La destra israeliana dalle origini a Netanyahu
Nel febbraio 2019, in uno dei suoi ultimi interventi pubblici – pubblicato sul periodico “Foreign Policy” – lo storico Zeev Sternhell (1935-2020) si chiede perché Benjamin Netanyahu ami l’estrema destra europea. La matrice di quella simpatia, sottolinea Sternhell sta nell’ostilità crescente verso i valori dell’illuminismo, i diritti umani, l’eguaglianza, l’idea di nazione come comunità di cittadini, più in generale verso gli stranieri. Viceversa, insiste, quell’area politica è volta a esaltare la tradizione, il particolarismo etnico e linguistico, le comunità e le «naturali gerarchie». E dunque apparentemente, per uno strano incidente di percorso, il governo di Israele si trova a essere «di casa» e «a casa», con quelle realtà politiche e culturali che negano la realtà dei fatti. E il fatto è che “a partire dalla Rivoluzione francese il destino degli ebrei è stato legato al destino dei valori liberal. Ovunque i diritti umani e l’uguaglianza fossero mantenuti, la vita era migliore per gli ebrei e ovunque sorgesse il nazionalismo razzista e tribale il pericolo per gli ebrei aumentava”.
Siccome più libertà e più eguaglianza non vuol dire più antisemitismo, allora andrà spiegato che cosa sta accadendo. La realtà non è impazzita. Si è compiuto un profondo processo di trasformazione. Quel processo merita attenzione perché forse non parla solo di una realtà specifica, ma allude a fenomeni che ci riguardano anche più da vicino.
Il libro di Paolo Di Motoli I mastini della terra. La destra israeliana dalle origini all’egemonia, è uno strumento utile per tentare di ricostruire la fisionomia e le tappe di questo processo.
La tesi della monografia, peraltro molto documentata, è la seguente: nella lunga storia politico-culturale del movimento sionista, prima della proclamazione dello Stato di Israele nel maggio 1948, e poi nel lungo conflitto che ha opposto sinistra laburista – espressa nella figura carismatica di David Ben Gurion (1886-1973) – e destra nazionalista – rappresentata inizialmente nella figura carismatica di Zeev Jabotinsky (1880-1940) e in un secondo tempo soprattutto di Menachem Begin (1913-1992) e da Yitzhak Shamir (1915-2012) infine da Benjamin Netanyahu (1949) –, chi ha vinto è stata la destra. E la vittoria, per Di Motoli, non è solo politico elettorale, ma soprattutto culturale.
Un processo che peraltro è rafforzato nella svolta culturale e politica impressa negli ultimi trenta anni, ovvero nel momento dell’ascesa politica di Benjamin Netanyahu nella partita che all’interno del Likud – lo schieramento di destra in cui Netanyahu si è formato ed è cresciuto – si apre nella prima metà degli anni ’90 e che costituisce una riscrittura dell’identità culturale e politica della destra nazionalista del sionismo rispetto alle origini.
Questa parte del libro [pp. 257-368] per molti aspetti è quella più innovativa, almeno per il lettore italiano. Ci tornerò tra poco.
Prima è importante soffermarsi sui caratteri generali della destra nazionalista del sionismo. Il tema centrale, ovvero quello del rapporto con la popolazione araba, è definito da Jabotinsky nel 1923. Il testo è the Iron Wall
“I miei lettori – scrive Jabotinsky – hanno un’idea generale della storia della colonizzazione in altri Paesi. Suggerisco loro di considerare tutti i precedenti con cui hanno familiarità e di vedere se c’è un solo caso di colonizzazione condotta con il consenso della popolazione autoctona. Un tale precedente non esiste”.
Dopo di che immette il ragionamento sulla necessità della divisione senza ibridazione tra ebrei e arabi, di cui il muro dovrebbe essere appunto una garanzia e una «tutela».
La distinzione proposta da Jabotinsky è quella di un colonialismo di insediamento e che dunque non ha il fine si sfruttare la popolazione locale, ma di collocarsi nel territorio ed essere attore produttivo.
In quel processo per Jabotinsky non ha un peso determinante la componente religiosa. L’elemento fondativo è quello della netta separazione tra popolazioni, in cui il fattore religioso o la tradizione religiosa non hanno spazio. Per Jabotinsky pensare al futuro economico significava sostenere un’economia urbana basata sull’industria, sulla costruzione di uno sviluppo commerciale, comunque non su un sistema cooperativo.
All’origine dunque, come uno dei tratti essenziali della destra sionista di prima generazione sta un’idea di destra nazionalista che ha un carattere laico. Il profilo della personalità politica e culturale di Zeev Jabotinsky che traccia Di Motoli, è fondato su un’idea di comunità nazionale etnicamente omogenea.
Questo profilo è destinato a cambiare con la costruzione politica della destra successivamente alla nascita dello Stato.
Se tra anni ’40 e anni ‘50 la destra sionista risulta ancora un attore politico che non ha contribuito in maniera significativa alla costruzione dello Stato, questo profilo inizia a modificarsi con la prima metà degli anni ’60 quando la crisi politica e culturale del mondo laburista israeliano – la forza politica che di fatto ha costruito la struttura economica e la rete dei servizi (dai modelli educativi alle reti di welfare) dello Stato reale negli anni del mandato britannico tra 1917 e 1947 e poi ha governato lo Stato a partire dal 1948 – mostra i primi segni di crisi.
Non è solo una crisi economica quella che la caratterizza, è anche la capacità di rappresentare le forze culturali presenti nel Paese, un Paese che rispetto al processo insediativo in tempo di mandato e dei primi anni di autonomia è caratterizzato da un flusso migratorio in gran parte proveniente non dall’Europa, ma dai paesi arabi, sensibile ai fondamenti identitari religiosi (a cui i laburisti sono alquanto estranei) e su cui si costruisce una identità diversa da quella espressa dalla classe politica di governo. La destra espressa da Menachem Begin tra anni ’50 e anni ’80 si candida già a partire dagli anni ’50 a esprimere il malcontento di una popolazione migrata che si avverte come “tollerata” ma non come protagonista, che percepisce come «non suo» il sistema culturale del paese che gli viene proposto e che sente non valorizzata la sua scala di sensibilità. Ovvero una realtà di cui in un qualche modo si sente «cittadino di serie B».

Questo aspetto è destinato ad avere una grande fortuna politica successivamente alla guerra dei Sei giorni (5-10giugno 1967) quando il problema è in che forma esprimere la nuova stagione che fa dell’espansione territoriale un tratto di identità culturale. Il problema della restituzione o meno dei territori conquistati militarmente nel giugno1967 diventa la questione della propria identità. Quale identità?
Il binomio tradizionalismo religioso–nazionalismo radicale esprime l’egemonia politica della destra capace di assorbire e «unificare» i diversi flussi migratori che hanno più volte modificato la fisionomia sociale del paese a partire dalla fine degli anni ’40. Un dato che si esprime con pochi numeri ma chiari: a partire dal 1977 quando la destra va al governo e la sinistra va all’opposizione, la destra ha governato per 40 anni e la sinistra per 7; nel 1977 tutta l’area della sinistra esprimeva 59 deputati su 120 e oggi ne esprime 20. Un processo che si consolida negli anni ’80, ma che ha una lunga fase preparatoria tra anni ‘50 e anni ’60, e alcune premesse nella destra sionista degli anni ’20 e ’30, e il cui tema essenziale è la sicurezza.
Di Motoli descrive con precisione il processo di costruzione culturale della destra sionista.
Inizialmente gruppo di minoranza, contrario all’ipotesi laburista e forte soprattutto nella piccola e media borghesia urbana, che non sopporta il controllo pubblico sull’economia, la politica interventista dei laburisti di Ben Gurion ed è critica sulla linea di compromesso e di mediazione con il mondo arabo-moderato. Già con Jabotinsky, ma soprattutto con Begin, anche sulla scorta di una posizione in cui il nemico principale è la potenza coloniale inglese, la destra è convinta della necessità di un confronto e di un conflitto per l’affermazione dell’entità statale ebraica che a lungo concepisce «dal mare alle due rive del Giordano» e che solo negli anni ’70 verrà abbandonata con la rinuncia alla Transgiordania. Questa rinuncia non sarà priva di una nuova visione dello spazio territoriale, ora rivendicato non solo sul piano della sicurezza (un tema su cui l’insistenza sul pericolo di un secondo Olocausto costituisce l’argomento sempre più agitato, una dimensione metastorica lo definisce Di Motoli), ma anche su quello della rinascita e della ricostruzione «dell’Israele Antico».
Un tratto che diviene costituente della nuova fase della destra israeliana, quella guidata da Benjamin Netanyahu in cui un ruolo rilevante che Di Motoli indaga con attenzione lo ha l’area teo-con e dei radicalismi religiosi rappresentati dalle due forze politiche che hanno segnato il profilo del governo attuale a presidenza Ntanyahu.
Ovvero: da una parte Itamar Ben-Gvir, attuale ministro della Pubblica sicurezza leader di Otzmaà Yehudit («Potere ebraico») che è espressione politica del movimento Jewish Defense League espresso negli anni ’70 e ’80 da Meir Kahane (1932-1990), un movimento connotato da forti venature di razzismo. Dall’altra Bezalel Smotrich, ministro delle finanze, che viene dalla svolta radicale verso un impianto fondamentalista del Partito nazionale religioso, forza politica che nella lunga storia di Israele ha sempre svolto un ruolo di ponte verso il governo in carica (anche nel tempo dei governi laburisti) e che a partire dagli anni ’70 ha avuto un processo di radicalizzazione. Significativamente, una parte del movimento radicale religioso dei coloni, ovvero Il «Blocco dei fedeli» (in ebraico: Gush Emunim), sulle cui matrici culturali uno studio ancora oggi fondamentale per chi voglia saperne dipiù è Terra e redenzione di Renzo Guolo.
La rilevanza e la centralità di questi due attori politici che probabilmente non sono destinati ad eclissarsi rapidamente, da una parte indicano elementi di affinità con le componenti teocon della destra americana e del mondo cristiano, e dall’altra contribuiscono a fondare una nuova versione dell’ideologia sionista che ormai, con le linee originarie del «socialismo del lavoro», non ha più alcun legame.
Quel processo, tuttavia, riguarda profondamente anche Netanyahu, la cui egemonia nel suo partito di origine, la destra sionista un tempo governata da esponenti laici, è anche il risultato di un cambio di profilo culturale di quello stesso partito. Non solo quella leadership è anche l’effetto di altri due elementi che in un qualche modo parlano anche della crisi politica delle nostre democrazie: da una parte il crollo delle forze politiche progressiste e democratiche a scapito delle forze populiste (di destra estrema o antisistema); dall’altra la crisi della figura del partito politico come luogo della formazione della classe politica che nasce anche in relazione a un confronto tra gruppi. A prevalere ora è la setta come luogo di costruzione di una leadership politica sempre meno bisognosa di procedure democratiche di confronto.
Insieme questo risultato si rispecchia nel crescere di un’opinione pubblica che quando pensa al futuro in gran parte lo pensa come controllo di un territorio da parte di una popolazione omogenea etnicamente, ovvero senza che le popolazioni diverse abbiano diritti, mentre in netto calo è la percentuale di coloro che pensano alla possibilità di una «divisione due popoli, due Stati», oppure uno stato unico che garantisca parità di diritti a tutti i suoi abitanti.
