Piketty e Sandel: La sfida dell’uguaglianza
Si torna con sempre più frequenza a parlare di uguaglianza. Non è la prima volta che capita in questi ultimi ottant’anni. All’inizio c’era il problema di ristabilire una società di eguali dopo il tempo dei razzismi e degli imperi coloniali. Era la seconda metà degli anni ’40 del secolo scorso. Poi si è iniziato a parlare di pari opportunità (a cominciare dalla questione della donna) di diritti delle minoranze (democrazie politiche incluse).
L’impressione era quella che l’Uguaglianza era una sfida che aveva alle spalle una lunga storia (cominciata con il “primo’89” quello della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789) per passare, con il “secondo ‘89” alle questioni dei diritti sociali dei meno abbienti (politiche di welfare) e poi approdare ai diritti di ambiente dove eguaglianza non era più solo né eguali diritti né pari opportunità, bensì pensare eguaglianza per chi verrà.
La riflessione che propongono Piketty e Sandel in Uguaglianza (Feltrinelli, 20259 parte dalla constatazione che occorre riprendere a riflettere sugli obiettivi non raggiunti in termini di eguaglianza.
La premessa è che il percorso avviato con il “primo ‘89” vada ampliato. La massima è che una democrazia non è tanto una società di liberi ed eguali, bensì una società regolata in modo che gli individui che la compongono sono più liberi ed eguali che in qualsiasi altra forma di convivenza. In altre parole un’approssimazione per difetto e perciò perfettibile.
Questo aspetto è un principio che Piketty e Sandel ripetono più volte in questa loro conversazione e che individuano su tre aspetti dell’uguaglianza: il primo è economico, il secondo è politico e il terzo riguarda le relazioni sociali – la dignità, lo status e il rispetto [p. 17].
La premessa, tuttavia, è prima di tutto politica. A uno sguardo del lungo ‘900 il dato che emerge è che quel processo di riduzione delle differenze e dunque di restringimento della forbice della disuguaglianza, ha avuto un’agenzia protagonista: la socialdemocrazia, più estesamente la costruzione dell’economia di welfare che ha voluto dire attenzione all’innalzamento dei livelli minimi di retribuzione, organizzazione della struttura sanitaria e degli apparati di istruzione volti alla costruzione delle competenze professionali.
Ma se oggi come sottolinea Piketty la socialdemocrazia si autorappresenta come un prodotto “finito o congelato” [p. 21], è perché alle sfide aperte dall’egemonia dell’economia neoliberista, non ha saputo rispondere innovandosi. Laddove per innovazione Piketty sottolinea tre aspetti essenziali (tre vuoti della proposta economica socialdemocratica).
Nell’ordine: 1) l’assenza di una politica volta alla tutela e all’incremento dell’istruzione e della sanità; 2) l’assenza di una politica di intervento fondata sul principio della partecipazione e della contrattazione; ma soprattutto 3) l’assenza di una visione transnazionale dell’idea di sviluppo. Il che significa aver subito le sfide del rapporto Nord-Sud senza avere una visione globale, ma rimanendo prigioniera dello sguardo nazionalistico.
Questo terzo aspetto non riguarda solo il sistema di relazioni complessivo, ma costituisce una spia indiziaria rilevante di quella ideologia del merito. Lo sottolinea Michael Sandel quando riprendendo le riflessioni di Piketty, afferma che la meritocrazia ha un lato oscuro perché è corrosiva del bene comune. “La ragione per cui è corrosiva del bene comune – aggiunge – è che incoraggia chi ha successo a vedere il proprio successo come il risultato del proprio agire, a godere del proprio successo, a dimenticarsi della fortuna e della buona sorte che lo hanno aiutato nel proprio cammino, a scordarsi il proprio debito nei confronti di quanti rendono possibili i suoi risultati” [pp. 56-57].

Connesso con questo c’è un altro aspetto in cui la socialdemocrazia è mancata ed è nelle politiche fiscali. Se è vero, sottolinea Piketty, che “la destra intellettuale si batteva per demolire la tassazione progressiva, … la sinistra intellettuale non era smaniosa di difenderla. Secondo me, questo spiega in parte perché i conservatori hanno vinto la battaglia” [p. 81].
Insieme c’è una seconda da sfida che Sandel riprende dalle osservazioni di Piketty che ancora ha come centro i vuoti politici e culturali delle socialdemocrazie negli ultimi decenni: “il fatto che le persone benestanti e quelle con mezzi modesti vivono sempre più spesso vite separate”. Riguarda l’ambito scolastico, quello sanitario, le strutture del tempo libero. In breve, l’assenza di una politica volta a costruire occasioni e strutture di «vita condivisa».
Un vuoto che sia Sandel che Piketty individuano nel profilo sociale presente nella proposta filosofico-politica di John Rawls e della sua idea di giustizia. Un dato che individua non solo una mancanza culturale, ma soprattutto una mancanza politica nella pratica e nei programmi dei progressisti e dei socialdemocratici nell’ultimo mezzo secolo.
La sinistra non è stata in grado di reagire alle sfide neoliberiste, aggiunge Piketty e continuerà a subire, precisa, “se si metterà a competere con la destra nazionalista sul terreno dell’identità o sui migranti, perché la destra nazionalista sarà sempre più convincente su questo fronte” [p. 109]. Un fronte che non riguarda solo il lavoro. Riguarda, aggiunge Piketty, la posizione imbarazzata sulla questione dei confini, su cosa debba intendersi per identità. Due temi su cui il linguaggio, la comunicazione e la riflessione a sinistra sono alquanto confusi, incerti. Comunque, poco chiari. Al più si corazzano di frasi e contemporaneamente, dimostrano una assenza di proposta politica alternativa.
Un vuoto che dimostra come qualsiasi tema di economia non sia solo “qualcosa di puramente economico”, ma abbia sempre un carattere multidimensionale. La conseguenza di quella subordinazione e di quella sudditanza è la fisionomia del potere. Così è per il potere che non significa solo chi governa, ma soprattutto l’assenza di voce da parte di chi è governato. “La ricchezza e la proprietà – conclude Piketty – non riguardano soltanto il denaro. Riguardano il potere di contrattazione che tu hai nei confronti della tua vita e del resto della società. Quando non possiedi nulla o quando hai soltanto debiti – sei costretto ad accettare qualsiasi condizione lavorativa, qualsiasi salario, perché devi pagare l’affitto” [p. 122].
Un tema che ci riporta forse a una delle fonti sotterranee di questa lunga conversazione tra Sandel e Piketty e che sorprendentemente non sta nelle preoccupazioni di uno scienziato sociale di questo nostro tempo, ma di un intellettuale che con carattere perspicuo aveva visto lontano già molto tempo fa. Era il 1835 e lo scrittore è Alexis de Tocqueville. Che scrive così:
“Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i propri desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri; i suoi figli e i suoi amici formano per lui la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e vegliare sulla loro sorte. È assolto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi.” [Tocqueville, La democrazia in America P.te IV, cap. VI]
Si può dire meglio?
Il tempo di questa scena non era ancora il suo. A me sembra essere il nostro.
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