali.  Pieno di buona volontà e di idee per migliorare la situazione, ma innamorato del proprio status faticosamente raggiunto, con  la volontà di un arco e la potenza di una vena tesa. Questa è la storia di una rivelazione – nel contesto di una mancata rivoluzione, nel più ampio contesto di una mutazione epocale: la nascita di nuove superpotenze storiche e geografiche e la confusione della culla di ogni civiltà (e di ogni colonizzazione, e di ogni brutalità, e di svariate sanguinarietà). Questa è la storia di una persona che conosce l’Asia, senza guadagnarci molto peraltro, contro la storia di una persona che subisce l’Asia, perdendoci parecchio. Le proporzioni del mondo schiacciano tutti, e lo smilzo si fa schiacciare più di tutti. Ma reagisce: digrigna i denti: si offende: offende.

 

Non so cosa pensare. Io sono per il dialogo a oltranza e l'inclusione a oltranza, ma rimango fedele al principio dell'intolleranza verso gli intolleranti. Anche con la forza. E aggiungerei: la prima cosa da dare ai cosiddetti 'poveri' è che diventare 'fascisti' non migliorerà le loro condizioni. E peggiorerà certamente quelle di chi potrebbe un giorno inventare un lavoro in grado di riscattarli. Non so se è chiaro ma trovo immorale e ingiusto che un gruppo di disperati blocchi le giornate dei pochi portatori di speranza ancora in circolazione.

 

Non so cosa pensare. Non voglio ricoprire alcuna carica istituzionale, perché se la ricoprissi dovrei davvero mettermi seduto con lo Smilzo a cercare di capire, e ancor prima di capire dovrei architettare soluzioni complesse in grado di mettere qualche possibilità nelle tasche di queste persone. Sono disperati, sono brutti, sono fascisti senza saperlo e qualcuno pure sapendolo. Ma sono esseri umani, conviventi nello stesso spazio che occupo io, nello stesso spazio che occupa Barroso. Non sono risultati. Non sono dei gran risultati, forse. Ma una cosa è certa: io non voglio essere il loro cacciatore, e mi aspetto che lo Stato – questa camera di compensazione tra il mio snobismo e la loro rabbia, tra la mia frustrazione e la loro corporazione emotiva – funzioni. Ora deve funzionare. L’Europa deve andare un po’ oltre la caccia.

 

Non so cosa pensare. Se non che nessuno ha mai decapitato un capo i cui occhi sapevano ascoltare.

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